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la musica, suonare il pianoforte, suonare il mio violino, la luce del tramonto, ascoltare il mare in una spiaggia deserta, guardare il cielo stellato, l’arte, i frattali, viaggiare, conoscere e scoprire cose nuove, perdermi nei musei, andare al cinema, camminare, correre, nuotare, le immagini riflesse sull’acqua, fare fotografie, il profumo della pioggia, l’inverno, le persone semplici, il pane fresco ancora caldo, i fuochi d’artificio, la pizza il gelato e la cioccolata


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l’ipocrisia, l’opportunismo, chi indossa una maschera solo per piacere a qualcuno, l’arroganza, chi pretende di dirmi cosa devo fare, chi giudica, chi ha sempre un problema più grosso del mio, sentirmi tradito, le offese gratuite, i luoghi affollati, essere al centro dell’attenzione, chi non ascolta, chi parla tanto ma poi…, l’invidia, il passato di verdura





 
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- M. Rees -
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Suonando...


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Granada
Asturias

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Sonata n.3 op.10 (n.7)
Sonata op.13 “Patetica” (n.8)
Sonata n.2 op.27
“Chiaro di luna” (n.14)

Sonata op.53 “Waldstein” (n.21)

Chopin

Notturni

Debussy

Suite Bergamasque
Deux Arabesques

Liszt

Valse Oublièe
Valse Impromptu

Schubert

Impromptu n.3 op.90
Impromptu n.2 op.142




 

 

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Post n°854 pubblicato il 04 Maggio 2020 da enodas

 

 

C'é che ogni tanto non riesco proprio a sopportarlo. E' sempre stato così, dalla scuola e l'università, dove ricordo esemplari fuori dal comune. Ed adesso, quando capita, in ambito lavorativo. Quell'atteggiamento smaccatamente arrogante, che sia diretto verso di me o verso qualcun'altro non ha nemmeno tanta importanza. Solo che come sempre sul momento mi manca la risposta pronta, deglutita con un nodo alla gola o sulla punta della lingua. O magari mi trattengo, cercando di osservare la situazione a lungo termine. Magari un po' ingenuamente dicendomi che la prossima volta risponderò per le rime, perché so che é un modo di fare, e prima o poi capiterà di nuovo. So che non paga. Ed al tempo stesso la frustrazione mi cova dentro, come fosse un pensiero avvelenato che mi fa stare male, e non sono capaci di far sì che sia assorbita in fretta. Allora mi ripeto che l'arroganza umilia anche se si ha ragione, figurarsi quando si é pure in errore. Senza che per questo tutto mi scivoli via. Semplicemente, mi da un fastidio che non riesco a reggere. Da sempre.


 
 
 

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Post n°853 pubblicato il 16 Aprile 2020 da enodas

 

 

Sono tornato ai miei racconti, agli appunti sparsi, alle immagini. Idealmente, allora, viaggiavo portando in spalla libri che sapessero guidarmi lungo strade sconosciute che le mappe non sapevano definire. L'ho fatto d'istinto, prima ancora di sfogliare le pagine dei suoi libri. E là nel profondo Sud del mondo, tra immagini vecchie e nuove di America Latina, c'erano anche le sue pagine, le sue parole, i suoi romanzi. Una frontiera scomparsa, le rose di un deserto, un treno perduto lungo binari mitici. Sì, lui mi ha preso per mano. Era con me, ad osservare gli splendidi cieli patagonici, ad percorrere sentieri tortuosi su autobus sgangherati, ad attraversare un confine perduto a bordo di una nave spazzata dal vento. C'era lui, alla fine del mondo. Lui, attraverso i paesaggi, attraverso le figure che silenziose si sovrapponevano e poi nuovamente scomparivano, proprio come quelle rose che fioriscono un giorno speciale in uno dei luoghi più aridi del pianeta. Se mi sono emozionato nell'ascoltare quelle storie, le molte voci rese silenziose dal tempo, se mi sono commosso davanti alla bellezza disarmante di un paesaggio che sognavo molto prima di conoscerlo, che ancora sogno, quando chiudo gli occhi e mi rimetto su quelle strade, é anche perché quelle pagine le ho lette, e quella voce narrante mi é entrata dentro. Tra la terra e il cielo.
Addio, Luis.

 

 

"...Alle dieci del mattino il deserto di Atacama si mostrava in tutto il suo spietato splendore, e io capii definitivamente perchè la pelle dei suoi abitanti appare vecchia prima del tempo, segnata dal sole e dai venti impregnati di salnitro..."

