Messaggi di Dicembre 2007

POLTIGLIA E FURBIZIE

Post n°346 pubblicato il 08 Dicembre 2007 da monari

Chiti_3 Onorevole Vannino Chiti, lei ha promesso di far cancellare la cosiddetta norma «anti-omofobia» nel decreto legge sulla sicurezza, perché «fa riferimento al Trattato di Amsterdam in un modo che si presta ad equivoci».

Il Trattato di Amsterdam all’articolo 13 rende gli Stati liberi di «prendere provvedimenti opportuni per combattere le discriminazioni sul sesso, la razza o l’origine etnica, le religioni o le tendenze sessuali».

Quella norma non è «anti-omofobia», è contro le discriminazioni di qualsiasi tipo che esistono (eccome) nel tessuto sociale di molte regioni italiane, così come una volta si potevano leggere cartelli tipo «Non si affitta a meridionali».



Quella norma c’è pero già nella nostra Costituzione, art. 3, primo comma. Ma nessuno se ne ricorda: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale e sono eguali davanti alla legge, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali».

Dunque ci dobbiamo aspettare un prossimo passo di tipo costituzionale, con la revisione di quell’articolo e di quel comma?



Suvvia, signori del Parlamento, non riduciamo i discorsi seri a motivi di bagarre elettorale, anzi pre-elettorale. Si vuol far cadere il governo Prodi, si vuole una nuova convocazione alle urne, ci si adopera nel progetto del grande centro nella speranza che i portavoce dell’integralismo riescano ad imporre un governo “moderato” senza Berlusconi.

Va bene, è più che lecito, legittimo, quasi ovvio, forse inevitabile, anzi sicuramente certo, etc.

Ma per favore non spacciate per norma «anti-omofobia» una regola di civiltà che riguarda tutti i comportamenti.



Ma poi, vorrei sapere, che cos’è tutta questa fobia dell’anti-fobia? Non ci sono più gli psicanalisti di una volta, a spiegarcelo…

Binetti01g A proposito. La senatrice Paola Binetti, ha parlato addirittura di uno strangolamento delle coscienze tramite quella norma. Inquietante.



L’«Avvenire» di stamani è stata sincera ma altrettanto allarmante (per sua ammissione): «Il primo allarme scaturisce dal tentativo pervicacemente condotto di equiparare le tendenze sessuali alle differenze naturali, ad esempio di sesso e di etnia, elevando le prime ad una 'qualità' antropologica che non hanno e non possono avere, e ciò nell’interesse di tutti, in primo luogo delle persone omosessuali. C’è qui una sorta di 'fissazione' in base alla quale la personalità di ciascuno sarebbe determinata non solo e non tanto da quello che egli «è», ma piuttosto dalle pulsioni sessuali che eventualmente decide di assecondare. S’insiste sulla presunta necessità di porre un freno all’«omofobia», ma si arriva a sospettare persino della difesa del matrimonio monogamico quasi che fosse in se stesso un delitto di lesa maestà».

(Articolo esemplare per impostazione e svolgimento: si parte da un episodio particolare e si ipotizza una catastrofe generale della morale… come all’epoca della legge su divorzio.)


 

Condivido quanto scritto stamani sulla «Stampa» da Franco Garelli: «La vera sfida che attende anche i politici credenti è quella del pluralismo, della capacità di affermare e di "concretizzare" i grandi valori in un contesto in cui si vivono condizioni e orientamenti diversi, ove più nulla è dato per scontato. Ogni area culturale è chiamata a dare il proprio contributo progettuale per arricchire e dar risposte alle diverse situazioni e promuovere più larghe convergenze».


 

Senza pluralismo non c'è democrazia. E se non c'è democrazia né Chiesa né religione possono dignitosamente agire senza compromessi.


 

Il sociologo prof. Giuseppe De Rita nel consueto rapporto del Censis (creando ogni anno una formula efficace per fare il ritratto dell’Italia), ha presentato per il 2007 l’immagine della «poltiglia».

Dario Di Vico sul «Corriere della Sera», al proposito ha parlato di una società politica a cui mancano i contenuti e che attinge ai manuali di marketing.

Sullo stesso giornale, a proposito del caso-Forleo, Piero Ostellino ha scritto che in Italia il potere è detenuto dalla banche e che il magistrato in questione non ha usato «le cautele, le furbizie e le opportune ambiguità della politica».



Mi sembra che il caso della norma che lei on. Chiti ha promesso di cancellare, rientri in questo quadro deprimente della poltiglia, della politica che attinge ai manuali di marketing, e che si caratterizza per «le cautele, le furbizie e le opportune ambiguità» di cui ha scritto Ostellino.

