Messaggi di Dicembre 2007

Le paure del cardinal Bertone

Post n°366 pubblicato il 29 Dicembre 2007 da monari

Bertone01g L'anticipazione dell'intervista a «Famiglia Cristiana» del cardinal Tarcisio Bertone, chiarisce lo stato di "malessere" del Partito democratico veltroniano, su cui pesa l'ipoteca vaticana già intravista nelle prime mosse. Ed in certe candidature periferiche. Nate esclusivamente in ambiente ecclesiastico...

La verità viene a galla prima o poi. Le parole di Bertone confermano una realtà delle cose che prima o poi dovrà essere chiarita. Veltroni non potrà in futuro far finta di nulla.



Il cardinale segretario di Stato vaticano ha chiesto a Veltroni  che «i cattolici non siano mortificati» nel Partito democratico.

Bertone ha spiegato poi che la norma antiomofobia nel decreto sulla sicurezza è stato un «incidente di percorso».



Non si capisce questo accanimento su di una norma di diritto così semplice nel suo rimando ai trattati della Comunità europea ed alla Costituzione italiana.

Oltre Tevere ci si è pericolosamente fissati sulla linea del Piave della senatrice Binetti.



Inoltre, con Veltroni il cardinale ha auspicato che nel Pd «ci si ispiri alla tradizione dei grandi partiti popolari, che avevano un saldo ancoraggio nei principi morali della convivenza sociale».

Come se quella piccola ma fondamentale norma antiomofobia fosse stata qualcosa di rivoluzionario e sovversivo rispetto all'etica pubblica.



Sinceramente spiace di dover constatare che tutti i temi fondamentali di una società, siano ridotti a questo particolare aspetto che diventa una specie di paradigma assurdo per valutare la morale dello Stato e lo stato della morale...



Inquietante il passo in cui Bertone ricorda di aver conosciuto grandi intellettuali comunisti e socialisti che «avevano una visione laica ma morale».

Passo sa cui non vogliamo dedurre che, secondo il segretario di Stato vaticano, esiste per lui l'equazione laico=immorale.



In breve, segnalo un articolo apparso sul «Corriere della Sera» di stamani del teologo del dissenso Leonardo Boff che scrive: dobbiamo imparare a trattare «in modo umano tutti gli esseri umani». Inaugurare un mondo che pratichi la vera giustizia.

Che ne dice on. Veltroni?



FONTE


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Binetti, si ricordi di Luigi Gedda (1938)

Post n°365 pubblicato il 28 Dicembre 2007 da monari

Walter Veltroni in una lettera alla «Stampa» (27.12) aveva definito «sbagliata e pericolosa» la tesi della sen. Paola Binetti la quale considera l’omosessualità una malattia da curare.

Binetti

La sen. Binetti oggi risponde dalle colonne del quotidiano torinese, con un'intervista a Giacomo Galeazzi: «Come neuropsichiatra ho esperienza decennale di omosessuali che si fanno curare. Non sono andata a cercarli io, sono loro che sono venuti in terapia da me perché dalla loro esperienza ricavano disagio, sofferenza, ansia, depressione e incapacità di sentirsi integrati nel gruppo. Non sono io a sostenerlo, è un dato oggettivo».



La posizione della sen. Binetti non si discosta da quella della Chiesa anglicana (sì avete letto bene, anglicana).



Ciò che in tale posizione spaventa, è espresso in un altro passo dell'intervista, in cui la sen. Binetti la rivendica e giustifica in nome di un «dato oggettivo»: «Fino a poco tempo fa il Dsm4, la "bibbia degli psichiatri"» utilizzata da tutti gli enti pubblici, «ha sempre inserito l'omosessualità tra le patologie del comportamento sessuale».

Fino a poco tempo fa, dunque. Non so se sia il caso di chiedersi il perché della recente cancellazione.



Da vecchio pedagogista, quindi senza alcuna pretesa di confutare le tesi scientifiche ("scientifiche"?) della dottoressa Binetti, mi permetto di esprimere una opinione molto amara, perché essa rimanda al ricordo storico di quando un noto endocrinologo cattolico come Luigi Gedda teorizzò la superiorità della razza ariana, aderendo alla campagna antiebraica. Dalla quale derivarono quelle leggi razziali del 1938 che restano la vergogna somma di Casa Savoia, assieme alla guerra.



