Messaggi di Novembre 2007
Appartengo da quarant'anni alla schiera più o meno folta dei libertini.
Rispetto tutte le scelte di tutti su tutto. Quindi, nessuna censura su nessuno. Ma non ammiro l'eletta classe politica dei sostenitori della «famiglia cristiana» che non sanno neppure che cosa essa sia, se è vero il detto evangelico secondo cui l'albero si riconosce dai frutti che dà.
Non essendo l'uomo un albero, ovviamente può fare quello che vuole e sostenere che i frutti sono indipendenti dalla pianta. Benissimo. Ma piantatela una volta per sempre di predicare bene e non accettare i princìpi che predicate come guida dei vostri comportamenti. Non fatevi paladini della «famiglia cristiana» quando il vostro carniere ne contiene più di una.
Commentando un interessante post dedicato da Giulia Volpi a Vespa, ho scritto che dalla cintola in giù, per i politici guarderei soltanto alle tasche dei pantaloni dove conservano il portafogli. Quindi non mi soffermo su vicende personali alle quali si deve quel rispetto che i politici non hanno quando legiferano sulla vita dei «semplici cittadini». Loro, i parlamentari, possono già ora lasciare la pensione in eredità ai loro conviventi.
Questo fatto non offende la morale sentimental-sessuale, ma quella "civile" o politica dell'uguaglianza fra tutti i cittadini.
Oggi si annuncia un altro testo sul tema amoroso, scritto da Filippo Ceccarelli, «Il letto e il potere. Storia sessuale d'Italia da Mussolini a Vallettopoli bis». Forse sarebbe stato più simpatico «Il potere a letto». Ceccarelli è un cronista appassionato e documentato. Ne racconterà delle belle. Ma servirà a qualcosa la rivelazione dei segreti dei talami politici?
Un altro libro è annunciato, «Impuniti. Storie di un sistema incapace, sprecone e felice» (di Antonello Caporale). Lo ricordo per agganciarmi con una notizia locale a proposito di sprechi pubblici. L'Azienda sanitaria di Rimini ha di recente ristrutturato la sua vecchia sede in pieno centro. Il Comune ora vuole demolirla per far largo al mercato ambulante. A chi ha scritto ai quotidiani locali per chiedere quanti soldi ha speso per quei lavori, l'Ausl interessata non ha risposto. Perché? Trattasi di dati pubblici, non di quegli apparenti segreti d'alcova che adesso tutti rivelano. A dimostrazione forse che parliamo inutilmente di cose non importanti, e siamo messi a tacere per quelle serie. Mah.
A proposito. Ricevo questa mail di Nicoletta Forcheri: «Gentile Antonio Montanari, semplicemente una domanda: come mai nessun quotidiano parla a titoli cubitali della fragile vittoria del movimento No Dalmolin che è riuscito ieri a bloccare la ditta ABC di Firenze che doveva cominciare i lavori di bonifica a Vicenza per la costruzione della base militare USA? E come mai se i quotidiani non ne parlano, non ne parla qualche blogger "accreditato" come lei?
Perché vede il prossimo bersaglio dei grillini sarà la stampa, e a buona ragione, perché è oramai da tanto tempo che invece d'informare disinforma, omette notizie importantissime e fa demagogia con frasi fatte come "sinistra radicale" "antipolitica" "sicurezza energetica" "accordi internazionali" "notizie confindenziali" o semplicemente "Bruxelles" e così via dicendo, tutte espressioni faziose e nelle varie fattispecie o inesatte o troppo vaghe. La stampa scritta ma anche quella televisiva sono diventate un grosso megafono dei politici e non fanno altro che ripetere come pappagalli quel che dicono, senza mai andare a verificare i fatti, tranne qualche eccezione ormai nota ai più.
Io dico ci vorrebbero dirigenti, in questo caso direttori di giornali, più coraggiosi, giornalisti più coraggiosi e cittadini più coraggiosi.
