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Alle origini dell'affaire Telecom...

Post n°5570 pubblicato il 28 Novembre 2011 da nadir63l
 


Immagine IPB

Giusy Fiorito

Dunque, vediamo integrati in una sola "piattaforma", l'Arma dei carabinieri con un suo nucleo speciale, le procure alle prese con un "diritto speciale di polizia", le attività informative della più grande impresa privata del Paese, la Fiat, e del maggior partito di opposizione, il Pci, presente in modo massiccio nel sindacato e nelle fabbriche. Lo schema è destinato a riprodursi e, con la sconfitta del terrorismo, a deformarsi, a "privatizzarsi".
E' l'humus nel quale matura l'affaire Telecom. Spiegato da Giuseppe D'Avanzo, il giornalista autore di molte importanti inchieste di mafia e spionaggio degli ultimi 25 anni di cronaca italiana e internazionale, scomparso improvvisamente e prematuramente il 30 luglio 2011 a causa di un infarto durante un'escursione in bicicletta.

Il 28 luglio di tre anni prima aveva firmato per La Repubblica un'inchiesta sull'affaire Telecom in occasione della chiusura delle indagini del pubblico ministero di Milano.
Nell'editoriale si fa riferimento a una serie di interviste, ben sei, rilasciate a La Repubblica da Giuliano Tavaroli, "il signore della sicurezza" Telecom, il quale proprio non ci sta a fare da capro espiatorio e afferma che tutti hanno mentito in questa storia e che le informazioni raccolte sono state distribuite in azienda perché commissionate dall'azienda e nel suo interesse.
Ipotesi rifiutata da Tronchetti Provera, che a lungo ha cercato di far passare la tesi che Tavaroli si serviva dei potenti mezzi della Telecom per scopi personali.

Giuseppe D'Avanzo scrive senza mezzi termini che l'affaire Telecom sembra essersi sgonfiato come un budino malfatto, poiché un mascalzone (Tavaroli) e un paio di amici d'infanzia (l'investigatore privato Cipriani e il capo del controspionaggio del SISMI Marco Mancini) avrebbero abusato dell'ingenuità di Tronchetti Provera (presidente Telecom) e di Carlo Buora (amministratore delegato) per procurarsi un gruzzoletto onde trascorrere una serena vecchiaia.
La ricostruzione definita "minimalista" non sortisce gli effetti sperati dall'ex presidente della Telecom, personalità di rilievo del mondo della cultura e della finanza nazionale, il quale, tra le altre cariche, può vantare nel curriculum personale, oltre alla vicepresidenza di Mediobanca, alla presenza nell'esecutivo di Confindustria, nel CDA dell'Università Commerciale Luigi Bocconi e della RCS Quotidiani, anche la presidenza della Pirelli e la presenza nel CDA dell'Inter.
Mentre Carlo Buora, lasciato il Gruppo Fiat dopo una breve esperienza nel 1989 ed essere diventato amministratore delegato della Pirelli nel 1991, assume nel 2001 la stessa carica nella Telecom dopo l'acquisizione di Telecom Italia da parte del gruppo guidato da Tronchetti Provera, rimanendo seduto nei CDA, tra gli altri, di Pirelli & C. Real Estate e Mediobanca e nel comitato esecutivo di RCS MediaGroup.
Il 14 settembre 2006, con le dimissioni di Tronchetti Provera dalla presidenza Telecom, ne diventa vice presidente esecutivo e dal 6 aprile 2007, a seguito delle dimissioni di Guido Rossi, che aveva lasciato la carica di commissario straordinario della FIGC per sostituire Tronchetti Provera alla presidenza di Telecom in vista dello scandalo prossimo a scoppiare, svolge ad interim la carica di vice presidente esecutivo di Telecom Italia.

Il 10 marzo 2010 Tronchetti Provera sostiene dinanzi alla giudice Mariolina Panasiti che la security di Telecom agiva per suo conto.
Nonostante questo, giorno 1 febbraio 2010 Telecom e Pirelli, entrambe quotate in borsa, pur non intendendo ammettere alcuna responsabilità, avevano patteggiato l'accusa di corruzione sulla responsabilità amministrativa delle persone giuridiche per reati commessi dai propri dipendenti nell’interesse aziendale.
Il 28 giugno 2010 Il Corriere della Sera riporta che Marco Tronchetti Provera, nella sua veste di testimone al processo sui dossier illegali, è stato "inaffidabile e inattendibile" secondo la giudice Panasiti.

