Creato da giuliosforza il 28/11/2008
Riflessione filosofico-poetico-musicale

Cerca in questo Blog

  Trova
 

Area personale

 

Archivio messaggi

 
 << Agosto 2020 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
          1 2
3 4 5 6 7 8 9
10 11 12 13 14 15 16
17 18 19 20 21 22 23
24 25 26 27 28 29 30
31            
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 3
 

Ultime visite al Blog

giuliosforzafantasma.ritrovatom12ps12patrizia112maxnegronichioooooannaschettini2007kunta.mbraffaele.maspericotichPoetessa9avv.Balzfamaggiore2dony686cassetta2
 

Ultimi commenti

Non riesco a cancellare questo intruso faccendiere che...
Inviato da: Giulio Sforza
il 20/11/2023 alle 07:25
 
Forse nei sogni abbiamo una seconda vita
Inviato da: cassetta2
il 01/11/2023 alle 14:32
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:38
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:34
 
Ciao, sono una persona che offre prestiti internazionali. ...
Inviato da: Maël Loton
il 18/09/2023 alle 02:31
 
 

Chi può scrivere sul blog

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

Messaggi di Agosto 2020

Manon Lescaut. Juenger, Furst, Horia, Nemi e la damnatio memoriae

Post n°1043 pubblicato il 28 Agosto 2020 da giuliosforza

962

   Terminata la rilettura di Manon Lescaut di Antoine Françoise Prévost (l’opera pucciniana che le si ispira la semplifica senza tradirla), e la lettura de La vita fa rima con la morte di Amos Oz nato Klausner. Due secoli, due mondi, due stili: il primo mi ricorda Sade, se si esclude la diversa ambientazione e il diverso esito di una vita di sventure. Il secondo, soprattutto nel tipo di scrittura, Thomas Bernhard, la scrittura senza soste e senza respiro zeppa di divagazioni e di contraddizioni, di riprese e di abbandoni che è, ad esempio, quella di Antichi Maestri. E inizio Greta Vidal, romanzo storico ambientato nella Fiume di D’Annunzio (Antonella Sbuelz Carignani presso Frassinelli). Diffidente all’inizio, poco per volta mi lascio catturare e con grande piacere accompagno l’autrice e la protagonista tra gli scogli le spiagge i castelli e i giardini del Carnaro e con esse entro in Fiume, orgia di idealità e libertà, breve miraggio di vita e di luce in un deserto di tenebra e morte, estremo capolavoro che il Poeta-Guerriero, l’Arcangelo Coclite, consegna alla storia ed al mondo.

   Sento di non star sprecando il mio tempo, in questo scorcio di stagione e di vita.

*  

   Nell’Italietta di un interminabile dopoguerra, sbracata e virale, continua la damnatio memoriae nei confronti di personaggi straordinari come il tedesco Ernst Jünger, l’italiana Orsola Nemi, l’americano Henry Furst, il romeno Vintila Horia… Li frequentai e li amai tutti su ‘Il Borghese’, negli anni in cui la rivista di Longanesi era diretta da Mario Tedeschi, ed era tale la sua influenza da far cadere governi e sconquassare correnti politiche. Con uno di essi, Vintila Horia, il romeno naturalizzato francese che per le sue idee anticomuniste fu defraudato del Goncourt, ebbi una breve corrispondenza, tanta quanta bastò a farmene innamorare, anche se su parecchi aspetti della sua complessa personalità dissentivo. Divorai il suo Dio è nato in esilio. Diario di Ovidio dall’esilio, tradotto da Orsola Nemi, moglie di Furst. Anticonformisti, antifascisti durante il fascismo, magari nostalgici dopo, letterati, romanzieri, saggisti, filosofi, traduttori, fiabisti, e stranamente tutti cattolici o convertiti (magari a 101 anni, come Jünger, che ne visse 103), la loro libertà di pensiero, la loro apertura mentale, la loro curiosità intellettuale mi furono in gioventù e dopo di modello. Tutti con tragitti culturali e religiosi diversi, magari opposti ai miei, ma tutti disponibili alla Conoscenza. Per questo tutti li amo e di tutti ho nostalgia, ma oggi particolare simpatia e nostalgia ho di Furst, ministro a Fiume durante la dannunziana Reggenza del Carnaro, circostanza che ignoravo e di cui mi rende edotto un bel romanzo storico assente nella mia vasta bibliografia dannunziana e sorprendentemente donatomi da una mia figlia l’altro ieri, dono per il mio compleanno. Ne è autrice una imprevista ed a me fino ad oggi ignota Antonella Sbuelz Marignani, il suo titolo è Greta Vidal. Una storia di passioni nella Fiume di D’Annunzio, l’editrice è Sperling e Kupfer per Frassinelli 2009.