A quel punto tutti i criminali di questo paese si cagherebbero dalla paura e si smaschererebbero da soli. Tutto il resto è reato di omissione di soccorso a persona in pericolo, solo che in questo caso la persona siamo tutti noi, ed è il nostro paese intero non solo in pericolo ma già mezzo morto ammazzato».
Ho risposto: «Argomento interessante, pubblico la lettera. Sinceramente, non riesco a stare su tutte le notizie italiane. Grazie per l'"accreditato", ma nell'informazione da soli si fa poco se non si ha l'aiuto preziosissimo con le 'dritte' come la sua. Mi tenga informato.»
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«Quest'uomo lo hanno ucciso...». Un cardinale emiliano, Ersilio Tonini, dice ieri sera nella trasmissione televisiva di Michele Santoro queste parole, riferendosi all'«editto bulgaro» che nell'aprile del 2002 colpì Enzo Biagi: «Lo hanno ucciso. È stato un ostracismo. Enzo Biagi dava fastidio, non era utile ed è stato cacciato».
Di un altro uomo di Chiesa, leggiamo su «Repubblica» di stamani. Monsignor Giancarlo Maria Bregantini, vescovo di Locri da 13 anni, è stato nominato a Campobasso. Dice il titolo: «Trasferito per salvargli la vita».
Carissima signora Bice Biagi.
Lei, all'ultimo saluto pubblico a Suo padre ha detto: «Certo che c’è stato (l'editto bulgaro). C’è qualcuno che ogni tanto ha delle botte di amnesia. Lui invece non ha mai perso la memoria, né lui né noi».
È vero, ci sono in giro botte di amnesia terribili. È un drammatico gioco dei bussolotti. Il cavalier Berlusconi, allora disse: «Credo sia un preciso dovere della nuova dirigenza (della Rai) non permettere che questo avvenga».
Il «questo» che non doveva succedere più, era l'uso «criminoso» della tv di Stato, di cui era accusato Suo padre.
Adesso il cavalier Berlusconi nega. Secondo lui non aveva mai detto che Biagi, Luttazzi e Santoro «non dovevano fare televisione». Aveva espresso un auspicio. Ha trovato immediatamente un'obbedienza cieca ed assoluta.
L'editto c'è stato, eccome. Nella formula subdola che oggi permette al suo autore di negarlo.
Mi scusi se in aggiunta parlo di fatterelli personali. A me è successo qualcosa di simile a partire dal 2001, per merito di certe dame seguaci del verbo proveniente da Arcore. Il 14 novembre di quell'anno tenni in un'associazione cattolica una conferenza intitolata: "«La guerra non cambia niente». Dolori nella Storia e desiderio della Verità nel '900 letterario italiano".
Avevo preso la citazione del titolo da quell'«Esame di coscienza di un letterato» di Renato Serra, che mi sarebbe servito per esprimere il mio debol parere sulle circostanze di quei giorni, legate alle vicende dell'11 settembre, ed alla minaccia di una guerra globale.
Con la cautela necessaria non per opportunismo ma per realismo, mi schierai contro le guerre di esportazione della democrazia.
Apriti cielo... Da quella volta non fui più invitato da quell'associazione culturale cattolica.
Poi sono successe altre cose, legate ad esempio ad un altro tabu della destra cattolica riminese che ha tanto potere curiale: quello della falsa sommossa antigiacobina e filopapale dei marinari riminesi nel 1799. Pochissime righe apparse sul settimanale diocesano, e riprese da una storia ottocentesca, ebbero la piccata risposta di un'intera pagina sul settimanale stesso con tutta una serie di notizie non rispondenti al vero.
Poi ha dato fastidio qualche mio studio storico sulla condanna all'indice di un medico riminese del 1700 per speciale intercessione del vescovo della città.
Lentamente da quel novembre 2001 mi si è stretta attorno una cerchia di isolamento sanitario da «evitato speciale» per cui nel giornale a cui collaboravo, prima mi è stata tolta la sezione culturale, poi non mi hanno commissionato più le recensioni dei testi storici. Per cui ho preferito abbandonare dopo quasi 25 anni di lavoro, per non avere altre beghe.