Per ulteriori informazioni scientifiche, vedere il blog Bioetica (a cura di Chiara Lalli): Binetti e intolleranza.



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La morte di Benazir Bhutto

Post n°364 pubblicato il 27 Dicembre 2007 da monari

Bhutto01hn Era tornata promettendo «democrazia» e impegno verso i poveri, cioè del 73 per cento dei 160 milioni di pachistani che vive con meno di due dollari al giorno. Sono parole che leggo sul servizio on line della Stampa, su Benazir Bhutto uccisa oggi da un attentato.

Fu la prima donna capo di governo in un Paese musulmano, dice un sottotitolo nella biografia della signora Bhutto, che era nata nel 1953.

Nei nostri piccoli angoli di mondo, lontanissimi dal suo Paese, giungono impotenti gli echi della violenza omicida che fa un'altra vittima. Con lei sono morte altre venti persone.



Si sente il peso doloroso della Storia in questi momenti, e vien fatto di paragonare la tragica notizia, con quelle di casa nostra. Dove la vicenda più grave delle ultime ore, sembrano le dichiarazioni di Lamberto Dini. Il quale dice del capo del governo da lui appoggiato: Prodi procura più danni di Berlusconi.

I signori come Lamberto Dini hanno mai pensato alla responsabilità politica da loro assunta davanti alla Storia appoggiando un governo, o si sono limitati a leggere certi copioni da avanspettacolo?

Correttamente Prodi nella conferenza-stampa di stamani ha detto che «un governo si abbatte con un voto di sfiducia, non con le interviste». Come appunto quella di Dini. Che poi uno stia al governo e mandi baci al capo dell'opposizione, è un fatto che andrebbe spiegato da quegli specialisti abituati a cercare l'ago nel pagliaio anche laddove non esiste il pagliaio.

Fonte

 
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Veltroni si sveglia?

Post n°363 pubblicato il 27 Dicembre 2007 da monari

VeltronimaniWalter Veltroni comincia (forse) a rendersi conto della trappola che si è costruito con le proprie mani quando ha pensato che il “suo” nuovo partito potesse tranquillamente ospitare oves et boves, avanti tutti con jucio, ma soprattutto a luce spenta.

È bastata l’accensione di una candelina per illuminare a sufficienza la drammatica contraddizione fra un partito moderno e l’atteggiamento pericolosamente reazionario di chi ha un progetto soltanto sanfedista.

Partito moderno significa (mi scuso per l’ardire che dimostro introducendo la spiegazione) una realtà in cui tutti i cittadini siano considerati uguali davanti alla legge.

E soprattutto un partito in cui la legge sia la norma di diritto, non la cosiddetta legge naturale che nessuno sa con precisione che cosa è. Perché si può credere che gli uomini siano naturalmente buoni e poi si guastino per colpa della società, come pensava Rousseau. Oppure si può ritenere che l’uomo nasca con un peccato originale che lo conduce al male, se non interviene il perdono di Dio.



Dunque, la norma di diritto che fa nella nostra Costituzione tutte le persone uguali davanti alla legge, deve essere il punto di partenza da rispettare e rendere operante in ogni atto della nostra Repubblica.

Su questo non ci piove. Se ne è accorto pure il buon Veltroni che ha scritto oggi, in una lettera alla «Stampa» che è «sbagliata e pericolosa» la tesi della sen. Paola Binetti la quale considera l’omosessualità una malattia da curare.

Finora Veltroni aveva perdonato alla Binetti tutte le più strane prese di posizione politica, espresse in nome dell’adesione ad una fede religiosa.

Adesso il segretario del Pd è (finalmente!) intervenuto perché ha compreso che la Binetti aveva superato ogni logica ed ogni decenza in un partito politico che si definisce «democratico».



Lo spazio per trovare sostegno alla proprie affermazioni, la sen. Binetti lo può cercare altrove, ed è infinito: alla sua destra in parlamento può avvicinare autorevoli compagni e compagne di viaggio e d’avventura. Con reciproche soddisfazioni.

