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Dove si s-ragiona di Eternità. Riflessioni sul "Ritratto ovale" di Poe

Post n°1035 pubblicato il 23 Maggio 2020 da giuliosforza

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   Non ripeterò con la maggioranza dei miei coetanei entsagenden, rinuncianti (vedi i Wilhelm Meisters Wanderjahre) allo Ja zum Leben sagen (vedi l’Also sprach Zarathustra), al ‘ dire Sì alla Vita’; non dirò: questa è l’età dei consuntivi, non faccio preventivi. Io dirò: non faccio consuntivi, faccio solo preventivi. E preventivi a lunghissima scadenza, una scadenza lunga quanto …un’Eternità. Proprio perché sono ‘vecchio’, perché il tempo misurabile, non la bergsoniana durata, s’avvia ormai al suo termine, non mi resta che colmare talmente di sensi il nunc da dilatarlo a beoziana “interminabilis vitae tota simul et perfecta possessio”. Che è come dire: abolisco lo stesso concetto di tempo, perché esiste solo l’Eterno (esiste solo Dio) ed io sono eterno di tale Eternità. Son ‘vecchio’, ma secondo un tempo-spazialità (il tempo dell’orologio), non l’in-tempo-durata, flusso di coscienza. Perciò procedo esultante, con Friedrich, come verso una Sposa, verso una Sposa che ha nome Eternità, l’Eternità che amiamo.

Denn ich liebe dich, o Ewigkeit!”.

*

E. A. Poe, “Il ritratto ovale”.

   Mi è spesso avvenuto di riflettere sulla tragica situazione dell’artista che nell’atto stesso di creare distrugge, nell’atto stesso di offrirsi, sacerdote e vittima insieme, sull’altare dell’Arte per la redenzione del genere umano e del mondo dal brutto (l’unico ‘peccato’, l’unico ‘male’ che l’arte riconosce), con sé fatalmente sacrifica alla divinità vorace quelle persone e quelle cose dalle quale egli trae bellezza o alle quali conferisce bellezza. Autofago ed eterofago, divoratore di se stesso e dei suoi oggetti, mantide religiosa (mantide estetica!) che non solo dopo l’amore divora l’oggetto amato ma con esso se stessa. Amore e morte che soggetto e oggetto annullano, cor unum et anima una, che è poi il fine che ogni amore si propone.

   A fare queste considerazioni mi induce lo strano - ma quale racconto del Visionario non lo è? – racconto di Edgar Allan Poe, che leggo nella collezione ‘I Mammut’ de ‘I grandi tascabili economici Newton’ (Tutti i racconti, le Poesia e «Gordon Pym», seconda edizione, febbraio 1977, introduzione di Tommaso Pisanti): Il ritratto ovale.

   Il breve racconto narra di un non identificato signore gravemente ferito che dal suo domestico viene condotto a forza nella torretta di un castello abbandonato degli Appennini, uno di quei numerosi castelli che negli Appennini sono stati una ‘presenza accigliata’. Per inciso: ho potuto notare che Poe spesso e volentieri nella sua opera fa riferimento all’Italia e cita in originale espressioni idiomatiche nella nostra lingua; eppure non mi risulta che egli nei suoi vagabondari abbia mai lasciato gli Stati Uniti e sia mai arrivato da noi. Evidentemente si tratta solo di reminiscenze letterarie. Il fatto poi che il suo domestico si chiami Pedro, mi fa curiosamente pensare a Città di Castello e a Piero della Francesca, che pur essendo nato a Sansepolcro a Città di Castello lasciò molte delle sue opere più note… ma qui sono io che sto fantasticando. Nella torretta, dunque, tutte le pareti sono tappezzate di quadri di minore o maggior valore, e nelle sue notti insonni e nei suoi giorni di convalescenza l’innominato ospite attenua le sue sofferenze e si placa occhi e anima nella contemplazione dei dipinti che variamente mutano di senso alla luce notturna delle candele o a quella diurna che cade dall’alto della torretta o entra  dai vasti vani delle finestre, ad ogni ora del giorno in toni diversi, più chiari meno chiari, più intensi meno intensi. Con suo grande stupore una notte s’avvede di un quadro depositato in una nicchia nascosta da una colonnina: un ritratto ovale, appunto, della cui storia e del cui autore chiede a un catalogo nel quale sono illustrati tutti i quadri esposti. E da esso legge una dettagliata illustrazione, parte della quale io qui di seguito trascrivo, perché è quella che ha impressionato anche me e ha stimolato le mie riflessioni.