Tronchetti Provera, iscritto nel registro degli indagati per ricettazione, concorso in intrusioni informatiche e corruzione internazionale, è ascoltato giovedì 24 novembre 2011 dai magistrati milanesi che indagano sul nuovo filone dell’inchiesta sui dossier illegali realizzati dalla security di Telecom e rilascia a Panorama alcune dichiarazioni nelle quali dichiara di aver agito nel rispetto della legalità e dei valori nei quali crede anche nella vita, senza aver cercato scorciatoie o aver ceduto a pressioni.
Parole che rimandano al clima di onestà autoreferenziale da sempre nelle corde dei tanti protagonisti dello scandalo Telecom legati a doppio filo con la struttura dirigenziale nerazzurra.

L'inciso vale per giustificare il nostro interesse riguardo alle vicende di spionaggio illegale che coinvolgono ambienti che trascendono il mondo del calcio, ma che di fatto lo hanno compreso e integrato nella rete perversa dell'illegalità. Ma facciamo un passo indietro.
Nel corsivo riportato dall'articolo di Giuseppe D'Avanzo si intravede il tessuto ibrido dei conflitti d'interesse e della confusione dei ruoli e dei poteri venutosi a determinare in un momento difficile e controverso di storia contemporanea non solo italiana.
Visto dalla parte di Giuliano Tavaroli, che di quegli anni è stato non uno spettatore qualunque e comunque un testimone scomodo. Giuliano Tavaroli era negli anni ottanta con Mancini nella sezione speciale anticrimine milanese di via della Moscova, arruolato nell'Arma dei Carabinieri. Mentre Mancini entrerà nel SISMI, Tavaroli si congederà nel 1988, mettendo a frutto le sue competenze nel settore della sicurezza privata, prima all'Italtel e dal 1996 alla Pirelli. Con agli ordini un nutrito gruppo di 500 uomini, diventa top manager di Telecom-Pirelli, direttamente rispondendo del suo operato a Tronchetti Provera, del quale cura la sicurezza personale e quella della consorte Afef.

Il passaggio dall'Arma alla sicurezza privata viene determinato secondo l'analisi che Giuseppe D'Avanzo ha ricavato dalle sue interviste, da una serie di eventi storici di marca italiana riconducibili al terrorismo e internazionali scaturiti dalla caduta del muro di Berlino. Un nucleo speciale di polizia giudiziaria nacque a Torino sotto il generale Dalla Chiesa, all'epoca dell'arresto di Renato Curcio.
Fu allora che cinque "operai collaborazionisti" furono infiltrati alla FIAT e uno di essi fu arruolato dalle BR. Si generò così un "metodo" di indagine che si fece largo nelle maglie della giustizia perché non previsto esplicitamente da leggi dello Stato preesistenti o nuove, attraverso il quale le linee di collaborazione tra i carabinieri e la magistratura si accorciavano e intervenivano i servizi segreti.
Si svilupparono le sezioni speciali anticrimine e il collaborazionismo fu esteso ad alcuni militanti del PCI e dei sindacati, affinché fossero individuati nelle fabbriche dei varchi per accedere al cuore del terrorismo. In questo modo fu selezionata un'élite di professionisti che esaurita la fase di emergenza dell'eversione terrorista si riciclò passando alle dipendenze delle maggiori imprese italiane.
Similmente la caduta del muro di Berlino fece esplodere il business della sicurezza a livello internazionale, con quelli che in maniera colorita Tavaroli definisce "scambi di figurine", una volta persi i referenti tradizionali, tra security private e servizi segreti. Accresciuti in maniera esponenziale dopo l'attentato alle Twin Towers dell'11 settembre 2001 e grazie al progredire della tecnologia.