 
 
 

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Post n°852 pubblicato il 07 Aprile 2020 da enodas

 

 

C'é un motivo per cui questi giorni mi sono trovato a ripercorrere questo blog sin dall'inizio. E' uno di quei progetti, come ironicamente li chiamo io, che ogni tanto mi saltano per la mente. Tornare indietro e, soprattutto, attraversare alcuni post, di quelli che magari durano anni, non é un esercizio semplice. Anche senza volerlo, prima o poi lo schermo si ferma su uno di quei messaggi. Altre volte, invece, ho faticato ad inquadrare esattamente da dove fossero partiti i miei pensieri nel farmi scrivere ciò che ho scritto.
Mi trovo stupito, ad ogni modo, nel rendermi conto di quanto ci sia lungo queste pagine di inchiostro virtuale, quanti piccoli temi sotto forma di blog. Ho pensato che questo mio mondo, dopo tanto scrivere, in qualche modo é in parte la mia storia. E forse sarà anche una constatazione banale, ma é un pensiero che mi ha lasciato stupito ed al tempo stesso mi ha fatto anche un po' paura.
Ma soprattutto, in questo lungo percorso a ritroso, sono andato a cercare i miei appunti di viaggio, sono andato a perdermi tra immagini, passi, e molto altro. Di cui narrerò, ma soltanto tra qualche giorno...

 

 
 
 

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Post n°851 pubblicato il 30 Marzo 2020 da enodas

 

 

Come sempre con qualche giorno di ritardo. Perché non so il motivo, ma questa data di fine marzo non riesco mai a ricordarla al momento giusto. Come altre volte, é quella voce al telefono che mi riporta a delle sere d'estate di tanti anni fa, e ad un'immagine fissa che non é cambiata. Perché la verità é che alla fine quella rimane l'unica immagine che ho. L'unica che abbiamo. E non é cambiata la voce, il parlare, il tempo che si ferma e cambia dimensione, e quella sensazione di avere uno sguardo che sappia osservare e parlare a recessi nascosti e quasi inaccessibili. Forse é per questo che ogni volta questo rituale capiti con qualche giorno di ritardo. Forse é per questo che poi, nuovamente, passano mesi. Perché si crei una distanza di sicurezza, che mi protegga. Io in un modo o nell'altro vorrei ripeterti tutto questo. Ed atterrare tra le pagine di un libro o tra le dune di sabbia di un deserto. Non avrebbe poi molta importanza, se da qualche parte il tempo si fosse piegato a quel momento.

 

 
 
 

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Post n°850 pubblicato il 22 Marzo 2020 da enodas

 

 

Distanti ma vicini. Mi sono sempre ripetuto che, in caso di necessità, ci sarebbe stato un aereo da prendere, una macchina da guidare. Da nord a sud (e ritorno). Questo pensiero é sempre stato in qualche modo un'ancora di salvezza ultima cui aggrapparsi, anche nei pensieri più cupi. Adesso, per la prima volta, non é così. E quella distanza che la tecnologia, i voli sempre disponibili, le frontiere aperte e quel mondo frenetico ormai assorbito fino a farlo proprio era in qualche modo fittizia, quasi esorcizzata. Ora, invece, più reale che mai. Ancora più di quanto probabilmente riesca davvero a realizzare e comprendere. E questa esperienza, alla mia terza quarantena nel giro di poche settimane, ha un aspetto particolare, perché da osservatore lontano mi costringe a guardare con occhi di paura e preoccupazione al mio Paese, alla mia casa, che per la prima volta da quando sono partito oltre frontiera, da sempre, é improvvisamente diventato un luogo inaccessibile, e malato. Mi trovo privato di qualsiasi illusione di controllo e rassicurazione. Lontano. Lontanissimo.

 

 

 
 
 

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Post n°849 pubblicato il 04 Marzo 2020 da enodas



E' con un po' di tristezza che ogni volta, un po' di più mi sento distante dagli amici che vedo sempre meno frequentemente, ognuno perso tra luoghi diversi e probabilmente momenti della vita differenti. Il perdersi di vista, l'allentarsi dei legami, perché quelle che prima erano routine sono diventate momenti occasionali, magari pure fugaci, tutto questo insieme mi fa sentire, ad uno strato più subdolo e profondo, in qualche modo estraneo, anche quando ormai raramente c'é modo di trovarsi. Come se non ci fosse più nessuno ad aspettare, o che voglia davvero sapere come va: ognuno é sceso dalla carrozza per salire su un altro treno. E' con tristezza che mi senta meno connesso, un po' fuori luogo ed un po' più solo, in tutto questo. Magari pure un po' apatico ed un po' perso. Ho sempre considerato le amicizie come qualcosa di fisso e inattaccabile. Per questo, e forse anche contro questo, ho sempre considerato di avere realmente poche amicizie attorno a me. Eppure colori che una volta sembrano vivi e brillanti improvvisamente iniziano a sfumare, diventano opachi, e per qualche motivo mi ritrovo ciclicamente a fare i conti con la sensazione di vedere questi legami scivolare via in modo lento e silenzioso, malgrado non voglia che il contrario, fino quasi a mancarmi, senza che sappia bene, esattamente, cosa fare. Come una fiamma che decide di consumarsi. Ho imparato, molto tempo fa, che questo, semplicemente, accade. Anche se non smette di amareggiarmi.