Ciò che meraviglia è che, prima di Veltroni, non sia pubblicamente intervenuto nessuno da parte cattolica in maniera ufficiale, se non vado errato, a smentire le opinioni della Binetti. Di fronte alle quali vale l’osservazione manzoniana: «il buon senso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune».

Una cosa è il discorso religioso che merita serietà e rispetto anche da parte di chi è laico, come dimostra esemplarmente proprio oggi l’editoriale di Eugenio Scalfari su «Repubblica». Ed un’altra cosa è la superstizione travestita da verità scientifica.

Prescindendo dal fatto particolare (omosessualità = malattia), deve interessare l’atto intellettuale che evita il discorso scientifico e realistico sulle condizioni diverse ed opposte che possono esistere anche in campo biologico.

Ricordiamoci di quando nel Settecento di discuteva delle malformazioni (i cosiddetti mostri) che i teologi negavano ma gli scienziati descrivevano. Che cosa conta di più, il pre-giudizio che nega i fatti, o l’esame freddo prescindendo dalle sue pseudo-motivazioni teologiche?



Scalfari spiega alla Binetti, con citazioni pontificie, che non è religiosamente serio sostenere che un errore di scrittura di una legge (dovuto ad un fattore di ‘ignoranza’ umana) è il frutto di preghiere rivolte a Dio dalla stessa senatrice del Pd.

Riprendo dal fondo di Scalfari le parole contenute nell'enciclica “Spe Salvi" di Benedetto XVI, a pagina 64 nell'edizione dell'«Osservatore Romano»: "Il giusto modo di pregare è un processo di purificazione interiore. Nella preghiera l'uomo deve imparare che cosa egli possa veramente chiedere a Dio, che cosa sia degno di Dio. Deve imparare che non può pregare contro l'altro. Deve imparare che non può chiedere le cose superficiali e comode che desidera al momento, la piccola speranza sbagliata che lo conduce lontano da Dio. Deve purificare i suoi desideri e le sue speranze".

Aggiunge Scalfari, rivolto alla Binetti: "Le rilegga, senatrice, e cerchi di capirne bene il senso. Soprattutto non si autogiustifichi: il Papa, nella pagina seguente, ne fa espresso divieto".



Alla Binetti, mi permetto di suggerire: rivolga le sue preghiere al Padreterno perché aiuti poveri, emarginati, malati, le vittime della Storia di cui sono piene le cronache di ogni giorno: donne, bambini, vecchi. E non perché confonda le menti della burocrazia governativa che non ne ha bisogno, essendo già sufficientemente dotata di impreparazione che porta agli errori che poi la senatrice si vanta di aver provocato grazie ad un intervento soprannaturale.

Dio, la fede e la religione sono cose troppo serie perché siano lasciate in gestione a

 
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UNA STRENNA AI LETTORI

Post n°362 pubblicato il 26 Dicembre 2007 da monari

Piffero

Potete scaricare il mio testo

Anni Cinquanta
I giorni della ricostruzione
visti da un bambino.
1948-1953


pubblicato nel 1995, cliccando qui.

Auguri e buona lettura.

 
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Le ragioni di Romano Prodi

Post n°361 pubblicato il 26 Dicembre 2007 da monari

Stampa26122007 Romano Prodi ha ragione. Non si può concepire la politica come eterna rissa da cortile, con protagonisti isterici i quali soltanto amano tirare i cappelli all'avversario, offendendolo con caricature e ridicolaggini che non dicono nulla alla persone serie. Non ostante tutto ed i telegiornali pubblici o privati,  esse continuano ad esistere.
La politica è cosa per persone serie. L'avanspettacolo è bello ed utile. Ma non certamente quando si deve decidere la sorte di un Paese. Lasciamo le risse da cortile ai ricordi di quelle donne che si contendevano lo stesso uomo a colpi di ciabatte in testa alla nemica.
Adesso sono cose che non si usano più neppure in questi casi di conflitto d'interessi amorosi. Gli schiaffi hanno ceduto il posto alla compartecipazione all'utile e al dilettevole.
Il concetto di sesso oggi affermatosi in modo allargato nel più cattolico dei territori cattolici, rassomiglia vagamente allo spirito della ex Casa della libertà. Che lo stesso Berlusconi ha chiuso per colpa dei Casini ivi regnanti, intesi come cognomi.
Verrebbe la voglia di pregare Prodi di lasciare Palazzo Chigi soltanto per carità cristiana e risparmiarci le esibizioni del Cavaliere. Non ne possiamo più.
Prodiansa
Purtroppo per Berlusconi, Prodi ha vinto le lezioni, di stretta misura come il presidente degli Usa, anzi con più voti di scarto di lui.
Il presidente del Consiglio non rappresenta i suoi elettori ed i loro eletti. Guida un governo di un Paese, non la giostra di una periferia urbana o di una spiaggia. Berlusconi lo dovrebbe sapere, essendo circondato da fior fior di intellettuali, giuristi ed esperti di tutto lo scibile umano, come l'ispirato Giuliano Ferrara che amo e stimo moltissimo (guai se lo sapesse: mi fulminerebbe con uno di quegli sguardi da istrione che spesso ci offre). Ferrara tra un editoriale sul «Foglio» della signora Veronica Lario in Berlusconi, ed una trasmissione sulla «Sette», immagino trovi tempo per esercizi spirituali atti a rafforzare la sua modestia e la sua dialettica antiprodiana.