Pensi ad una città che lei ben conosce, Firenze, ed a che cosa è successo alla Società Dante Alighieri. Glielo spiega il prof. Emilio Pasquini: «Una cordata di politici e di presunti studiosi mi ha defenestrato con un colpo di mano per nominare un nuovo consiglio direttivo ed un nuovo presidente» (il vecchio era ovviamente lui).



Il prof. Pasquini ha spiegato il problema apertis verbis non essendo un politico.

Noi ne ricaviamo l’amara constatazione che nemmeno padre Dante ed i suoi studiosi sono lasciati in pace da queste cordate di uomini appartenenti ai partiti e che sponsorizzano «presunti studiosi».

Ostellino ha citato una frase di Hobbes: «Auctoritas, non veritas, facit legem».



Che la denuncia di questi vezzi e vizi provenga dalla colonne del maggior quotidiano conservatore del nostro Paese, la dice lunga sull’imbarbarimento in cui siamo stati ridotti, immersi in quella «poltiglia» che la decenza ci impedisce di chiamare con il suo vero nome, uscendo dal seminato scientifico del Censis ed entrando nell’umile linguaggio che anche Dante usa: Inferno, XVIII, 116. Trovare per leggere…



anti_bug_fck

 
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BIANCANEVE E BIANCOFIORE

Post n°345 pubblicato il 05 Dicembre 2007 da monari

Stampa051207 Se la dottrina politica si riduce alla parodia delle favole, dobbiamo essere grati agli illustri studiosi che ci facilitano la comprensione dei misteriosi sistemi elettorali italiani.

Dunque sia lode al prof. Giovanni Sartori che stamani sul «Corriere della Sera» ha illustrato la sua teoria del «ricatto dei nanetti». Questa parola vuol soltanto indicare le piccole formazioni politiche. E non disprezzarle.

Se fosse Veltroni, Sartori direbbe a Prodi che la colpa della crisi di questi giorni è esclusivamente sua, del presidente del Consiglio: «Se tu usi i nanetti per ricattarmi, io non ci sto. I nanetti sono tuoi, sei tu che te li sei coccolati e messi in casa».



Chiedo scusa, ma a questo punto mi si è messa in moto la fantasia: e mi sono immaginato Romano Prodi che come Biancaneve guida la combriccola dei Sette Nani e li vezzeggia solleticandoli sul mento o facendo loro un affettuoso buffetto alle guance.

Da Biancofiore a Biancaneve il passo è ovviamente breve, in quest'Italia da favola, ovvero con questa politica che si rallegra soltanto quando può inventare qualcosa che evade dalla monotonia del vivere quotidiano.

Aumenta il pane, cresce la pasta, si fa fatica ad arrivare a fine mese? Beh, non avvilitevi, c'è chi sta peggio.

Da Biancofiore a Biancaneve, Romano Prodi sarebbe messo proprio male. Lui, il pedalatore appenninico, lui che qualcosa ha fatto per quell'Europa sognata nel dopoguerra per un futuro senza più guerre continentali, lui deve finire avvelenato con una mela?

E chi sarà il principe azzurro che arriverà a svegliare Biancaneve?

Non so immaginare Bertinotti nel gesto soccorrevole, dopo aver detto a chiare lettere che insomma, questo governo gli fa quasi schifo. Forse anche per questo particolare è difficile considerare lo stesso Bertinotti come un «nanetto» vezzeggiato e coccolato, in mano a Prodi, quale appare al prof. Sartori.



Bertinotti non ce l'ha su con Prodi, l'oggetto del suo desidero è Veltroni. Lo sgambetto vuole far cadere il patto Silvio-Walter, vuole troncare sul nascere le speranze di governare l'Italia con un abbraccio che spiace a molti, non soltanto al presidente della Camera ed ai nanetti di cui parla il prof. Sartori.



Questa sera Berlusconi ha attaccato Casini. Lo ha accusato di aver «ucciso» la Casa delle Libertà. Per essere anche Casini uno di quei «nanetti» che proliferano pure a destra, beh non sarebbe stata un'impresa da poco. Ed infatti il Cavaliere teme che tra amici del Biancofiore possa esistere una solidarietà capace di spostare Casini nel Pd come già avvenuto per Follini.

Va a finire che la vera Biancaneve da avvelenare nella nostra favola suggerita dallo scritto di Sartori, è proprio lui, il Pierferdy, bolognese come il Professore, ex democristiano come Prodi, giovane di belle speranze come Veltroni.

A questo punto sembra di essere entrati in una di quelle storielle che si dicevano da «Grand Hotel», dal titolo di un settimanale celebre per i suoi fotoromanzi. Stesso clima, stessa sceneggiatura, stessa finzione.