 
 
 

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Post n°848 pubblicato il 01 Marzo 2020 da enodas

 

 

Se c'é un effetto collaterale positivo delle giornate passate in isolamento nelle ultime settimane, prima di tornare fisicamente a lavoro é stato quello di aver sfruttato il tempo guadagnato dal non dover viaggiare riprendendo l'impegno di suonare ogni giorno il violino. E' qualcosa che da molto tempo era scivolata via, a poco a poco, fiaccato dalla stanchezza al ritorno a casa, dalle corde stonate, ed i gesti sempre più macchinosi. Così, ho cercato di imporre a me stesso. Per poter riabbracciare, idealmente, questo strumento magico che mi ha sempre affascinato e che a malapena riesco a strimpellare, con un po' di confidenza e di resistenza fisica in più, giorno per giorno, ed iniziare là dove mi ero silenziosamente fermato. Perché, come per un allenamento, lasciare passare il tempo é come perdere. Ed allora, specie all'inizio mi sono sforzato. Quindi mi sono impegnato. Sfruttando quel tempo e quelle energie extra come un'occasione per fare qualcosa per me stesso. E lentamente, un po' più a lungo ogni giorno, ho cercato di ritrovare quell'abbraccio ideale, che mi lega ad un sogno e ad un affetto. Un po' nell'illusione, nel frattempo, che riesca ogni tanto davvero a suonare, idealmente far vibrare corde tese e sospese e segrete casse di risonanza.

 

 
 
 

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Post n°847 pubblicato il 20 Febbraio 2020 da enodas

 

 

Col bus arrivato quasi un'ora d'anticipo, mi trovo fuori dalla stazione che é ancora buio. Le raffiche di vento preannunciano la nuova tempesta in arrivo che a quanto pare lambirà anche l'Ile de France. Ho camminato nei dintorni per riscaldarmi un po', osservando quest'angolo di città deserta e cercando disperatamente un café che stesse aprendo. Le insegne rosse e le prime luci dietro le vetrine é tutto ciò che traspare. Ho guardato questo angolo un po' trascurato come accade spesso nei dintorni di una stazione, senza fermarmi di rimanere ammaliato dal flusso di viaggiatori e dal crogiuolo di divesità che li contraddistingueva e che ruotavano attorno a questo luogo in una fredda mattina di domenica. Mi sono sentito meno solo e nuovamente carico per un giorno che era già inoltrato ad un'ora alla quale normalemnte per me deve ancora iniziare.
Poi mi sono messo in cammino per davvero. Per ammazzare il tempo, per non cedere al freddo ed alla stanchezza, per reggiungere una destinazione. E nel frattempo, mi sono messo ad osservare questa domenica mattina che iniziava prendere vita: dai primi negozi del pane aperti ai cafe parigini che servono la colazione fino ai preparativi di un mercato regionale ai lati di un boulevard, con i mercanti i cui volti esprimevano un'origine lontana dalla città, i loro occhi mi guardavano curiosi e ricambiavano il saluto.

 

 

Sono stato il primo ad entrare: dal cortile, su ogni lato, il castello deserto era tutto per me, e soltanto l'eco di una musica rinascimentale registrata in un angolo della sala principale, si sovrapponeva al rumore sordo dei passi sul pavimento gelido. Questo luogo, alle porte di Parigi é una delle fortezze medievali più grandi e meglio conservate in Europa. Da qui, in quanto sede regale, é passata la storia di Francia, e valcare il complicato sistema di ingresso equivale in qualche modo a penetrare questo mondo passato e lontano. Ed é sorprendente leggere sui muri tutti questi anni di storia, laddove questi sono stati camere reali, uffici, prigioni. Strato dopo strato, ognuno inciso, fisicamente, su questa pietra, da uomini nel pieno del loro potere ed altri poveri disperati, viaggiatori all'alba della modernità, infine, tutto soggetto a quei cambiamenti continui del destino di queste mura e di chi si é trovato ad attraversarle.