È inutile ogni giorno andare in fregola con la storia che Prodi se ne deva andare. Quindi ha ben fatto Prodi a dire:  «L'affannosa gioia della spallata inseguita da Berlusconi non serve proprio a niente, non serve a lui perché poi non riesce a darla, né serve all’Italia». Anzi, «fa molto male alla democrazia italiana».
Non mi piace applaudire chi comanda. Ma sarà colpa delle feste o delle parole di Prodi, approvo anche un altro passaggio della sua dichiarazione natalizia: «Prima delle elezioni io sono stato sottoposto ad uno spionaggio sistematico, durissimo, illegale, ma ho sempre detto: lasciamo fare alla Magistratura. E io credo che un uomo politico debba fare queste cose».

A Prodi, se posso permettermi, suggerisco di andare cauto con certi amici che lo circondano nel novello Pd.
Al treno veltroniano si sono accodati personaggi che non hanno la minima idea della differenza fra destra e sinistra, anzi hanno fatto pubblica professione di imparzialità fra le due parti. Che è come dire che votare Prodi o Berlusconi è la stessa cosa.
Ecco, caro presidente, la spallata se verrà, giungerà da questi ambigui personaggi che fanno i giocolieri, fingendo di guardare al bene comune, ma in sostanza pensando soltanto a guadagnarsi la pagnotta con la politica perché altrove non hanno raggiunto alcun obiettivo grazie alle capacità personali ma soltanto in virtù di sacrosante protezioni.
Insomma, alla fine potrà più la «casta» che il «casto» Silvio Berlusconi, quando si tratterrà di far cadere il governo Prodi. E succederà per mano di esponenti del partito voluto fortemente dal professore. E nel più perfetto e perfido stile che una volta si diceva democristiano.

Per rallegrarvi, guardate l'imitazione di Alberto Angela fatta da Neri Marcoré (foto in alto, a destra).

 
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Letterina di Natale

Post n°360 pubblicato il 24 Dicembre 2007 da monari

NataleDa fanciulli, ci costringevano a scrivere (sotto dettatura) la lettera a Gesù Bambino, che immancabilmente si concludeva con la promessa di obbedire ai genitori.

La nostra generazione, nata durante la guerra, è stata costretta a credere ed obbedire. Per fortuna non a combattere. L'altra sera da Fazio, lo scrittore Enrico Vaime ha detto una battuta che mi è cara. Non abbiamo fatto la Resistenza, non abbiamo fatto il Sessantotto, insomma non abbiamo fatto niente.

Dicevamo signorsì al signor Maestro, nelle elementari, stando sull'attenti. Dovevamo scrivere sotto dettatura a Gesù Bambino quella promessa di obbedire ai genitori come se avessimo compiuto chissà quale azione rivoluzionaria. Forse ci siamo soltanto permessi qualche volta di essere bambini come natura comanda.

Mia madre mi mandava in giro con un ciondolo d'un santo o d'un beato che riproduceva uno slogan di pietà e d'educazione: «La morte ma non i peccati». Non sapevamo nulla dei peccati, ma ce lo spiegavano anziani e pii sacerdoti negli interrogatori al confessionale.
Ci aprivano le finestre sul mondo, mostrandocelo come se fosse un vero e proprio inferno di cose immonde e nefande.