Non c'è nulla di nuovo in queste parole di Berlusconi. L'elenco dei «cumunisti» si è allungato, ma era da prevedere. Vi compare anche il nome di Casini, con la profezia che il Signore di Arcore ha fatto: la «Cosa bianca» di Casini finirà prima o poi a sinistra.



Una di queste mattine Silvio si sveglierà e interrogando lo specchio («Specchio delle mie brame, chi è il più votato del reame?»), terrà un applaudito comizio: «Chi parla di Popolo è il solito compagno erede di Lenin, Stalin, Togliatti e Prodi».

Poi vide un suo manifesto sul suo «Partito del Popolo». E cercò la mela avvelenata da portare all'on. Casini. Cala la tela.





RIS/posta

Ringrazio gli amici intervenuti nelle ultime ore a commento del post precedente: mi lusingano e commuovono le loro parole di stima e di affetto. Grazie dunque ad Irene Spagnuolo e ad Anna Rosa Balducci.

Per Emilio, aggiungo anche che non vedo in Italia gravi minacce laiciste. Ce ne potevano essere un tempo, nell'immediato dopoguerra, ma Togliatti risolse il problema inserendo i patti lateranensi (fascisti) nella Costituzione repubblicana.

Oggi c'è in giro una stranissima aria che suona una presa in giro sia per il pensiero laico sia per quello cattolico apostolico romano. (Leggere «Fratelli d'Italia», un volume recente di Ferruccio Pinotti.)

Se ad un convegno massonico sull'eutanasia interviene un personaggio di spicco «amico fraterno» dell'organizzazione promotrice, e nello stesso tempo (futuro) diacono di un sacerdote (oltretutto sotto indagine giudiziaria), beh, c'è forse più da ridere che pensare a serie minacce laiciste...

Bisognerebbe rileggere le pagine di don Francesco Fuschini sull'umanità ed onestà intellettuale dei poveri «mangiapreti» romagnoli d'un tempo che lo avevano aiutato, lui povero figlio di un fiocino delle valli ferraresi, a pagare la retta del seminario. Quei «mangiapreti» che onoravano i loro avversari dedicandogli persino un tipo particolare di minestra o pasta (come dicono i più raffinati), chiamata «strozzapreti».



Un appunto extra-vagante. Un mio illustre concittadino, Achille Serpieri (1849-1909) sintetizza così il suo «credo», in chiusura delle proprie memorie: «Vuoi vivere e star bene? / Passa il tuo tempo nelle Sacrestie, / E grida sempre viva Papa, Re, e le Spie». Serpieri sì che era un laicista. Ma quanta ragione aveva. E soprattutto ne ha ancora oggi. Parola d'onore, ve lo garantisco.



Fonte

 
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ENZO BIAGI ED ENZO TORTORA

Post n°344 pubblicato il 04 Dicembre 2007 da monari

Tortora_biagi_blog Ieri sera sul digitale di Rainews24 è andata in onda una serata dedicata ad Enzo Biagi in diretta dal Teatro Quirino di Roma. Vi hanno partecipato anche Bice e Carla Biagi, le figlie del «cronista» (per usare la qualifica che più gli piaceva) scomparso un mese fa.
Ad un certo punto, è stata data lettura di un articolo scritto da Enzo Biagi per l'arresto di Enzo Tortora. Un articolo importante, perché come si può anche leggere nel sito di «Misteri d'Italia», Biagi «fu il primo a lanciare un appello in suo favore al grido di “E se Tortora fosse innocente?”».
Biagi scrisse: «Mentre voi leggete questo articolo, Enzo Tortora è a colloquio con i giudici: sapremo poi, con più esattezza, di quali reati è incolpato, o meglio di quali deplorevoli fatti si sarebbe reso responsabile. Fino all'ultima sentenza, per la nostra Costituzione, stiamo parlando di un innocente. Invece, in ogni caso, è già condannato: dalla riprese televisive, dai titoli dei giornali, dalla vignetta del pappagallo che finalmente parla e dice: “Portolongone”, dal commento senza carità di quello scrittore che afferma: “in qualunque maniera vada, è finito per sempre”. O dell'altro che annota, seguendo la cronaca: “tempi durissimi per gli strappalacrime”».

Dieci anni dopo la morte di Tortora (riprendo pure da «Misteri d'Italia»), «fu ancora Biagi il primo a volerlo ricordare: "Ognuno ha le sue convinzioni, ma quanta cattiveria in certi resoconti, che rancore, e che piacere per il povero idolo televisivo infranto da un mandato di cattura"».