Nessuno ha firmato editti, nessuna "sa" niente di quanto accaduto. Però le cose sono avvenute.
È vero, ci sono in giro botte di amnesia terribili. Quando parlavo di queste vicende mie con le persone che sanno, alla fine ero considerato come un visionario.
Il fatto drammatico è che il sire di Arcore ha fatto scuola anche su chi non ne condivide le idee. Oppure è soltanto l'ipocrisia umana che cresce in ogni terreno.
Spesso aggiungo una domanda ironica: che fine avrei fatto?
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L'avvocato Luigi "Titta" Benzi depone la toga, ad 87 anni. La notizia riguarda un po' tutta quella Rimini che conosce il valore simbolico della sua figura di amico e confidente di Federico Fellini.
Una figura storica, legata al tempo in cui a Rimini di "Federico il grande" non interessava nulla. Il tempo delle sue visite notturne alla madre ed alla sorella. E di qualche raro incontro con gli amici che magari lo sfottevano. Amici, diciamo conoscenti. Perché dei veri amici sinceri ed amati come oggi non usa più, forse l'unico esemplare cittadino è stato appunto l'avvocato, il Titta che diventa personaggio di "Amarcord", simbolo di una giovinezza e di una città.
Nato nel 1920, laureatosi nel 1942, ha cominciato a fare il legale nel 1946.
Le sue memorie felliniane sono nel volume edito da Guaraldi ed intitolato «Patachédi».
Mai allontanatosi da Rimini, se non per i viaggi professionali, Benzi è un custode
mai invadente delle memorie felliniane, delle quali spesso ha fornito
quelle «interpretazioni autentiche» che l'amicizia con Federico poteva
permettergli. Alle sue sorridenti rievocazioni hanno sempre attinto
televisioni e giornali non soltanto locali.
Nel 2002 ha ricevuto il «Sigismondo d'oro» dal Comune di Rimini. In quell'occasione pubblicai il testo che riproduco qui sotto.
Luigi Benzi è detto «Titta», soprannome che non a caso Fellini ha attribuito al protagonista di «Amarcord», quasi ad indicare un alter ego intrigante per i biografi del regista. Rappresenta, ha detto il sindaco nell'annunciare il premio «Sigismondo», la tradizione e l'identità riminese. Ne è stato, prima che custode, un interprete «sminchionato» al pari di molti altri della sua generazione.
Rimase famoso l'episodio accaduto alle Idi di Marzo del 1939, quando il ritmo militare della sfilata fu inframmezzato da piccoli passi di danza sul motivo della «Danza delle ore» di Ponchielli, proprio sotto il palco delle autorità e davanti alla statua di Giulio Cesare, dono del duce alla città. Benzi, Guido Nozzoli ed altri riuscirono a sottrarsi all'ira di un campione italiano dei medioleggeri che era sul palco, Benito Totti. Il quale però riuscì a colpire l'ultimo della fila dei 'ballerini', Ennio Macina, figlio di un ex sindacalista che negli anni Venti aveva conosciuto il «santo manganel».
Benzi ricorda che fu suo padre ad imporgli di fare l'avvocato: «Lui era capomastro e veniva da una famiglia di muratori. Il suo legale un giorno gli presentò una nota di 134 lire, cifra considerevole per quell'epoca. Mio padre prima quasi svenne, poi contrattò fino a cento lire. L'avvocato prese le cento lire, le arrotolò, le bruciò con un fiammifero e ci si accese un sigaro dicendo: visto cosa ci faccio con le tue cento lire?».
Tullio Kezich, il biografo 'ufficiale' di Fellini, elogiò le memorie riminesi del «leggendario» Benzi, pubblicate con un titolo («Patachédi») inevitabile sino ad un'ovvietà capace di trasformarsi in lezione di vita per i non indigeni. Sino a costituire un sistema di lettura della nostra realtà, tra nostalgia e travisamento totale che agli altri piace, mentre a noi magari stufa, perché si fa soltanto spettacolo e divagazione inventando qualcosa che alla fine, per parafrasare lo slogan celebre d'un detersivo, appare «più vero del vero».