Le minacce delle fiamme dell'inferno teologico che avrebbe ripagato per l'eternità i nostri eventuali errori di un minuto, fecero il loro effetto su di me sul piano gastro-enterico.
Una mattina dovetti andarmene a casa fingendo indifferenza, ma affrettando il passo perché la paura dell'inferno aveva agito come la dolce euchessina prima di uscire dalla parrocchia alla ricerca affannosa del lontano riparo domestico, rigorosamente a piedi, e noncurante del fatto che avevo già cominciato a pagare quello che con linguaggio popolare si diceva un tempo il «debito naturale». Insomma me la ero fatta addosso dalla paura instillatami dai pii confessori.

Adesso che sono vecchio, voglio scrivere una letterina di Natale, ma non posso scomodare Gesù Bambino, mi risponderebbe che ormai certe cose le so, e che quindi, è inutile rifare la solfa di quando si era fanciulli promettendo obbedienza.

Se dovessi scegliermi un intermediario con Gesù Bambino, chiederei aiuto ad Enzo Biagi che adesso viaggia lassù, e chissà come si diverte a fare interviste.

Caro Enzo, per favore non dire oggi o domani a Gesù Bambino che prima o poi, gliela faranno pagare. Succederà quando tra qualche mese tutta la gente sarà felice come adesso, con una sola differenza. In questi giorni essa mangia il panettone per rispettare le tradizioni, più avanti gusterà le uova di cioccolato.
Comunque, è già tutto previsto. Ci sarà un tale Giuda che poi farà discutere per millenni. Se deve recitare quella parte, dicono, non è che poi sia tanto malvagio. Un attore, cioè uno che segue il copione voluto dal Capo. Sia fatta la volontà di Dio, dovrà dire Gesù. Che poi avrà anche il momento più bello, quando umanamente sospira al Padre: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Piffero


Caro Biagi (adesso che non sei più tra noi fisicamente, permettimi la confidenza del tu rivolto ad un maestro di stile e quindi anche di vita), questo Gesù che spupazzano tra un presepio allestito per attirare turisti ed un supermercato che svende tutto in occasione delle festività, forse è più crocifisso a Natale che a Pasqua, da noi uomini di Buona Volontà, a cui è destinata la sua pace.
Cose strane, incomprensibili, misteriose. A lui in un certo senso è andata bene, di Giuda ne ha incontrato soltanto uno.

Come vedi, il mio testo non sarebbe adatto ad una letterina per Gesù Bambino.
Basta il pensiero, dicevano una volta. Ma oltre al pensiero ci vuole anche qualcosa che rallegri la  nostra vita. Se a rattristarla sono proprio quelli che in nome suo parlano ma poi tradiscono come Giuda, ti viene un dubbio: oltre che ipocriti e falsi, chi si credono di essere?


L'immagine qui sopra è presa dal sito www.filastrocche.it.




 
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Caro Carlino (e tutto il resto)

Post n°359 pubblicato il 24 Dicembre 2007 da monari

Mi hanno detto che il «Carlino» ha festeggiato i 50 anni della sua pagina riminese. Auguri.

Sono affezionato alla redazione del 1960-62, quando da studentello vi feci un apprendistato fondamentale sotto la guida del capo-pagina prof. Amedeo Montemaggi, un giornalista di vaglia e soprattutto un maestro di cronaca dalla rara efficacia e intelligenza delle cose.



L'idea di riempire le giornate con un diversivo allo studio universitario, mi venne appena conclusa la sessione d'esami dell'abilitazione magistrale (la nostra non era allora chiamata maturità).

Dissi a mio padre se mi poteva presentare a Montemaggi che lo conosceva bene.

Una mattina di fine luglio andammo mio padre ed io in piazza Cavour, ed incontrammo Montemaggi proprio sulla porta del palazzo dove ha tuttora la sede il «Carlino» riminese.

Montenaggi Dopo i convenevoli di rito, Montemaggi (foto) mi disse una cosa che ho sempre conservato in memoria come prima regola del lavoro di cronista: «Bisogna imparare a lavorare di corsa. Ieri sera ho fatto in tre quarti d'ora un pezzo di due cartelle e mezzo per l'edizione nazionale».