   «…Era una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità. E funesta fu l’ora in cui vide, amò e sposò il pittore. Lui appassionato, sollecito studioso, austero, e già sposato con la sua Arte, lei una fanciulla di rarissima bellezza, e non meno soave che piena di gioiosità; tutta luce e sorrisi, vivace come una cerbiatta; amante e appassionata di tutte le cose; odiava solo l’Arte, che era la sua rivale; temeva solo la tavolozza e i pennelli e gli altri strumenti spiacevoli che la privavano della vista del suo amato. Fu dunque una cosa terribile per questa donna udire il pittore parlare del suo desiderio di ritrarre anche la sua giovane sposa. Ma alla fine, mentre l’opera si avvicinava alla conclusione, nessuno fu più ammesso nella torretta; divenuto folle nell’ardore della sua opera, il pittore distoglieva raramente gli occhi dalla tela, anche solo per osservare il volto della sposa, Ma era umile e obbediente, e posò per molte settimane docilmente nell’oscura e alta camera – nella torretta dove la luce scendeva sulla bianca tela solo dall’alto. Ma egli, il pittore, si gloriava della sua opera che procedeva d’ora in ora, di giorno in giorno, Era un uomo appassionato, ombroso, e lunatico, che sognava a occhi aperti; e non voleva accorgersi che la luce che cadeva così spettralmente in quella solitaria torretta faceva deperire la salute e la vivacità della sua sposa, che sfioriva visibilmente per tutti tranne che per lui. Tuttavia ella sorrideva ancora e sempre, senza lamentarsi, perché vedeva che il pittore (che aveva grande notorietà) traeva un piacere immenso e ardente dal suo lavoro, e lavorava giorno e notte per ritrarre lei che tanto lo amava, ma che diveniva di giorno in giorno più spenta e debole. E in verità chi contemplava il ritratto parlava della sua somiglianza in parole sommesse, come di una grandissima meraviglia, una testimonianza non meno della capacità del pittore che del suo profondo amore per colei che veniva ritraendo in modo così incomparabile. Ma alla fine, mentre l’opera si avvicinava alla conclusione, nessuno fu più ammesso nella torretta; divenuto folle nell’ardore della sua opera, il pittore distoglieva raramente gli occhi dalla tela, anche solo per osservare il volto della sposa. E non voleva accorgersi che i colori che stendeva sulla tela erano sottratti alle gote di lei che gli sedeva vicino. E quando molte settimane furono passate, e solo poco rimaneva da fare, una pennellata sulla bocca e una sfumatura sull’occhio, lo spirito della donna guizzò di nuovo come la fiamma nel bocciolo della lampada. E allora fu data la pennellata, e la sfumatura fu posta; e, per un attimo, il pittore rimase estasiato davanti all’opera che aveva compiuto; ma subito dopo, perso ancora nella contemplazione, divenne tremante e molto pallido, e atterrito, gridando con una voce forte: “Quella è davvero la Vita stessa!” si voltò improvvisamente a osservare la sua amata: Era morta!».

   E non fu Frine distrutta dopo che Prassitele le rubò la bellezza per regalarla alla pietra? E che accadde a Paolina, l’amante di tutti, e fors’anche un poco di suo marito, dopo che Canova l’ebbe defraudata del diafano fascino di splendida ventenne per trasferirlo al marmo?  E forse miglior destino toccò a Monna Lisa Gherardini del Giocondo, a Margherita Luti ‘la Fornarina’ e alla più tragicamente sfortunata di tutte Jeanne Hébuterne?

Guardatevi dagli artisti, quelli grandi, ladri d’anime e di corpi. In cambio di una immortalità in cornice di cui non voi, altri godranno (e lautamente vivranno), vi derubano dell’essenza, vi condannano a morte. Vi svuotano della Vita, vi riducono a larve. Se amate vivere, morite all’Arte.

   E così anche tutta la mia roboante Estetica è sistemata.   

________________

 Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

 

 

 

 

 

 
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