   Da leggere.

 *

   Un altro sogno ho sognato, verace, che per buon gusto e pudore non dovrei raccontare, ma troppo esilarante perché me ne esima; un atto di scherno, non l’unico ma il più vergognoso e irriverente, e insieme divertente, di cui in vita sia stato testimone.

Nel bel mezzo di un pranzo ufficiale, al cospetto di colleghi accademici italiani della mia disciplina riuniti in congresso, fra i quali io stesso ex accademicuccio, per un fenomeno di grave incontinenza uno dei convitati non riesce a raggiungere la toilette e nel bel mezzo della sala refettorio, nel pieno delle euforie bacchiche (anche si cantava e si ballava al suono di un bandoneòn -cantantibus organis!), infesta di una quantità incredibile di escrementi, quasi fosse un esercito, tutta la sala del consesso. Quale ilarità, dopo il primo disappunto! Mentre lo sventurato si affanna come può con scope secchi e strofinacci nel tentativo di pulire, là dove non basterebbe una squadra, accade una sorta di prodigio che lo salva dall’imbarazzo: una voce possente e misteriosa tuona improvvisa dall’alto: ‘a che pro tanto affanno? Mai un nobile consesso di accademici si ebbe più degno e più nobile saluto’.

   Gli accademici, vecchi e giovani, gelano restando di sasso.

   Accompagnato dal bandoneòn (che son io a suonare) il mio Gruppo Corale Metanoesi intona il Gaudeamusigitur. Gli accademici non si associano. Seriosi barbassori, dimenticarono semplicemente cosa sia goliardia.  

 *

   Dei numerosi incidenti occorsimi in vita, che avrebbero potuto esser mortali, dai quali invece grazie al caso, al fato o a Dio uscii indenne, uno dei più gravi subii agli inizi degli anni Cinquanta, quando appartenevo ad una istituzione religiosa (dalla quale sarei poi uscito per tornare al mio innato, a lungo soffocato,  neopaganesimo panteistico e lirico, nel quale è posto per una religiosità cosmica  che tutte le altre singole forme di religiosità comprende mentre non è da nessuna  di esse, stretta fra le soffocanti gretole  che il simbolo trasformano in dogma, compresa), che non preparava al sacerdozio, ma ad uno stato religioso laicale che ha per compito l’istruzione in ogni ordine e grado. Tali e tanti gli incidenti nella mia vita che potrei tranquillamente affermare tutta una serie di pericoli esser la vita, dall’ultimo dei quali, il più temuto, la morte, vanamente si spera di uscire indenni mediante l’immortalità (anche se, recentemente, qualche dubbio al riguardo mi è stato reinoculato. Ma non da un trattato di teologia -borghesiano “stupendo aspetto della letteratura fantastica”- bensì da alcuni bei versi del poeta postsimbolista dannunzianeggiante Toulet, in cui mi sono imbattuto leggendo D’Ormesson: O vie, tu n' est que signes, masques et symboles Mais peut-être qu'un jour nous saurons de quoi. (Paul-Jean Toulet, cit. d'Ormesson). A quel peut-être m’aggrappo speranzoso.