In quella regola c'è tutto quanto è utile ai cronisti (e anche ai blogger) in certi momenti. Ovvero concentrarsi sull'argomento, saper tirare fuori tutto quello che serve, scrivere, rileggere e spedire...

Allora non c'erano né telescriventi né computer, si andava col «fuori sacco» in stazione o al massimo per le cose urgentissime si ricorreva telefono. Che andava però usato con parsimonia per non essere sgridati dall'amministratore bolognese, celebre, temuto e tiratissimo.



Il vice di Montemaggi (che cominciava allora le sue ricerche sulla Linea gotica) era Gianni Bezzi, studente in legge, bravo, intelligente e soprattutto amico, nell'impostarmi sul lavoro di ricerca della notizia e nella stesura dei breve testi di cronaca. Bezzi ha poi lavorato a Roma al «Corriere dello Sport».

Corrispondente da Riccione era Duilio Cavalli, maestro elementare, e conoscitore dei segreti dello sport, materia affidata per il calcio al celebre Marino Ferri. Mentre «Isi», Isidoro Lanari, curava le recensione cinematografiche.

E poi c'erano i padri nobili del giornalismo riminese che frequentavano la nostra redazione. O che collaboravano allo stesso «Carlino». Giulio Cesare Mengozzi, antico amico della mia famiglia, sostituiva Montemaggi durante le sue ferie. Luigi Pasquini, una celebrità che non si fece mai monumento di se stesso, ed ebbe sempre parole di incoraggiamento con noi giovani. Ai quali Flavio Lombardini offrì di collaborare alle sue iniziative editoriali.

C'era poi la simpatica e discreta presenza di Davide Minghini, il fotoreporter, l'unico che aveva un'auto con cui andare sul luogo di fatti e fattacci. Arrivò ad un certo punto Marian Urbani, il cui marito gestiva l'agenzia di pubblicità del «Carlino». Si mise a fare la simpatica imitazione di Elsa Maxvell, la cronista delle dive americane. Dove c'era mondanità c'era Marian che le ragazze in carne corteggiavano per avere appoggi in qualche concorso di bellezza....



C'era poi un collega giovane come me, che era figlio di un poliziotto, e che andava in commissariato a rubare le foto degli arrestati dalle scrivanie dei colleghi di suo padre. E noi le dovevamo restituire...

C'era una bellissima ragazza, Nicoletta, che da allora non ho più rivisto a Rimini. Ricordo una simpatica serata che Gianni ed io trascorremmo con lei ed una sua amica inglese al concorso ippico di Marina centro. Cercavamo di insegnare alla giovane d'Oltremanica tutte le espressioni più strane del parlare corrente italiano, al limite di quello che il perbenismo di allora poteva considerare turpiloquio. Ma la frase più ardita era semplicemente: «Ma va a magnà er sapone».



Leggo sul Carlino-on line le parole di Piero Meldini per i 50 anni dell'edizione riminese: «Chiunque sapesse tenere in mano una penna (tenerla bene) è passato dal Carlino».

Posso di dire di aver fatto con Montemaggi, Bezzi e Cavalli una gavetta che mi è servita sempre. Forse appartengo ad una generazione che è consapevole dei debiti verso i maestri che ha avuto. Forse ho la fortuna di essere consapevole dei miei molti limiti per poter riconoscere l'aiuto ricevuto nel miglioramento dalle persone con cui sono venuto a contatto allora e poi. Fatto sta che quei due anni nel «Carlino» per me sono stati fondamentali.

Studio e passione per argomenti diversi hanno la radice in quella curiosità che mi insegnarono essere la prima dote di un cronista.






Gianni Bezzi scomparve giovedì 17 febbraio 2000, a 60 anni.


 

Lo ricordai sul web con queste righe.



Aveva debuttato al "Carlino" riminese, come vice-capopagina. Ma uno scherzetto fattogli mentre doveva essere assunto a Bologna nella redazione centrale, lo ha buttato sulla strada.

Ha diretto poi a Rimini il periodico "Il Corso". Nel 1969 è stato assunto a Roma al "Corriere dello Sport", dove è rimasto fino alla pensione. Ha scritto anche un volume su Renzo Pasolini ed ha curato, lo scorso anno, un libro sullo sport riminese nel XX secolo.