 

 

Così, ho rivisto la cattedrale per la prima volta. Attraversato il ponte, il piazzale antistante non é più accessibile, e la facciata, con le due torri e la corona di pietra e di vetro alle spalle della Vergine erano ormai un profilo da scorgere da lontano, o di profilo, tra i rami spogli degli alberi, incamminandosi sulla strada di lato. E' ciò che c'e dietro quello che cercavo. O forse, sarebbe meglio dire, ciò che non c'é più. Perché se la facciata rimane integra, ciò che si intravede oltre, sopra il corpo principale, é un vuoto sventrato ed un intrico di ferro arrugginito, ai lati qualche statua coperta di reti e gli archi rampanti rinforzati  da strutture di legno. Eppure da fuori, immagino sia soltanto un'impressione del danno reale. Ho pensato che questa fosse una rappresentazione reale di guerre, distruzioni, incendi più o meno voluti di quanto accaduto in passato. Assistervi, invece che leggervi poche righe su una pagina da libro di storia, é un'altra cosa, perché colleghiamo in maniera diversa ciò che ci giunge ereditato dal passato ancora integro rispetto a ciò che già non esiste più e non abbiamo mai visto realmente. Io che avevo salito la torre, cercato i riflessi tra i rosoni, pranzato nel giardino dietro l'abside. Ho avuto la fortuna di visitare, vedere, vivere questo luogo. Ho amato la piazza antistante, il piccolo ponte che collega l'isola con la Riva Gauche, dove la sera si trovava sempre un saltimbanco o un mangiafuoco e dove mi fermavo spesso a gettare uno sguardo prima di partire. Ora é tutto sbarrato. Ma immagino che difficilmente rivedrò la cattedrale così com'era.

 

 

Mi sono incamminato lungo la Senna, una volta passata la tempesta. Per raggiungere un luogo che é presente nella mia mente, prima ancora che fisicamente. Ho attraversato i porticati del Louvre, tendendo l'orecchio ad ascoltare passi sui ciottoli bagnati e note solitarie di suonatori di strada sotto le arcate scure della sera. E mi sono ritrovato davanti alle piramidi. Come una notte, ormai tanti anni fa. Anche allora, aveva piovuto, ed i riflessi di strutture moderne ed aniche, fontane e luci dorate riempivano il cortile del museo in tutta la loro avvenenza, ché laddove di giorno era una folla interminabile nella sera si trasformava in un silenzioso deserto ed un'atmosfera quasi intima. Qualcuno usciva dalla grande piramide al termine della mostra. Io ho continuato a girarvi intorno, da una piramide all'altra, lasciandomi inghiottire nel buio della sera, nei passi sul selciato bagnato, nelle eco di melodie di strada ontane e nel silenzio del luogo. Così, mi sono ritrovato in quell'immagine, quando Parigi la visitavo in un certo senso per la prima volta, in compagnia di mamma e sorella, e questo luogo maestoso come abbandonato ed illuminato, idealmente, dell'oro dell'arte, diventava un po' uno di quei luoghi dell'anima, al termine di una lunga giornata ed una pioggia improvvisa. E' un luogo a cui torno ogni volta che passo di qui, perché in qualche modo é un ricordo speciale che mi fa tornare indietro, prima di tante altre cose, a quella sera e a quei giorni, come fosse il calore di un abbraccio.

 

 

Questo é un luogo che non avevo mai visitato. Una mattina di freddo sole invernale. Oltrepassando il cancello si accede ad un altro mondo. Letteralmente. Sui fianchi di una collina, ormai al centro della città, sorge un cimitero storico di Parigi. Un labirinto di storia e di nomi. Sulle lapidi di questa città silenziosa si trovano anche nomi immortali. Cercarli e trovarli é una pena ed un intrico silenzioso. L'aspetto storico non può certo oltrepassare la funzione di questo luogo ed il senso profondo di tristezza e miseria che rappresenta. Tra letterati, pittori e musicisti di oggi e di ieri, il primo nome che ho cercato é stato quello di un uomo il cui cuore é tornato, nascosto e custodito in patria. Ho continuato, perdendomi in un labirinto senza fine. La storia di Parigi, ed un po' anche di alcune corde delo nostro sentire passano di qua. Anche se, cruda verità, queste sono soltanto pietre. Fino a scendere indietro nei secoli, ad una storia d'amore che, nella pietra, ha ritrovato il suo essere.

"...Io, che dovrei piangere su quello che ho fatto, sospiro invece per ciò che ho perduto, e non solo quello che abbiamo fatto insieme, ma i luoghi, i momenti in cui l’abbiamo fatto sono talmente impressi nel mio cuore che li rivedo con te in tutti i particolari e non me ne libero nemmeno durante il sonno..."