*

   Alla stazione di Ventimiglia, in un afoso giorno di luglio, s’aspetta in cinque una macchina che deve condurci alla sede degli “Esercizi spirituali ignaziani” ai quali dobbiamo partecipare, situata su un’amena collina a circa tre km sulla riva destra del torrente Roia. Con nostra meraviglia si presenta un signore anzianotto che sappiamo neopatentato ed inesperto di guida su strade attrezzate, figurarsi su un percorso accidentato come quello che dobbiamo affrontare; si presenta a bordo di una vecchia Balilla, non scende dalla macchina (è nervoso perché in ritardo, e già questo ci mette in ansia), e appena chiusi gli sportelli, con uno scatto che è un sussulto, parte. Disastrata, come detto, la strada, piena di buche e di pozzanghere, ma come Dio vuole tra un sobbalzo e l’altro, che a me dà il voltastomaco, s’arriva alla base della collina e si affronta col cuore in gola la salita. Il primo tornante si presenta abbastanza largo e solo leggermente sinuoso: pur con qualche apprensione (lo chauffeur ha problemi con le marce, le ingrana con difficoltà, gratta paurosamente e rischia di spaccare la frizione) lo si supera impunemente. Il secondo si annuncia più problematico: la salita si fa più erta, il tratto diritto è più breve e la curva più angusta. Terzo e quarto tornante come il secondo, ma man mano che si sale l’angoscia anziché diminuire aumenta, come per un brutto presentimento. Lui, l’autista, trionfante, annuncia che ormai è fatta e tenta di lanciarsi a tutto gas in un lungo rettilineo che dovrebbe condurre al piazzale antistante la meta; ma ahimé, ha sbagliato i calcoli e un’ultima curva, nascosta da una rupe e da una fitta vegetazione, appare improvvisa: il maldestro non è pronto ad affrontarla, frena improvvisamente, la macchina nel bloccarsi sobbalza, slitta e a muso in giù precipita per la scarpata. Fortuna vuole che non si capovolga e per qualche metro dolcemente scivoli su l’erba novella spuntata tra una quercia e l’altra a formare soffici praticelli, ma ecco un grosso tronco (è periodo di disboscamento), ostacolo imprevisto ma provvidenziale, bloccare la corsa della Balilla proprio là, sull’orlo di uno strapiombo, dove l’avventura avrebbe potuto avere la sua tragica conclusione. Gli occupanti s’affrettano a scendere increduli e, sotto schock, incapaci di profferir parola, mentre dall’alto della collina una piccola folla, che con trepidazione s’è radunata sul bordo lanciando urla di spavento, improvvisamente tali urla trasforma in esclamazioni di gioia e grida al miracolo. Risaliti i superstiti, si forma una processione che s’avvia tra preghiere e canti alla cappella ove un celebrante intona un Te Deum di ringraziamento.  Ma l’avventura non è terminata. Per molte notti, in camerata, s’odono pianti e gemiti: sono i pianti e i gemiti dei superstiti che o nel sonno inconsciamente liberano in incubi e sogni le soffocate paure o nella veglia, insonni, rivivono come in trance, ad alta voce, ogni fase del fortunoso evento. Non è prevista per essi assistenza psicologica. Dovranno contentarsi dei mantra del Rosario.

 ______________   

   Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

   

 

 

 

 

 