Persona buona ed onesta, professionista serio, amico di una lontana giovinezza nel mio debutto giornalistico, lo ricordo e ne piango la scomparsa con animo rattristato. E queste parole possano farlo conoscere anche fuori della Rimini astiosa dove venne tradito e ferito dal disonesto comportamento di chi volle ostacolargli una carriera meritata per la correttezza umana e professionale.




Sul settimanale Il Ponte pubblicai questo articolo.




Ciao, Gianni



Quando qualcuno si metterà a scrivere con completezza ed onestamente una storia del giornalismo riminese di questi ultimi cinquant’anni, dovrà dedicare un capitolo a Gianni Bezzi, appena scomparso a Roma, dove aveva lavorato per tre decenni al "Corriere dello Sport" come cronista ed inviato speciale.



Lo ricordo con infinito dolore. Ho perso un amico onesto, buono, corretto.

Ci eravamo conosciuti nel 1960 alla redazione riminese del "Carlino", dove guidava con serenità e buon gusto il lavoro di un gruppo di giovani, molti dei quali poi hanno cambiato strada, chi ora è architetto, chi docente universitario.



C’era uno di noi, figlio di un questurino, che a volte voleva fare degli scoop e prelevava in Commissariato le foto degli arrestati, poi arrivava una telefonata e noi le dovevamo restituire.



Gianni amava lo sport che aveva in Marino Ferri la penna-principe del "Carlino". Fece il corrispondente locale del "Corriere dello Sport". Aveva un linguaggio asciutto, il senso della notizia, era insomma bravo.



Un bel giorno, mentre frequentava già di sera la redazione bolognese del "Carlino", dopo aver lavorato al mattino in quella di Rimini, e mentre gli si prospettava un trasferimento sotto le due torri, successe questo, come si ascoltò a Palazzo di Giustizia: risultò che lui in ufficio c’era andato così, per sport.



Diresse poi un nuovo giornale "Il Corso", che usciva ogni dieci giorni. Mi chiamò, affidandomi una pagina letteraria (che battezzai "Libri uomini idee", rubando il titolo ad una rubrica del "Politecnico" di Vittorini), ed anche una rubrica di costume ("Controcorrente") che firmavo come Luca Ramin.



Fu un sodalizio di lavoro intenso ed appassionato. Mi nominò persino redattore-capo, e credo che sia stato l’unico errore della sua vita.



Per Marian Urbani inventai una sezione definita "Bel mondo", nel tamburino redazionale. La cosa fece andare su tutte le furie il giornale del Pci che ci dava dei "fascisti" ogni settimana, avvantaggiandosi su di noi che, come ho detto, andavamo in edicola solo tre volte al mese. E non sempre.



Nel gennaio del ‘67 il nevone ci fece saltare un numero. Due anni dopo, Gianni fu assunto a Roma.



Queste mie misere parole possano, in questa città di smemorati, ricordare un giornalista che proprio a Rimini ha dedicato la sua ultima fatica, un libro sullo sport del ’900. Ciao, Gianni.





L'anno scorso è scomparso Silvano Cardellini, anche lui celebre firma del «Carlino». Oggi lo celebrano, ma non fu sempre trattato bene da quel giornale. Allora osservai in ricordo del caro amico:
«Ti hanno costretto a fare il cronista sino ad ieri, non so per colpa di chi, forse per il fatto che «normali non siamo» o non sono pure quelli di fuori (leggi: Bologna). Se avessi diretto un giornale cittadino, avresti avuto il gusto di alimentare le polemiche, che sono il sale del pettegolezzo, anche se esse stanno ben lontane dall’informazione della quale a Rimini non frega nulla a nessuno».


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Piange il telefono

Post n°358 pubblicato il 23 Dicembre 2007 da monari

Grillobertinotti Un illustre giurista, Guido Neppi Modona, scrive oggi nel «Sole-24 Ore» un importante articolo sul problema delle intercettazioni telefoniche che sta riscaldando il clima politico italiano.



Il punto centrale del suo breve saggio è in questo passo: «a essere censurato e condannato non è stato il comportamento penalmente illecito o politicamente scorretto e squalificato» di chi aveva detto certe cose al telefono.