 

 

Ho lasciato questo pomeriggio per tornare a Montmartre. Semplicemente, avevo voglia di camminare senza meta e senza fretta, magari cercare qualche disegno da portarmi a casa, e girare a perditempo. C'é un luogo, tra le strade di questo quartiere che scendono dalla collina, dove ogni volta mi sembra di ricordare di essermi fermato una sera a mangiare. Non saprei trovarlo, se volessi, ma ogni volta ho la sensazione di passare di qui. E allora la verità é che un po' Parigi, che per anni non sono riuscito a tornare a visitare, costodisca i ricordi di una storia in tutte le sue sfaccettature, ricordi che in qualche modo fanno male come ferite appena riaperte. Questo ristorante, che forse non é nemmeno quello che credo, ma all'angolo del quale senza volerlo mi capita ogn volta di passare, mi ricorda qualcosa, un senso di disprezzo e delle frasi dolorose. Così, malgrado tutto, non riesco a non pensarci, almeno per un attimo, a questi groppi che risalgono e tornano a galla, nel mio silenzio, nel mio camminare, nella mia solitudine, e penso che forse devo averla infastidita, allora, quando nonostante tutto, nonostante quel senso di disprezzo che mi feriva ogni volta, io cercavo di ricucire ed andare oltre. Questo pensiero, ora, proprio qui, mi ferisce.

 

 

 
 
 

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Post n°846 pubblicato il 18 Febbraio 2020 da enodas

 

 

Dopo soltanto poche settimane, mi ritrovo ancora palmo a palmo con quelle linee, il colore sanguigna e l'inchiostro graffiato sulla carta ingiallita, il segno profondo e preciso, tracciato senza esitazione, come fosse una copia diretta di un segreto custodito nella mente. Altri disegni, altri appunti, altri studi ed annotazioni lasciate pagina dopo pagina. Eppure sempre la stessa mano, sempre la stessa mente infinita. Altri fogli, e le osservazioni sparse in una vita, attorno al mondo, attraverso quell'occhio indagatore e geniale che continuava a cercare con la curiosità dello scienziato e l'amore per la vita. Ancora, di nuovo, profondamente perduto, lungo questi solchi tracciati in un istante e così consegnati all'eternità, sfiorando con gli occhi un mondo intero, forse anche uno sguardo, perché no, di profilo, nascosto oltre le immagini, come una sanguigna sbiadita in foglio di carta perduto, ad osservarmi - lo immagino - con un sorriso abbozzato ed un cenno di innata bontà.

 

 

Leonardo dietro Leonardo. Per scrutare la mano del genio indietro nel tempo, dentro il quadro stesso, attraverso i suoi famosi strati di colore tanto impalpabile quanto quasi invisibile. Ma anche per sopperire alla mancanza degli originali. E se portare gli originali in mostra non é riuscito nemmeno al Louvre, immagino si tratti di un'impresa impossibile. Loro che hanno pezzi da novanta, e che pure non hanno osato spostare la Gioconda dalla sua posizione originale - fuori mostra - per non incorrere, chissà, in un'insurrezione generale. Forse di questo non ho potuto evitare di rimanere deluso, che nelle aspettative aveva associato qualcosa di assolutamente irrealizzabile, dove i - pochi - dipinti di Leonardo si trovassero davvero fianco a fianco. In questo senso, come potrei davvero valutare questa mostra evento che era andata esaurita in breve tempo alla vendita dei biglietti? Non ho la capacità storico-artistica per poter rispondere, anche se qualcosa, nella sua straordinarietà, a me é mancato.

 

 

Non credo di aver mai prestato attenzione a questo dipinto. Eppure, ora che lo osservo da vicino e che, in qualche modo, mi lascio pentrare da quello sguardo che ad ogni istante assumeva sempre più vita e personalità. Ed attraverso questo volto femminile, meno noto della sua famosa compagna, é stato come svelare e comprendere la straordinarietà del dipingere di Leonardo e ciò che si cela dentro un sorriso enigmatico. Perché, a poco a poco, quello sguardo era intelligenza, consapevolezza, espressione controllata e sicura dise stessa. Quello sguardo parlava, ora che ne avevo trovato una chiave di lettura, attraverso due note di didascalia scarne, attraverso la luce che simaterializzava e smaterializzava, attorno al volto di profilo leggermente inclinato, in un atteggiamento al tempo stesso semplice e naturale, ma anche implicitamente altero, ed ormai mi aveva catturato, sedotto, non tanto per la bellezza, né per l'eleganza, evidenti, ma per la vita che traboccava, reale e sfrontata, e quel carattere complesso e forte. Movimento immobile, anima pulsante, luce, c'era tutto. Ho continuato a guardare, indietro, come se quegli occhi fossero talmente vivi da seguirmi, tormentandomi, e sfidarmi a reggerne lo sguardo.

