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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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Post n°822 pubblicato il 24 Agosto 2019 da enodas

 

 

 

Ancora una volta, il paesaggio del Nord mi affascina. Sotto un cielo d'estate, anche se metà agosto l'estate da queste parti rischia già di essere andato, ho visitato finalmente quella che tra le capitali scandinave é la più bella. E l'ho fatto con quel fascino di ordine ed organizzazione che ogni volta, salendo a certe latitudini, in Europa si manifestano per come dovrebbe essere, eppure per noi non cessa di stupire. Splendente, come una gemma riflessa sulle acque calme e pallidamente intense dei fiordi, un labirinto di isole, isolotti e perfino scogli, incastonata in quella tela di colroi nordici, fredda, silenziosa, introspettiva. Che bastava davvero poco per abbandonare la perfezione della città ed immergersi nella nitidezza del paesaggio circostante, per circondarsi del silenzio.

 

 

Cerco di perdermi, tra un continuo saliscendi, alla ricerca di queste stradine nel cuore vecchio della città. Non che sia facile, visto che scopro presto di poter percorrere un'isola intera a passi svelti. Cerco di perdermi, per respirare quella calma un po' patinata dei centri storici, anche quando e dove non me lo sarei aspettato, come fosse un piccolo scrigno racchiuso in questa corona di isole che come tessere vanno a comporre la città. Perché perdersi, in questi contesti, é sempre un piacere. Passaggi tanto stretti da sfiorare i muri spalla a spalla e strade secondarie che improvvisamente piombano nel silenzio. L'isola centrale di Stoccolma é un po' un'isola del tempo, dove la calma del passato si unisce con le ondate di visitatori del presente, in quell'organizzazione perfetta del Paese, e nel contesto d'acqua del paesaggio, creando angoli talmente idillici da sembrare a tratti non reali.

 

 

Sono in navigazione. Attraverso un lago gigante che sembra quasi un mare. Confina col mare, in realtà, del quale non é diventato altro che un lungo braccio proteso entro la terra. Su una costa lontana, sarà un castello, un palazzo reale, o magari una terra silenziosa fatta di tumuli e rune scolpite nella pietra. Non importa più di tanto, per ora. Ai lati é una successione silenziosa di isole, una costa verde che si fonde direttamente con l'acqua. In un volo pindarico, questo paesaggio il suo incedere lento e profondo, per un attimo mi ricorda la Patagonia, i fiordi inaccessibili all'orizzone, quel tratto di navigazione una volta abbandonata Chiloe. Non fosse per le case di legno e le barche, decisamente più scintillanti che compaiono di tanto in tanto, riflettendo sguardo dopo sguardo un paesaggio più dolce e meno crudele. Le acque stesse nella loro calma mi riportano a questo continente, mentre resto seduto al parapetto di un ponte di un battello a vapore che sbuffa ed avanza lentamente e lascio che un cielo freddo ed in continua variazione, altrettanto lentamente, si insinui tra le pieghe della mia anima. Eppure, questo pensiero non può che far balzare un nodo inaspettato, e strapparmi un sorriso nascosto.

 

 

I Vichinghi consideravano la terra una deviazione ed il mare la propria patria, un'ostacolo sulla loro via. E questo é il loro luogo. Da una lastra proiettata verso il cielo ora plumbeo ora irraggiato di luce, é quanto appare, avvolto ora nel silenzio della Storia ed una fronda di alberi che ondeggiano ai miei piedi, prima di giungere all'acqua, fino a scomparire all'orizzonte, oltre i tumuli accennati, le capre che strappano l'erba, l'accenno di un muro. Quello stesso orizzonte, dove si perdevano fino a fondersi in un punto non più visibile le navi più intrepide, gli uomini più coraggiosi, quelli che nel nostro immaginario identifichiamo Vichinghi. Verso sud, in quell'autrostrada di acqua, dove magari il sole sorgeva infuocato, oltre la barriera di infinite tempeste e le raffiche di vento che dal mare salivano fino a qua sopra, su questa collina di pietra scarnita. Chissà se anche loro si voltassero indietro e lasciassero agli occhi il compito di un altimo saluto senza parole.

 

 

Appena ho varcato la soglia del museo ed é apparsa in tutta la sua imponenza, non ho potuto che provare meraviglia. Oltre quanto potessi immaginare, questo museo - vivente, in un certo senso - costruito attorno ad un relitto completo. Un palazzo intero, sospeso ora su travi possenti che sorreggono la chiglia in equilibrio. Destino beffardo di un gigante caduto immediatamente dopo pochi attimi di vita, trascinando nel baratro esistenze, storie ed infine l'orgoglio cieco di un re, e proprio per questo arrivato fino ad oggi. Vivente, perché nella sua rovina ha congelato in un istante l'esistenza di quegli sfortunati che erano a bordo, custodendo tra le assi di legno anche piccoli oggetti insignificanti ed allo stesso tempo fondamentali. E perché nel toccarla con gli occhi, quasi sfiorarla con le dita, tanto é vicina, sembra quasi di udire i versi dei gabbiani, il mormorio della folla, il frangersi del mare, molto più in basso, alla base di quella chiglia che non seppe mantenere un equilibrio stabile al primo colpo di vento. Prima che il mormorio diventasse un urlo di stupore e terrore, era già sparita dentro un vortice di acque gelide e grigie ed era inghiottita dalle pieghe del tempo.

 

 

L'ultimo fotogramma é ancora un paesaggio d'acqua. Un isolotto che percorso a piedi, generosamente richiederà non più di un'ora. Ci arrivo la sera, anticipando il tramonto che nel pallore nordico si preannuncia all'orizzonte. Arrivare al termine della giornata, quando ormai inizia ad essere fuori stagione, é quasi come sbarcare in un angolo di deserto circondato dal mare. Oltrepasso piccoli negozi chiusi ed un ristorante silenzioso, barche di pescatori spiaggiate su una manciata di metri quadrati di sabbia, e mi dirigo verso quella punta più lontana di roccia che prende il sopravvento sulla banchina e diventa ultima lingua di terra protratta sul mare. Qui giacciono, seminascosti, ultimi pezzi di artiglieria ormai abbandonati, in un tempo, non poi tanto lontano, in cui questo luogo era un avamposto militare. Qui, sotto un cielo plumbeo che mischia minacce di pioggia in lontananza e raggi di tramonto sparsi, é come essere giunti alla fine del mondo, un angolo di roccia tumultuoso come i colori gelidi all'orizzonte ed allo stesso tempo immobilmente calmo come l'acqua che ondeggia fino a terra, quel silenzio che a tratti sembra quasi fatto di spettri, che affascina e ritorna, melodia di un tema principale, che attacca appena lascio la città alle spalle su una qualsiasi imbarcazione. Come se fosse una meta sconosciuta all'orizzonte. Anche quando si tratta di una manciata di chilometri. Potere del mare, di questo mare nordico, piatto e silenzioso, dalle sfumature fredde ed immobili.

 

 
 
 
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