Un guazzabuglio nel quale sulle logiche della politica oggi si ritrovano a prevalere gli interessi del business. Del quale ha approfittato uno strapotere determinato dall'occupazione contemporanea di alcune cariche fondamentali di Telecom e di una squadra di calcio non vincente, nonostante le enormi perdite finanziarie, al punto da far dire a uno dei massimi dirigenti dello sport patrio che non si poteva penalizzare con la serie B nemmeno di fronte al mea culpa dello scandalo dei passaporti, che ha smosso gli appetiti insani della vittoria con mezzi illeciti in grado di fare, alla fine, anche cassa. Non è un'ipotesi.
I pagamenti ritrovati presso una società estera di Cipriani, eseguiti dalla Pirelli, i rapporti tra Facchetti e l'arbitro in attività Nucini, i dossier COMO e Ladroni, i risarcimenti richiesti da Vieri e De Santis sono l'epilogo di calciopoli che riconduce alla genesi.

Col senno di poi è possibile individuare un rimpianto, un errore (inevitabile?) nelle difese. Al processo di Napoli sono mancate le deposizioni proprio di quei protagonisti di calciopoli legati a doppio filo al processo Telecom e alla società nerazzurra.
Gli stessi messi spalle al muro eppure graziati dalla prescrizione di Palazzi, dopo che un'inchiesta della FIGC condotta dallo stesso Borrelli che aveva lamentato in diverse occasioni che le indagini su calciopoli non erano state condotte in tutte le direzioni e in maniera sufficiente, aveva archiviato nel 2007 la loro posizione.
Nonostante la stessa federazione fosse stata spiata attraverso i suoi designatori e dirigenti. Risale infatti ai primi mesi del 2006 l'inchiesta con la quale D'Avanzo, in collaborazione con Bonini, svelava che fosse attivo un abusivo "servizio segreto" ad opera del Tiger Team di Telecom. E al 15 giugno dello stesso anno un articolo del Corriere della Sera che riferiva: "Vieri spiato quando giocava con l’Inter".

Il lettore deve sapere che anche il metodo D'Avanzo, basato su molteplici verifiche della notizia prima che questa venga pubblicata, è stato posto sotto osservazione, poiché l'abbondanza di informazioni è stata messa in relazione a sua volta con l'accesso a fonti dirette del mondo degli agenti segreti. Ne è scaturita, in questo paese di schieramenti dove non si lesinano i colpi bassi, la solita bagarre a base di accuse reciproche di esponenti del mondo della politica e delle testate giornalistiche.

Enzo Biagi ci ha lasciato il 16 agosto del 2006, dopo la sentenza sportiva di calciopoli, sulle colonne del Tirreno dove era stato emarginato, una sorta di testamento morale a monito: “Una sentenza pazzesca, e non perché il calcio sia un ambiente pulito. Una sentenza pazzesca perché costruita sul nulla, su intercettazioni difficilmente interpretabili e non proponibili in un procedimento degno di tal nome, una sentenza pazzesca perché punisce chi era colpevole solo di vivere in un certo ambiente, il tutto condito da un processo che era una riedizione della Santa Inquisizione in chiave moderna. E mi chiedo: cui prodest? A chi giova il tutto? Perché tutto è uscito fuori in un determinato momento? Proprio quando, tra Laziogate di Storace, la lista nera di Telecom, poi Calciopoli, poi l’ex Re d’Italia ed ora, ultimo ma non ultimo, la compagnia telefonica Vodafone che ha denunciato Telecom per aver messo sotto controllo i suoi clienti. Vuoi vedere che per coprire uno scandalo di dimensioni ciclopiche hanno individuato in Luciano Moggi il cattivo da dare in pasto al popolino?".

Giuseppe D'Avanzo ha scritto: "Un’inchiesta giornalistica è la paziente fatica di portare alla luce i fatti, di mostrarli nella loro forza incoercibile e nella loro durezza. Il buon giornalismo sa che i fatti non sono mai al sicuro nelle mani del potere e se ne fa custode nell’interesse dell’opinione pubblica".

Spesso sembra accadere il contrario.

http://www.giulemanidallajuve.com/newsite/...lio.asp?id=1978


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