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VENDETTE, CASTIGHI E SEMIFREDDI

Post n°106 pubblicato il 16 Settembre 2014 da ElettrikaPsike
 

 

-LA VENDETTA E' IL DUELLO DEI POVERI-

Prosper Mérimée

 

Quel che più può nella gente è la forza brutta della sofferenza,

non la qualità del sofferente.

Vendicare [...] è leccare, freddo, quel che un altro

ha cucinato troppo caldo.      

(João Guimarães Rosa)

 

 

..si parlava della vendetta in un carteggio digitale con un amico.

Sulla concezione di vendetta come correzione di una situazione disequilibrata e di conseguente riequilibrio karmico, ammantata di un valore anche esemplare, tanto riparatore quanto propedeutico.

Questa era la tesi da lui presentata e sostenuta con l'orgoglio dei giusti che sanno di essere dalla giusta parte ed io,  appena un po' meno orgogliosamente convinta che esista una bussola umana più attendibile della coscienza ad  indicarci la via più gentile verso "la parte giusta", gli ho risposto che ci ho creduto anche io. E che, a caldo, senza riflettere, o meglio, riflettendo solo con una logica parziale di visceralità, e pure bendata, con la bilancina in una mano e una katana nell'altra, ho sostenuto a lungo questa "morale della vendetta", vedendola come nient'altro che una compensazione, un atto per ristabilire l'ordine precedentemente scomposto.

Ed ho anche aggiunto che come ristrutturazione di una condizione incrinata sembrerebbe, può sembrare, l'unica ed ovvia conseguenza possibile.

Stessa cosa come fine: per un insegnamento fondato sull'empatica compartecipazione al dolore e mirato alla comprensione e alla successiva presa di coscienza del torto posto in atto, potremmo tranquillamente sostenere che la "vendetta" sembra nuovamente essere la scelta più corretta, e forse pure la più illuminata tra le conseguenze possibili.

Idem per quanto riguarda l'esigenza di riscuotere un risarcimento sentito come lecito a causa dell'aggravante di essere stati danneggiati, (e neppure in risposta ad una nostra offesa!) senza  l'onore sotterraneo dell'essere stati noi ad aver "colpito per primi".

Quindi la "vendetta", così vista, non sarebbe che una legittima difesa, ed alla fine del ragionamento, una banale riscossione con gli interessi.

Idem ancora per il discorso legittimo della pena a carattere preventivo, come promemoria per eventuali e successive analoghe infrazioni...

Tutto bene e logico, con un "se" alla fine. 

Se e sempre che tutti questi presupposti e tutte queste premesse che rendono perfettamente corretti i nostri sillogismi vendicativi, fossero e siano veri; cioè impostati su quelle premesse maggiori davvero vere. La risposta probabilmente potrebbe essere un forse no.

Ed intanto si profilano come a scuola tanti punti di domanda con un ma perplesso davanti ad ognuno di essi. Ma la vendetta è davvero un'azione riparatrice? Restituisce il male, si, ma è efficacemente risolutrice e compensatoria?

E ristabilisce poi, a cose fatte, l'equilibrio incrinato? E gli interessi, l'aggravante inclusa nella richiesta di compensazione, sono davvero una matematica restituzione di giustizia?

E quest'atto vendicativo da servire macinato e freddo ha sul serio una funzione esemplare? E su chi? Ma soprattutto come?

E poi è anche così indubbio il valore propedeutico della vendetta? ha davvero valore e capacità di insegnare qualcosa?

Qualsiasi vendetta pretende di punire una colpevolezza sempre relativa con un castigo maggiorato e irreparabile e parte dal presupposto che nessuno di coloro che hanno commesso l'azione dannosa fosse già in una condizione di pena o fosse vittima di un'ulteriore situazione a loro danno e potesse essere recuperabile attraverso altri mezzi. La possibilità dell’errore permane sempre e comunque nell'analisi di una situazione e quanto si va a giudicare è un contesto necessariamente ed esclusivamente parziale. Non si ha la visione globale di una situazione. La storiografia ci insegna a indagare sulle cause e non solo sugli effetti.

Si dice che un delitto impunito infetti, ma che un’innocenza condannata insudici allo stesso modo; io credo che un'azione a nostro danno possa assolutamente essere cambiata a nostro favore e riscattata; ma non attraverso altro sporco.

Non si cancella nulla, mai, si può solo trasformare. Ma non si trasformano in soddisfazione e abbondanza il danno e l'offesa attraverso gli stessi ingredienti che compongono il danno e l'offesa.