Bensì si è spostata l'attenzione «sull'imprescindibile esigenza di impedire per il futuro che notizie di quel tipo potessero divenire di dominio pubblico». Neppi Modona parla esplicitamente delle «serie preoccupazioni» suscitate dagli atteggiamenti del ceto politico che mirerebbe alla sua tutela in sede giudiziaria per garantirsi una specie di salvacondotto (mi scuso del riassunto troppo sintetico per argomentazioni molto articolate, ma la morale della favola è questa).



Per fortuna, aggiunge il professore, la Corte costituzionale ha di recente stabilito che «anche in caso di diniego dell'autorizzazione», le intercettazioni «potranno essere utilizzate processualmente nei confronti di terzi»...



Le cronache odierne a proposito del problema delle intercettazioni, sono piene delle parole di Grillo contro Bertinotti (accusato di essersi «preoccupato per la privacy di un signore che voleva comprare un senatore. Invece di espellere questo (basso) insulto alla democrazia dalla Camera ne tutela la privacy»).

Non so se nei prossimi giorni si discuterà seriamente secondo il ragionamento di Neppi Modona. Se a dettare legge, come si suol dire, dovesse essere più un comico che un illustre giurista, allora ne trarremmo le conseguenze logiche circa le opinioni negative che girano all'estero sopra il nostro Paese.



FONTE

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Quale identità per Rimini

Post n°357 pubblicato il 22 Dicembre 2007 da monari

Sorriso




Una delle più appassionate discussioni tenutesi di recente in città, riguardava l'identità di Rimini. Insomma, per la serie «Chi siamo, dove andiamo», molti sono intervenuti sostenendo tutto ed il contrario di tutto.



Si è partiti dall'influsso dei segni astrologici e da una querelle protrattasi ufficialmente dal 1613 al 1623 per stabilire se la città dovesse essere posta sotto il segno del Cancro o dello Scorpione. Il segno dello Scorpione è stato scelto alla fine dal segretario comunale. Quando si dice il potere della burocrazia...



Si è poi passati quasi inavvertitamente attraverso le vicende dell'Ottocento, soprattutto pensando alla nascita del turismo in età papalina, per arrivare in conclusione a (indovinate un po'), sì proprio a lui a Federico Fellini.



Del quale in città si è detto sempre molto a vanvera, per cui dovrebbe nascere un Ente di tutela del vero pensiero felliniano, allo scopo di evitare le (inevitabili) sofisticazioni del mercato delle sue idee.

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Certo è che Fellini quando era vivo, era snobbato dai concittadini. Adesso è diventato una gioiosa macchina d'affari che lavora benissimo, e che serve altrettanto benissimo al nome di Rimini in campo turistico.
Ma occorrerebbe che gli interpreti non ufficiali ci andassero piano a tirarlo in ballo ad ogni piè sospinto, come chiave universale per spiegare ogni fenomeno esistente e tutta la realtà del presente, passato e futuro di Rimini.

La Rimini all'inizio del secolo XXI non ha scene divertenti come in «Amarcord» con i sultani accompagnati da una cinquantina fra dignitari, favorite, eunuchi e servitori: «grasso che cola per Federico Fellini», ha commentato Sergio Zavoli in un articolo del 25 ottobre 2004, a testimoniare ed a confermare che nulla di crea e nulla si distrugge, a Rimini, se non passa attraverso la macina e la bacchetta magica del regista dei «Vitelloni».




I problemi sono tanti, e diversi perché il mondo cambia, oggi non ricchi sultani ma poveri «extracomunitari», come li definisce la legge, arrivano da noi a chiedere, bussare, e talvolta ad inquietare il sentire comune.

Davanti alle situazioni nuove che si creano (non c'è spazio qui neppure per elencarle), chiedersi se esista ancora un'identità riminese, rassomiglia tanto all'operazione astrologica del 1613 quando il dilemma riguardava il segno sotto cui considerare posta la città.




Con una piccola differenza, che oggi per sapere qualcosa del futuro di Rimini, bisognerebbe rivolgersi non agli astrologi ma ai maghi del cemento, i cosiddetti palazzinari. Loro sì che sanno come andrà a finire.

 
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