 

 

C'é una parola che rimbalza, tra i pannelli che accompagnano le sezioni della mostra, ed é qualcosa di affascinante. Libertà. Una libertà tecnica ed intellettuale che rendesse possibile cogliere il mondo imperfetto ed in continuo movimento. Come se stesse modellando le proprie immagini su creta invece che nel disegno, niente era per Leonardo veramente definitivo, le forme, le linee, il modo in cui le figure interagivano tra loro e nello spazio.
Questo approccio venne chiamato componimento inculto ed offre una possibile chiave di lettura ad alcuni dei capolavori più eccezionali di Leonardo. Ma a me piace pensare che il significato e l'importanza di questa parola, nella vita di Leonardo abbia un'accezione più ampia e generale, quella di una mente straordinaria che nell'osservare e nel cercare di capire, così come di esprimere ciò che vedeva, continuava a sfidare se stesso ed ogni limite mentale e culturale. In un moto perpetuo, da anima integra ed indipendente, proprio come quel mondo in movimento che cercava di catturare e decodificare, nei suoi dipinti mai terminati, nei disegni annotati ad ogni angolo di pagina, nelle sue linee che aggrovigliate ricreavano la vita così come la osservava..

 

 

"The year 2019 marks the 500-year anniversary of the death of Leonardo da Vinci in France, of particular importance for the Louvre, which holds the largest collection in the world of da Vinci’s paintings, as well as 22 drawings.

The museum is seizing the opportunity in this year of commemorations to gather as many of the artist’s paintings as possible around the five core works in its collections: The Virgin of the Rocks, La Belle Ferronnière, the Mona Lisa (which will remain in the gallery where it is normally displayed), the Saint John the Baptist, and the Saint Anne. The objective is to place them alongside a wide array of drawings as well as a small but significant series of paintings and sculptures from the master’s circle.

This unprecedented retrospective of da Vinci’s painting career will illustrate how he placed utmost importance on painting, and how his  investigation of the world, which he referred to as “the science of painting,” was the instrument of his art, seeking nothing less than to bring life to his paintings.

The exhibition is the culmination of more than ten years of work, notably including new scientific examinations of the Louvre’s paintings, and the conservation treatment of three of them, allowing for better understanding of da Vinci’s artistic practice and pictorial technique. Clarification of  his biography has also emerged through the exhaustive reexamination of archival documents. The exhibition will paint the portrait of a man and an artist of extraordinary freedom."

[Introduzione alla mostra]

 


 
 
 

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Post n°845 pubblicato il 13 Febbraio 2020 da enodas

 

 

 

"...The ruins of Machu Picchu are perched on top of a steep ridge in the most inaccessible corner of the most inaccessible section of the central Andes. No part of the highlands of Peru has been better defended by natural bulwarks—a stupendous canyon whose rim is more than a mile above the river, whose rock is granite, and whose precipices are frequently a thousand feet sheer..."

(Hiram Bingham)

 

 

Inizia così, da una strada talmente stretta e tortuosa da costringere il furgoncino ad ogni svolta a fermarsi ed indietreggiare per cercare un punto dove due mezzi in senso di marcia opposta si possano affiancare. Ogni svolta é una linea sempre più sottile che tende a scomparire lungo il fondo della Valle Sacra, fino a terminare in un piazzale al chilometro 88. E' qui che, sfilato un pugno di caramelle alla coca, lascio lo zainetto su una pezza di tela cerata attorcigliando il resto attorno alla borsa della macchina fotografica. Inizia così, con una mattina di sole, ed un piccolo ponte di legno, l'ultimo capitolo del mio racconto, quello attorno cui alla fine ho construito questo viaggio, nei giorni, nei luoghi e finanche nelle variazioni d'altitudine. Quello attorno al quale ruota il mio essere qui. Varcando l'ingresso del Camino Inca, sento che é come un passo oltre il confine, entrare nel sogno, in tutte le aspettative che sono cresciute, giorno dopo giorno, un salto in avanti verso un piccolo ignoto, un'ultima avventura su queste montagne ad alta quota, ed il primo timbro su una risma di carte é il cuore a fare un balzo, il primo passo lungo una strada che affonda nel mito e alle porte del mito, seguendo il popolo delle nuvole, mi porterà.

 

 

Lo avevo avvertito alla prima salita. Che in confronto era un declivio. Camminando su questi gradoni irregolari, incastonati nelle montagne in una lunga strada tortuosa che appare e scompare, il cielo é più vicino. Ogni cima, ogni passo che inizialmente pareva lontano ed irraggiungibile, diventa sempre più realtà, una conquista ed al tempo stesso una nuova partenza, aprendo il paesaggio su un quadro nuovo e fino a quel momento ancora inaccessibile, incontaminato e silenzioso, ma al tempo stesso colmo di vita, della Natura che é, splendida e selvaggia a quote più basse, arida e contrasto crudele di elementi ad altitudini improponbili, e degli uomini che furono, questa civiltà quasi mitologica e misteriosa, che salì su queste vette, chiamò dei le montagne, osservò le stelle del cielo e punteggiò la via di città perdute e straordinarie, in posizioni spettacolari che come anelli di una catena invisibile che chissà, magari comunicavano l'un l'altro. La prima mi é apparsa come un miraggio che già poco avrebbe avuto da invidiare alla sua sorella maggiore. Le altre si svelavano, improvvise, al termine di ore di cammino, saliscendi e racconti lungo la strada, avvolte nella foresta tropicale o emerse, a pochi passi, dalle nubi che le nascondevano.