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

pensieri sparsi ferragostani

Post n°1042 pubblicato il 18 Agosto 2020 da giuliosforza

961

   In un angolino della mia piccola libreria al Frainile, fra i volumi tristemente abbandonati e destinati alla solitudine annuale una volta finita la calura estiva, ritrovo un libricino della Feltrinelli, La vita fa rima con la morte (titolo originale HARUZEI HA’ CHAIM VE-HAMAVET) dello scrittore israeliano Amos Oz (nato Amos Klausner), nato nel ’39, morto nel 2018, ma vivo e vegeto quando acquistai il libro nel 2009: un bell’uomo alto e asciutto, ma robusto, col volto scavato dalla vita e una folta capigliatura, il tipo d’uomo che piace a me forse perché mi ricorda mio  padre. Leggo (rileggo?) le prime pagine per cercare di capire che ha da fare il titolo col contenuto, anche perché dalla solita presentazione di quarta di copertina non è facile evincerlo: “Ẻ una calda sera d’estate a Tel Aviv. Lo scrittore è seduto in veste di ospite d’onore a un incontro letterario. Ẻ assente. Le voci dei relatori gli arrivano opache, senza sostanza. Davanti a sé il pubblico. Lui spia volti, gesti, figure. Un timido e occhialuto adolescente. Un tipo malmostoso che sembra in totale disaccordo con l’oratore. E poco prima in un bar aveva messo a fuoco una cameriera dimessa ma provocante, due figure dall’aria losca, una vecchia signora con le gambe gonfie. Sono immagini captate, anzi rubate alla realtà. Sono immagini che diventano storie. Più tardi, mentre vaga da solo nel deserto della città, sente che i personaggi che ha evocato gli sono accanto. E a quel punto entra nelle loro vite, le invade e le trasforma. Le grandi storie da raccontare hanno bisogno solo di un dettaglio, sembra dire Amos Oz. Poi sono magicamente incontrollabili, come l’immaginazione. E ci vengono a svegliare”.

   Primissima impressione: mi par si tratti più di un lungo racconto che di un romanzo. Del romanzo non ha l’ampio respiro. Ma forse sbaglio. Abbandono le altre letture, abbandono l’Keats e il suo Endimione e mi dedico, al fresco del mio solito noce, a questa. Molte rondini volano basse, quasi a sfiorare le cime degli alberi le cui foglie la calura ammoscia e affloscia. Che finalmente piova?   

 *

   Angelo Lucio Rossi.

   Nel numero XXXII de L’Espresso del 2 agosto u. s., trovo un interessante articolo, recante la firma di Francesca Sironi, dal titolo “Per loro la scuola è già finita. Molti ragazzi abbandonano. Troppi non imparano anche se frequentano. Situazioni gravi che la chiusura per il Covid ha ancora peggiorato”.

   Tutto il lungo articolo è dedicato alle iniziative che un dirigente scolastico abruzzese, ora operante in Milano, Angelo Lucio Rossi appunto (nostro amico di rete ed ex allievo della nostra romana ‘fu’ Facoltà di Pedagogia) da anni ha intrapreso, coadiuvato da presidi, docenti, volontari, referenti di note istituzioni (Save the Children, fondazione Milan, Kia Motors, Naturasì, Banco alimentare ecc.,) per recuperare il tempo perduto, e cullando l’ardita (ardita sempre, ma soprattutto in epoca di ‘educazione di massa' – espressione che mi suona non poco una contradictio in terminis) utopia di una ‘scuola aperta’ che recuperi l’essenza radiosa della σχολή. Me, da sempre nostalgico delle primavere elleniche e delle loro solarità, la figura e l’opera di Angelo Lucio Rossi affascinano. Spero che nelle sue utopie qualche suggestione anche sopravviva delle mie esteticamente ‘dis-educative’ farneticazioni pedagogiche. Intanto si abbia i complimenti e gli auguri del Vegliardo.

 

*

   Non vorrei essere frainteso. Quando nel mio precedente messaggio parlo di ardite utopie e di farneticazioni non dico di qualcosa di negativo e di risibile. Le fantasie, le utopie, le farneticazioni sono il mio mondo!