Pensiamo all’esemplarità del castigo,  riferito nella fattispecie da Camus alla pena di morte, ma applicabile anche al di là  (o al di qua) della pena capitale: affinché sia da monito per chiunque la punizione dovrebbe intanto avvenire davanti agli occhi di più persone possibili e per poter essere veramente esemplare dovrebbe essere tanto spaventosa da macchiare ineluttabilmente di una colpa maggiore del danno subito chiunque la metta in atto, facendo così  ricadere la vittima in una condizione di infrazione pesante e di dolo.

Questo, paradossalmente, e da un punto di vista anche soltanto logico, non farebbe affatto ristabilire una condizione di neutralità laddove prima era avvenuta un'infrazione ma costituirebbe, invece, le basi per una nuova condizione ancora più illegittima della precedente, instaurando un meccanismo che presupporrebbe una nuova e conseguente rappresaglia a cui seguirebbe necessariamente un'ulteriore azione vendicativa etc. In sostanza finchè la morte (degli antagonisti e/o o dei loro discendenti) non tagli ad accettate la loro sequenza ripetitiva di orrori.

Nessuna azione vendicativa, inoltre, può intimidire chi non sa che compirà un delitto o un'azione dolorosa, né tanto meno può intimidire chi è irriducibile nel commettere azioni illecite. Alla luce di queste premesse, ha ragione Camus a sostenere che questa esemplarità della pena  finisce con il diventare ipocrisia. Anche la vendetta, infatti, è un castigo che sanziona senza prevenire. 

Il perdono vero è quello che richiede un minimo di familiarità con la voce amore e un po' più di concentrazione sull'etica che non sulla mores, e consiste nella distinzione netta tra l'azione e colui che l'ha compiuta. Così che colui che si definisce ladro, non si chiami ladro; ma uomo. Non sia l'incarnazione dell'azione del rubare, ma  prima di ogni altra definizione gli appartenga la sua imprescindibile condizione di essere uomo, che poi ha commesso l'azione del rubare, certo, ma che non è diventato l'essenza stessa del furto.  

Francesco d'Assisi, pare abbia detto una volta, riferendosi ad un prete particolarmente corrotto e vizioso, "si, lo so che lui di per sè non va bene, lo vedo, e lo riconosco; ma nonostante questo scelgo di decidere che lui vada bene di per me".

E' una questione di scelta, solo di libera scelta. Si può scegliere di essere seguaci delle Erinni, e definirci come loro sempre dalla parte dell'ordine stabilito, insorgendo con torce e fruste contro la violazione di quello che si reputa essere un diritto, e con la supervisione di Nέμεσις, la ridistributrice della giustizia, si provveda a compiere la definitiva cucitura sui delitti irrisolti e impuniti. Ed in modo assolutamente lecito tra l'altro, perchè lecita è la forza delle divinità alate evocata quando il danno è compiuto contro le persone più amate, i figli, i fratelli, gli amici, e quindi anche legittimo per tutte quelle premesse maggiori logiche e già viste, ma che hanno anche un "se" alla fine.

Se si scelgono le Erinni, sarebbe però bene aspettarsi un dessert leggermente diverso da quello che ci rifila il menù della Vendetta.

Si dice infatti che il gusto del dolce servito freddo non sia molto conveniente. E che di dolce abbia ben poco al di fuori del nome e dell' accattivante presentazione nel piatto. Corre voce invece che chi sceglie di accoppiarsi con quel sangue abbia non molto idilliaci risvolti. Benchè i Greci nell'antichità fossero particolarmente scrupolosi nel non pronunciare il vero nome delle alate divinità punitive, appellandole invece con i più gentili tra gli eufemismi, il loro appellativo rispondeva alla meno seducente definizione di "coloro che mandano la pazzia".

Al contrario, pare che perdonando qualcun altro si possa arrivare anche al perdono di noi stessi, e dal momento che la persona alla quale perdoniamo sempre meno siamo proprio noi, si dice che così facendo, invece di diventare folli, ci si liberi dal e del passato.

Erinnerung in tedesco significa ricordo, ma se si sceglie di non accompagnarsi con le Erinni, che di memoria certo non difettavano, rimane davvero solo quello che significa, un ricordo. Una semplice riproduzione di una rappresentazione passata.

Però ricordo vuol anche dire "farsi interno a sé"; e nel farci interni a noi stessi ciò che si mostrava solo in forma esteriore e nell'aspetto della molteplicità, diventa così un universale, un andare in noi stessi recando a coscienza il nostro interno.

Io al tedesco rispondo con il greco, e se devo ricordare, allora ricordo l'anamnesis...

 

 

 

Le immagini del post sono di Alberto Pancorbo.

 

 

 
 
 
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