 

 

Lui é "Condor". E' il capo della nostra squadra di portantini, otto uomini per quattro persone dai volti e dalle storie diverse, dalle età differenti che si leggono sui segni del viso. Il Condor, ha uno sguardo allegro che tradisce una conoscenza straordinaria del luogo, del tempo, della foresta. Veste sempre uno di quei berretti che da noi compaiono a natale, in lana grezza e colorata come da tradizione andina, calza sandali leggeri e si rimbocca sempre la parte finale dei pantaloni. Il suo soprannome, proprio come l'animale a cui fa riferimento, é investito di un'aura di rispetto e maestosità quando viene chiamato. I portantini sono l'anima del Camino Inca, il dono prezioso che ci segue e ci anticipa silenzioso prendendosi cura di tutto con una cura ed un lusso da lasciare a bocca aperta. Perché senza il supporto materiale, straordinario, che forniscono, lo spirito potrebbe non avere forza a sufficienza. Partono dopo, si caricano sulle spalle un piccolo villaggio itinerante, ed iniziano a correre. Mi sorpassano, sudati e leggeri, e scompaiono sungo questo serpente di passi, ad attendermi alla prossima fermata. Per loro, l'Inka Trail é un circuito che si ripete, in un numero inenarrabile di volte, ma di cui ognuno di loro tiene invariabilmente il conto. Parlano spagnolo, certo, in un dialetto andino, ma soprattutto parlano Quechua, orgogliosamente e consapevolmente, il loro linguaggio e le loro radici, che profondamente affondano in questa terra e tra queste vette. Sorridenti ed eccezionali, sempre discreti, hanno lo sguardo gentile, e le loro storie personali, così difficili da penetrare nella loro riservatezza, che popolano questa vallata, ognuno un punticino di una storia nobile e centenaria che affonda nella notte dei tempi.

 

 

Il Camino Inca non é un luogo immobile. Anzi. Lungo la prima parte, soprattutto, il sentiero attraversa piccoli assembramenti di contadini e le donne del luogo che pur nel loro profilo possente si arrampicano l'unico camminamento colme di oggetti di ogni giorno, oppure hanno improvvisato un bancone dove vendono qualche ultimo suppellettile prima del cammino vero e proprio. Se non fosse per qualche motocicletta che si arrampica lungo il selciato sconnesso non sarebbe possibile collocare nel tempo queste ultime propaggini di centri abitati. Poi, gradualmente, queste presenze svaniscono e di ogni suono non resta altro che il sussurro della foresta che si chiude sopra di me, in una esplosione di orchidee, fiori sconosciuti ed uccelli dai colori dipinti. E' un respiro profondo che sembra custodire il segreto degli antenati, quelle mani industriose che tagliarono la pietra e modellarono la loro terra con ingegno e maestranza. Ecco, sono loro i guardiani di questa strada, sussurrano dal passato, attraverso le città in rovina, attraverso la loro foresta e le loro montagne sacre, é come se impassibili mi osservassero, io viandante nel mio arrancare, nel mio bloccarmi d'improvviso a cercarli, a catturare quante immagini mi sia possibile, prima di andare oltre e lasciarmi alle spalle un altro passo che difficilmente percorrerò ancora.

 

 

"...Aquí los pies del hombre descansaron de noche
junto a los pies del águila, en las altas guaridas
carniceras, y en la aurora
pisaron con los pies del trueno la niebla enrarecida,
y tocaron las tierras y las piedras
hasta reconocerlas en la noche o la muerte..."

 

 