 

*

   Corre a me piangendo. un avanbraccio fasciato da un canovaccio da cucina, Jacopo: mentre giocava beatamente, così dice, in piazza a nascondino (qui da noi da sempre chiamato topa topa) con gli amichetti, una vespa l’ha punto. Maledetta! Per consolarlo gli racconto un episodio capitato a me alla sua stessa età (circa dieci anni), mentre solitario in un pomeriggio assolato come quello odierno  (uno degli ultimi, del resto, trascorsi al borgo: ad ottobre sarei partito per il remoto collegio piemontese che per anni avrebbe accolto le solitarie lacrime del preadolescente crudelmente esiliato dalle chiarità mediterranee alle brume, anche metaforiche, allobroghe) curiosavo tra un cespuglietto e l’altro di ginepri alle pendici basse del monte Croce, che sovrasta il nostro borgo: cercavo tracce di allodole (forse anche per questo Alouette, gentille alouette con quel che segue sarebbe stato il tormentone delle mie passeggiate da collegiale: una sorta di presentimento, di romantica Ahnung), che mi si diceva prediligessero quei cespugli  per nidificare. Attendevo pazientemente, contemplando l’altipiano del Cavaliere ed ammirando gli arabeschi disegnati nel cielo dai caccia che scortavano le formazioni di bombardieri angloamericani diretti al nord. Cessato il monotono terrificante rombo delle fortezze volanti, una lodoletta (quante lodolette sarebbero ricorse nelle mie incursioni nei campi fioriti delle musiche trobadoriche e madrigalesche!) ruotò attorno al luogo del presunto nido, così almeno a me parve, per poi, senza fermarsi, rivolare lontano. Frattanto un fortissimo ronzio, come di uno sciame intero, avvertii provenire da quella parte, e come uno stupido mi avvicinai a curiosare nel cespuglio. Non l’avessi mai fatto! Uno stuolo di centinaia, se non migliaia, di vespe, s’avventò furiosamente su ogni parte scoperta del mio corpicino, esile come quello di chi viene dalle parche mense dei tempi di guerra. Scattai per fuggire precipitosamente giù per l’erta scoscesa, ma inciampai, caddi, e ruzzolon ruzzoloni raggiunsi il sottostante sentiero della Croce delle Vigne; la magrezza m’aveva risparmiato ferite e slogature gravi, ma non l’effetto del veleno: ero gonfio in ogni parte del corpo e terribilmente dolorante. Correndo come una lepre raggiunsi casa urlante dalla sofferenza e attirando l’attenzione di tutti i villici appena levatisi dalla siesta pomeridiana. C’era anche un medico in villeggiatura che mi prestò le prime cure del caso, ma fu impossibile ricoverarmi: mancavano comode strade, soprattutto mancavano le automobili per raggiungere il più vicino ospedale, distante una cinquantina di km. Per fortuna non ce ne fu bisogno e le temute complicazioni allergiche (un mio fratello più grande aveva rischiato la vita per la puntura di un calabrone e s’era salvato dopo un lungo ricovero all’ospedale di Rieti) non sopraggiunsero. Ma quanta paura! Questo fu il secondo dei gravi incidenti occorsomi nell’infanzia e nella fanciullezza, di cui diffusamente ho narrato in una breve autobiografia e su queste stesse pagine. Di altri gravi a rischio di vita che mi sarebbero occorsi in seguito, soprattutto in giovinezza, non dico. Evidentemente avevo gli Dei, o il Fato, amici, se a quasi cent’anni sto ancora qui a narrarne.

*

   Terminata la lettura di Dictator. L’ombra di Cesare, di Andrea Frediani, e resto confermato nell’idea che ogni guerra è sterminio efferato programmato, dai vincitori celebrato come una impresa di civiltà, e che non esistono guerre giuste e guerre ingiuste, e che le stesse guerre di difesa sono una ipocrisia come gli organi politici ad esse preposte.