Lo spirito riminese, come dimostrano alcuni film felliniani, è questo innalzarsi sopra un piedistallo, un banchetto, una sedia, e principiare a raccontarsi. Che cosa si dica non importa. Basta parlare, e farsi ascoltare, consapevoli soltanto che, alla fine, si tratta soltanto di «patachédi» e che un applauso convinto non manca mai.
Assieme a Luigi Benzi, nel 2002 fu premiato con il Sigismondo d'oro il professor Lodovico Balducci, medico negli Usa e figlio di Carlo Alberto, che fu noto insegnante e preside nelle scuole superiori riminesi.
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Il cronista galantuomo Enzo Biagi con la sua lunga esperienza, ha lasciato un rigoroso insegnamento sulla necessità della lettura dei fatti e dell'interpretazione della storia.
La memoria ha una sua etica non perché conoscere gli errori ed i drammi del passato significhi evitare di ripeterli in futuro. Magari fosse così.
Non si sa bene che cosa sia la storia: se caso, provvidenza, inconsapevole ed irrazionale procedere di eventi.
Le cose succedono sempre da sole, nel bene e nel male. Ignorarle significa soltanto condividere gli orrori compiuti da chi se ne è macchiato. Conoscerle è già un mezzo per rifiutarli. Per suggerire qualcosa che potrebbe servire a tutti noi, nelle nostre scelte presenti e future. Il passato non si cancella mai.
Enzo Biagi ha vissuto il secolo che, non so perché, qualcuno ha definito breve. Sono stati decenni invece lunghi e pieni di tragedie.
Due guerre mondiali, il razzismo dall'inizio alla fine, poi la shoà nel mezzo, con quel popolo trascinato nelle camere a gas chissà per quale colpa dei loro padri o per quale follia dei loro contemporanei.
Di queste cose lui ha sempre parlato, in interviste ai protagonisti, articoli, volumi. È stato un pedagogista della notizia, sapendo che in ogni rigo di giornale o di libro si condensano drammi che possono essere ricordati attraverso un volto, una canzone o un film.
Le storie di Biagi sono state per molti italiani l'unico veicolo di formazione culturale ed intellettuale. Sapeva scrivere, nel senso che sapeva come farsi leggere. Quindi uno stile asciutto, nervoso. Perché il modo di comporre una frase è anch'esso espressione di una concezione morale. Non soltanto letteraria.
Scrivere per tutti, raccontando cose di tutti, è stata per lui una bella lezione di democrazia vissuta non come proclama retorico ma testimonianza concreta ed immediata.
Nel giorno della sua scomparsa, ci piace ricordarlo con il suo ironico interloquire, con il continuo ricordo delle sue umili origini e di sua madre che lo svergogna in classe perché ha detto una bugia alla maestra, con quella sua battuta (felice come un capolavoro filosofico) sulla signora che ammetteva: sì mia figlia è incinta, ma soltanto un pò.
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Non era un prete accomodante. Anzi. Convinto di essere sempre dalla parte giusta, perché così lo ispirava il Vangelo, non ha mai cessato di dare battaglia ai potenti, in un Paese in cui l'inginocchiarsi ai potenti è un'abitudine derivata da un passato fatto della devozione ai signori feudali più forte di quella alla Chiesa.
Frutto di questa mancanza di laicità, l'Italia ha visto sempre proiettarsi sulle sue vicende politiche le ombre di un integralismo spesso legato ad interessi di bottega ed a sotterfugi di comodo.
Nel suo integralismo evangelico, don Oreste è stato lontano da questa mentalità. Lontano dagli affari palesi o mascherati. Talmente aperto e chiaro nei suoi discorsi da non lasciare spazio appunto a quei sotterfugi di comodo che vediamo spesso insinuarsi nelle vicende politiche.
Ha sempre parlato ed agito apertamente, talora infastidendo anche i più ben disposti verso di lui per un tono che non ammetteva repliche, ma con il sorriso che cancellava ogni divisione. Come è stato detto, non nutriva antipatie, non conservava rancori. E questo perché rifuggiva da ogni diplomazia nei rapporti con i signori del potere, ai quali dovette sembrare un po' come quel padre Cristoforo manzoniano che alzava la voce in casa di don Rodrigo: «Verrà un giorno...»”.