Sono le tre di notte. Qualche luce, da una torcia si muove fuori dalla tenda. Il resto é un buio fitto che si lascia inghiottire dalla foresta tropicale. Lentamente, inizia a piovere sempre più fitto. L'ultimo, grande, giorno inizia così, in un sussurro agli uomini che ci hanno accompagnato in questa avventura, un'ultima volta: loro domani saranno nuovamente qui, a muoversi come antilopi e calpestare di corsa i gradini ruvidi del Camino Inca. Per me, invece sono le ultime ore, in attesa che un cancello si apra e mi consenta di accedere all'ultima parte del sentiero.
La pioggia diventa battente, a tratti addirittura torrenziale, sotto una piccola tettoia di legno, e non promette niente di buono, ma il tempo sembra immobile, in questa tenebra che non accenna a scomparire, mentre sento l'aria impermeata di acqua, vapore, nubi veloci che salgono dal fiume, bloccano la vista, proprio oggi che la meta é vicina.
Ed infine scocca l'ora, come una corsa in partenza, schiacciato contro quel cancello da braccia che tendono fogli di carta. Riparto. Con gli occhi che affrontano l'alba e la vista annebbiata da un tempo beffardo. Cammino. Ed improvvisamente mi sento colto da un senso di tensione e di rabbia che sprigiona dalle mie gambe: ogni passo, ogni muscolo teso in uno sforzo che mi fa ansimare, lungo questi ultimi gradoni che mi separano all'arrivo, ad un punto finale che sarà un nuovo inizio. Ancora, soltanto lo immagino, mentre mi lascio dietro chi aveva scavalcato, chi é partito senza aspettare. Sento di essere mosso da un'energia incontenibile, che nemmeno il mio respiro affannato sa contenere. Un'energia che si esaurirà soltanto quando calpesterò quello che idealmente é l'ultimo ruvido gradino del Camino.

 

 

"Entonces en la escala de la tierra he subido
entre la atroz maraña de las selvas perdidas
hasta ti, Macchu Picchu.
Alta ciudad de piedras escalares,
por fin morada del que lo terrestre
no escondió en las dormidas vestiduras.
En ti, como dos líneas paralelas,
la cuna del relámpago y del hombre
se mecían en un viento de espinas..."

 

Ho appoggiato la mano sulla parete. La pietra umida a contatto con la mano, io soltanto in una mattina coperta di nebbbia. Ho voluto piangere, lasciando che una lacrima sfuggisse per fondersi col sudore e la pioggia che si rovesciava a sprazzi. E poi, ho trattenuto il respiro, ed ho attraversato la Porta. Perché seguendo il popolo delle nuvole sono arrivato. La città perduta era nascosta dalla nebbia, e come un'ombra, un attimo soltanto si rivelava ai miei piedi, ancora intirizzita di una notte che stava scomparendo. La notte, lunga e persistente, era un ricordo che già svaniva. Sorriso. Pianto. Lascerò che qui si sciolgano quei nodi raccolti in questi giorni speciali ed intensi. Un respiro profondo che mi invade i polmoni mi fa sentire vivo. In questo attimo di silenzio immenso ed interminabile, sento il sangue pulsare. Fortissimamente, intensamente, voluto. Perché i miei occhi sognatori, per una volta, meritano questo momento.

 

 

Macchu Picchu, ultima fermata. Ho scalato un'ultima montagna, ma ancora una volta la nebbia mi ha avvolto. E certamente, mi manca quel cielo azzurro nel quale speravo. Questo, purtroppo, é in mano alla fortuna. La Città Perduta é altrove, ancora sconosciuta e nascosta, ma anche questo luogo supera ogni possibile immaginazione. Il silenzio ancora protetto del primo mattino lascia un attimo di incanto per quello che fu, un impero effimero e straordinario che in un batter d'occhio conquistò una parte imponente dell'America Latina ed in un lasso di tempo altrettanto breve si spense e scomparve, travolto da un mondo nuovo. Le masse di persone che velocemente iniziano a salirvi, la mia stessa presenza, in un certo senso ne sono l'espressione in chiave moderna. Eppure, la magia di questo luogo, ed ancora di tutti quelli, silenziosi e perduti che ho sfiorato in questi giorni, che ho avuto il privilegio di ammirare lungo il Camino Inca, resistono, nella straordinaria possenza delle pietre che narrano ad ogni angolo la ricerca dell'uomo nel cielo di un'armonia da trascrivere sulla terra. Per un attimo torno con le immagini alle linee del deserto, che ora come ora mi sembra di aver visto già in un tempo tremendamente lontano, e penso che indipendentemente dal tempo, dalle cività, come uomini alla fine finiremo sempre ad osservare il cielo nella ricerca di una bellezza perfetta che rassicuri i nostri cuori ed una risposta da tenere con noi sulla terra. Questo per me é l'incanto di questa straordinaria città, costruita strappandola alla montagna, preservata agli occhi sciagurati dei Conquistadores, dimenticata nel tempo sotto una vegetazione selvaggia ed audace. Ed infine riscoperta, perché tornasse agli occhi del mondo. Perché, preziosissima e fragile, ci appartiene. Serro la mano, stringendo la crix andina scolpita e levigata di pietra verde. Ultima fermata: qui sono giunto, e non andrò oltre.

 

"...Madre de piedra, espuma de los cóndores.
Alto arrecife de la aurora humana.
Pala perdida en la primera arena..."

(Pablo Neruda)

 

 

 
 
 
 
 

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