   Non sono proprio questi gli intenti che Andrea Frediani si propone offrendoci la sua versione romanzata del De bello gallico e del De bello civili; egli assimila lo stile asciutto e scattante di Cesare e con freddezza e determinazione ci narra gli  eccidi e gli stermini a cui le guerre si riducono, e non ha tesi politiche o ideologiche da dimostrare: e dentro gli eccidi e gli stermini trova posto la tragica cronaca di un’amicizia e di un amore, i due sentimenti che anche nel mezzo delle efferatezze belliche sembrano salvarsi e sopravvivere, seppur nel loro fatale destino di fallimento.

   Si legge nel risvolto di copertina: “Gaio Giulio Cesare è poco più di un bambino quando nell’88 avanti Cristo incontra per la prima volta Tito Labieno: i due si salvano la vita a vicenda, suggellando così un’amicizia destinata a durare nel tempo. Anche quando la carriera militare del grande condottiero prende avvio dapprima in Spagna poi in Gallia, Labieno è al suo fianco come principale comandante subalterno, i due elaborano strategie e compiono gesta straordinarie, agiscono in totale sintonia e sono, di fatto, invincibili. Ma mentre la Gallia, anno dopo anno, finisce sotto il tallone di Roma, nell’Urbe cresce la fazione anticesariana, che opera per separare i due indissolubili amici, e anche nello stesso esercito di Cesare c’è chi agisce per screditare Labieno e prenderne il posto.  I loro destini si intrecciano con quelli di Quinto, ambizioso figlio di Labieno, e di due germani: Ortwin, fedele guardia del corpo di Cesare, e Veleda, ragazza di sangue reale finita nelle mani dei romani. Quando il futuro dittatore si dimostra pronto a tutto per difendere quelli che ritiene i propri diritti, Labieno sarà costretto a decidere da quale parte stare. L’ombra di Cesare è il primo capitolo di una avvincente trilogia che ha come protagonista il più grande condottiero di Roma antica”.

   Non so voi, io al ginnasio, da adolescente introverso e solitario, parteggiavo per i vincenti (essi pure destinati alla solitudine): figure come quelle di Alessandro, Cesare e Napoleone (i veri Achilli fuor di leggenda) furono i miei eroi e li consideravo, come essi stessi si consideravano, destinati dagli dei a portare nel mondo progresso e civiltà. Crescendo ho cambiato non poco i miei gusti: sono per lo più dalla parte dei perdenti, fino a che almeno essi stessi non si rivelino col tempo i veri vincenti (si pensi al dopo Waterloo, al dopo prima e seconda guerra mondiale: i tradizionali imperialismi dei vincitori, dominanti in Europa, ne uscirono, vincenti sulla carta, sgominati nella realtà) e dei vincenti vestano a loro volta elmo e lorica e impugnino pugnale e giavellotto. Non credo più nella guerra come igiene del mondo. Non credo più nel progresso che dalle guerre   scaturirebbe.  Cosa è il progresso se non un semplice prolungamento dei cinque sensi esterni? E in quanto a civiltà …mio Dio! i problemi veri dell’uomo, quelli che hanno da fare con le sue ansie, i suoi tormenti, i suoi turbamenti, sono quelli di sempre, se non aumentati, e nulla è stato chiarito sul suo senso e i suoi destini, sul mistero dell’esserci e del non esserci, del tempo e dell’eternità, della vita e della morte. Il ‘divino’ Macedone, Cesare, Napoleone mutarono sì le sorti del mondo, ma il loro scettro di che lagrime grondò e di che sangue! E la semente LEF (Liberté Ẻgalité Fraternité) a larghe mani sparsa da Napoleone nell’universo terracqueo, dopo Waterloo iniziò a germinare e a creare una umanità nuova certo, ma nuova di quale novità?

   Sono portato a non credere più nelle magnifiche sorti e progressive. Antileopardiano per costituzione, in vecchiaia sono spinto a ricredermi. E a ripellegrinare contrito al Recanatese.   

*

__________________

  Chàirete Dàimones!

   Laudati sieno gli dei, e magnificata da tutti viventi la infinita, semplicissima, unissima, altissima et absolutissima causa, principio et uno (Bruno Nolano).

   

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963