L'intensa lettura dell'articolo di Biagi del 1983 da parte di Monica Guerritore, è stato il momento più interessante della trasmissione di ieri sera. La parole ed i ricordi dei tanti intervenuti (tra cui Romano Prodi), hanno suscitato l'emozione filtrata dai ricordi offerti o dalla considerazioni politiche presentate giustamente circa l'importanza di una libera informazione per realizzare una vera democrazia. Soltanto la pagina di Biagi però ha fatto toccare con mano due problemi veri, che non dipendono da nessuna norma positiva del Diritto, ma unicamente dal dettato della coscienza.

Il primo problema riguarda l'accanimento belluino con cui le cronache alimentarono sin dal primo momento il caso-Tortora. Ricordo di aver ascoltato la notizia del suo arresto dal gr delle 7.30. Con gli amici scommisi che si trattasse di una balla. Tortora non aveva la faccia da doppiogiochista, da truffatore, da delinquente o da gangster. Avrei avuto ragione, era innocente.

Il secondo problema sta dietro quell'accanimento belluino dei giornalisti, sta nell'operato della magistratura. Sta nella capacità di leggere i fatti. Sta non nell'avere l'obiettivo di accumulare carte (dove anche le accuse più inverosimili assumono la dignità di verità giudiziaria, anche se in via soltanto di ipotesi, ma comunque con l'arresto di un innocente ed il suo sputtanamento pubblico). Ma sta nell'avere il massimo rispetto dell'innocente dal primo momento fino a sentenza definitiva.

Per cui per farsi belli non si organizza l'arresto di un grande personaggio pubblico come se fosse la sfilata di una aspirante miss a qualche concorso di bellezza, con fotografi pronti a scattare mille immagini, ad immortalare l'umiliazione suprema per un innocente: i ferri della giustizia (della presunta giustizia) ai polsi.

Le figlie di Enzo Biagi alla fine hanno detto che sarà istituito un concorso non per i grandi del giornalismo (qualche settimana fa, un autorevole riconoscimento in tal senso è stato attribuito, a Ravenna, a Mike Bongiorno ed a Giulio Andreotti), ma per giovani cronisti di provincia.
Ottima idea. Perché come ho scritto sopra, Enzo Biagi amava definirsi un «cronista». Perché ai giovani va dimostrato che la democrazia ha bisogno di questo benedetto quarto potere di cui parlavano i famigerati pensatori del Settecento europeo, di quel «tribunale invisibile» della pubblica opinione che controlli tutto ciò che è di tutti e riguarda tutti, come la vita politica. Un tribunale «che col fatto ci dimostra che la sovranità è costantemente e realmente nel popolo» (Gaetano Filangieri, 1753-1788).

Ho la vaga impressione, per esperienza personale, che oggi, si insegni ai giovani cronisti soltanto come appuntare i discorsi delle conferenze-stampa e come riassumere i comunicati che arrivano in redazione. Senza dare fastidio a nessuno.

Il ricordo di Biagi e l'esempio di quello che lui spiegò nella vicenda di Tortora, possono essere utili a tutti, ma soprattutto a quanti aspirano a scrivere decentemente (non parlo di stile, ma di contenuti) e che stanno oggi facendo la loro gavetta. La gavetta non deve né spaventare né umiliare, perché tutta la vita è un'infinita gavetta. Ogni giorno siamo messi alla prova. Per essere onesti verso gli altri, dobbiamo anzitutto esserlo con noi stessi, e riconoscere che soltanto gli imbecilli si sentono perfetti. Noi siamo persone sempre da perfezionare. Tutti ogni giorno, giovani o vecchi abbiamo qualcosa da imparare.


Ringrazio commosso Gian Contardo Colombari per il suo commento di ieri. Con le ultime parole di cui sopra rispondo al suo elogio. Non mi faccia montare la testa. Scrivere è un modo di vivere o di sopravvivere. È un lavorare per dare un senso alla propria esistenza. Debbo ringraziare gli amici conosciuti o sconosciuti che leggono e commentano. Mi fanno sentire presente a me stesso.
Ad Emilio dico che sono sempre stato fautore del dialogo, fin dai tempi in cui fui educato a questa filosofia da Giovanni Maria Bertin che mi fu docente di Pedagogia al Magistero di Bologna. Per cui riconosco che le contrapposizioni di cui parla Emilio ci sono, e sono pericolose. Ma il fatto che esistano ondate laiciste, non deve precludere a sottolineare od indicare la strada della concezione laica dello Stato, alla quale mi richiamo, partendo dalla stella polare della nostra Costituzione.

Post scriptum. Quelli della mia generazione sono stati educati tutti dall'Azione cattolica. Ne riparleremo, semmai.

Attenzione. Per qualche giorno non ho pubblicato qui i nuovi post: li potete leggere qui.

 
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