Tana del Leprecano

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Io uccido (la lingua italiana)

Post n°141 pubblicato il 10 Ottobre 2006 da maestro.perboni
 
Foto di duffogrup

All’inizio, devo dire, mi era anche simpatico. L’idea di un ex comico ed ex cantante che diventa scrittore e fa il botto non era male, in termini di sberleffo alla paludata società culturale italiana. Poi, le prime righe di Io uccido hanno fatto cascare l’asino. Faletti scrittore di thriller era una montatura fatta ad arte. Ora esce il suo nuovo libro, Fuori da un evidente destino. Il best seller annunciato viene anticipato sulla prima pagina del Domenicale, il supplemento letterario del Sole 24 ore, con un articolo in cui Faletti racconta il viaggio in America da cui ha tratto l’ispirazione per il nuovo capolavoro. Era in Arizona, sulle tracce dei Navajo, a visitare il Grand Canyon, e gli è venuta la folgorazione. Niente di male. Tutti, poi, come Faletti, se non ci siamo mossi molto dall’Italia, leghiamo l’Arizona, Il Colorado, il Texas ai fumetti di Tex, vera educazione avventurosa di qualche generazione di italiani. Tutto bene, quindi. Finché non si legge l’articolo con attenzione. Eccone alcuni estratti: l’Arizona ha il senso di un pellegrinaggio “Forse più nella memoria che non in un luogo geograficamente quantificabile.” Cosa significa geograficamente “quantificabile”? Il senso lo si capisce, ma nello stesso modo in cui si capisce un tedesco che chiede informazioni a gesti. Poi Faletti parla di Kerouac e di “Thelma e Louise che ne sono figlie spaventate e a disagio nello stesso modo”. Nello stesso modo cosa? Nello stesso modo di Kerouac? Anche qua si intuisce il senso, ma la grammatica è un’opinione. In Arizona Faletti viene preso da quello che quando faceva la suora al Drive In avrebbe definito uno “sc’iupun”: “La cosa che mi ha sopraffatto immediatamente è stata la sensazione di spazio. Enorme, assoluto, estrattore di fiato e dittatore allo sguardo”. D’accordo che davanti al sublime spesso ci mancano le parole, ma “estrattore di fiato” è una delle più brutte immagini mai apparse su carta stampata. E aggiunge “Tutto intorno si respirava quello che lo spazio immenso ispira”. Qua siamo nei dintorni di Leopardi, ma un Leopardi in salsa trash, che piacerebbe forse a Labranca. Tutto l’articolo è uno scrigno di perle del genere, chiudo con un’immagine folgorante: “Volano falchi con una tale eleganza da indurre a pensare che certi uomini sparino agli uccelli perché hanno invidia che volano”. Qua c’è tutto Faletti: falsa eleganza ottocentesca “tale eleganza da indurre a pensare”, tentativo di poesia da quattro soldi subito inabissata dalla sgrammaticatura clamorosa “che volano”. Poco prima aveva scritto “Su per la strada che saliva verso una strana città che si chiama Sedona (perché strana?), ho avuto il mio primo approccio a una strada (ripetizione!) che attraversa i canyon e le foreste, roccia e alberi spazzati dal vento che muove nuvole e panna montata (!?!?!)”. Gian Luigi Bonelli uno che scrive così non lo avrebbe nemmeno voluto a temperare le matite.

 
 
 
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