E come il frate seicentesco, questo prete del ventesimo secolo sapeva che «Dio ha sempre gli occhi sopra» i poveri. Gli «ultimi» di cui parla il Vangelo, sono stati al centro dell'azione di don Benzi sino alla vigilia della sua scomparsa.
Un bel ritratto di questo prete, scomodo per la gerarchia ma amato non per quello che diceva soltanto ma per quello che ha concretamente realizzato nell'utopico progetto evangelico, è stato tracciato dallo storico bolognese Alberto Meloni: don Benzi è stato espressione di quel modello emiliano-romagnolo, «dove il cattolico la rispettabilità se la guadagnava non in biblioteca, ma sul campo, contrapponendo radicalismo a radicalismo».
Ritratto che tuttavia richiederebbe un'appendice inevitabile: sul rapporto fra il radicalismo di una fede e la laicità dello Stato.
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Se avessimo voglia di scherzare, battezzeremmo Romano Prodi «servitore dei due Veltroni». Non per gratuita irriverenza, ma soltanto per usare il classico titolo goldoniano come chiave interpretativa del presente. Ma dato che i tempi sono tremendamente seri, ci chiediamo se per caso, oltre ai due «padroni» politici impersonati dal sindaco di Roma, e mutuati dalla trama della commedia settecentesca, non ci sia in ballo anche un terzo personaggio. A cui il segretario del Pd dà voce e figura sul palcoscenico della politica italiana.
Il primo Veltroni è quello che aspetta con la calma dei forti e la frenesia del cavallo purosangue in procinto di fare la sua corsa tutto da solo. Il candidato in pectore a palazzo Chigi.
Ha rinunciato ad andare in Africa, come aveva promesso, dopo aver completato l'esperienza amministrativa nella capitale.
Ha visto (forse) che i guai italici sono ben maggiori di quelli del continente dove avrebbe voluto fare una specie di missionario laico.
Per cui la sua coscienza gli ha suggerito di restare. Ad aspettare che la poltrona di capo dell'esecutivo sia tutta sua.
Il secondo Veltroni è quello che vede la città che governa, la capitale che amministra, finire nelle cronache più terribili, come se i pericoli per le donne e per la loro libertà di movimento fossero un dato nuovo, inedito ed inaspettato non soltanto alla periferia romana, ma anche nei centri di altre località, grandi o piccole, famose o no.
Il terzo Veltroni è il segretario del Pd che in certi momenti della giornata deve guardare in faccia gli altri due. E chiedere ad uno se ha fatto tutto, come sindaco, per salvaguardare l'incolumità dei suoi cittadini. Ed all'altro se è possibile studiare qualcosa, prima di occupare la poltrona di palazzo Chigi. E miracolosamente sembra che tutti i due Veltroni interrogati dal segretario del Pd in carica, si siano trovati d'accordo nel sostenete che se c'è uno che deve pensare ai guai italiani, è proprio e soltanto Romano Prodi. Che le elezioni le ha vinte ed è stato nominato dal capo dello Stato.
A teatro, ad una certa ora, le rappresentazioni finiscono, come previsto dal copione. In politica del doman non c'è certezza. Addirittura non sappiamo se ciò a cui assistiamo sia soltanto una commedia mentre i momenti sarebbero più adatti alla tragedia.
In politica, anche in politica, viene tuttavia il momento in cui c'è la resa dei conti. E chi deve stavolta pagare il conto è Romano Prodi.
Ce ne dispiace perché è una persona convinta del suo lavoro, che non usa la politica per altri scopi, che ha lanciato il grande progetto riformista dell'Ulivo, finito in un incontro tra due gerarchie direi quasi ecclesiastiche (almeno per una di esse).
A rimetterci è soltanto lo spirito dell'Ulivo, ma questo l'ho già scritto il 16 ottobre scorso.
Oggi voglio condividere la preoccupazione, anzi qualcosa di più di una preoccupazione, espressa a Bologna con "Repubblica" (foto) da uno scienziato come Carlo Flamigni: il Pd affonderà sui temi etici, perché in esso è impossibile ogni dialogo fra laici e cattolici. L'Ulivo era nato per favorire quel dialogo. Non soltanto, come sogna Veltroni, con il capo dell'opposizione e la di lui consorte.
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E poi per quell'aria ieratica del buon Ferrara che, svelando certi segreti di certe alcove, sembrava essere lì lì per risolvere i più drammatici problemi non dico del presente ma addirittura del prossimo futuro. Quante mosse vanesie da parte del trio.
Le alcove sono storia e politica? Beh, dalla cintola in giù, per i politici guarderei soltanto alle tasche dei pantaloni dove conservano il portafogli.
Per il resto, il rispetto della privatezza dovrebbe essere fondamentale, a meno che certi episodi non siano legati ad eventi storici e pubblici. Non si può accantonare la Petacci, vista la fine che ha fatto. Ma si può tranquillamente dimenticare la serie di amicizie di questo o quel leader politico più vicino a no nel tempo ma non coinvolto in scandali conseguenti al suo mondo di essere sentimentalmente, soprattutto se poi non si scoprono tutti gli altarini di 40 o 50 anni fa per tutti gli uomini che sono stati protagonisti della politica.
La Grande Storia che Vespa dimostra di prediligere, dopo alcuni volumi che, mi sembra, se non ricordo male, parlano degli ultimi 60 anni, si è ristretta ai comportamenti erotici della politica.
Ma credendo di essere un innovatore, con il volume di cui ha parlato chez Ferrara, Vespa ha dimostrato una specie di culto di quei fatti minimi che non fanno la storia ma spesso servono a distruggere reputazioni.
Una volta, quando c'erano certi potenti, su queste vicende ci lavoravano i servizi segreti. Adesso si mira a far cassetta con i diritti d'autore. Beh, se uno vuole essere uno scrittore, dato che già come giornalista televisivo non guadagna male, potrebbe avere più rispetto per la propria personalità, prima di quelle di cui parla.
Circa Ferrara, un tempo grande estimatore e supporter di Craxi), mi viene il dubbio che sia afflitto da un complesso di gigantismo psichico, di considerarsi una specie di Mangiafuoco che sogna di manovrare la storia e la cronaca come se si trattasse di povere marionette.
Ma nella storia e nella cronaca ci sei anche tu, gentile Giulia, che hai scritto questo testo molto interessante (qualcosa di più di una pagina da Diario personale) e ci siamo anche noi semplici lettori. Che siamo magari considerati soltanto spettatori con l'obbligo di restare in silenzio. Purtroppo abbiamo il vizio di parlare. Anzi rivendichiamo il diritto di parlare. Ecco, questa sarebbe stata una cosa non veramente gradita a Craxi, altro che i pettegolezzi postumi che soltanto offendono la sua famiglia.
Ciao, complimenti e saluti.
Questo testo è stato inserito come commento al blog di Giulia Volpi.
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Nickname: monari
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Sesso: M Età: 81 Prov: RN |
Inviato da: nospacenotime
il 29/09/2008 alle 18:44
Inviato da: amoildeserto
il 13/09/2008 alle 21:44
Inviato da: angeligian
il 03/08/2008 alle 07:53
Inviato da: ninaciminelli
il 21/07/2008 alle 22:44
Inviato da: filtr
il 20/07/2008 alle 21:43
Il tran tran quotidiano, il male di vivere dell'ordinario, impongono anch'essi l'obbligo di essere sinceri con il prossimo, perché con se stessi si può sempre trovare modo per sottrarsi alla chiarezza. Per barare. Questo nell'ambiente di lavoro, nella famiglia, nei rapporti formali ed informali con il prossimo tuo. Sognare un mondo senza ipocrisie è un'utopia? Ma spesso l'utopia è la più sana forma di realismo per rendere accettabile l'inaccettabile.