ONE MAN TELENOVELA
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Post n°12 pubblicato il 10 Giugno 2007 da molinaro
Un temporale violento su Vercelli ha fulminato il televisore di mia madre e un treno, ma con un altro treno sono tornato a Torino. La domenica sera vado spesso a cena da mia madre a Vercelli. Dopo il temporale, alla stazione, nuvole di zanzare. Vercelli, la mia città natale, ha con me un rapporto tenue, debole, forse insignificante. C'è uno scarso interesse reciproco. Credo che nessuna libreria di Vercelli tenga miei libri. Li terrebbero se scrivessi di storia locale, o di cucina, o se almeno, pur essendo un poeta, fossi un poeta dialettale che va alle sagre. Credo che non mi perdonino il mio trovarmi meglio a Torino, che a me appare così naturale. E a Vercelli non so mai che cosa raccontare. Mi chiedono come stanno i miei figli e nipoti e come va il lavoro. Stanno bene, per fortuna, e il lavoro va come va, c'è e non c'è, è poco pagato ma si tira avanti. D'accordo, ma, detto questo, potremmo parlare di qualcosa un po' più in confidenza? Di che cosa ci ha emozionati stamattina e di chi siamo innamorati? Uno se la aspetterebbe, questa confidenza, dal natio borgo selvaggio. E invece no, niente. Prima di entrare in stazione ho preso un orzo in tazza grande nel chiosco della piazza lì davanti: è l'unico bar di Vercelli che, si può dire, frequento, almeno occasionalmente. Ci sono guardiani notturni, taxisti, vagabondi, viaggiatori e stranieri. Mentre bevevo l'orzo ho sentito ordinare un caffè e ho avuto un'illuminazione. Il caffè è stato ordinato con queste parole: "Ma sì, vah, dammi un caffè, ah". Ma più che le parole conta il tono, un tono rassegnato e nello stesso tempo infastidito, stanco, scazzato. Quasi a dire: non sarebbe il caso di prendere un caffè. Non sarebbe il caso di fare nulla. Non sarebbe il caso di parlare, di comunicare. Non sarebbe il caso neppure di vivere. Non vorrei mai confidarti, barista, che voglio un caffè. Cioè, che forse lo voglio. Lo voglicchio. Dio quanto mi pesa questa confidenza. Ma per stavolta, vah, ma sì, uff, dammi un caffè. Mi sono accorto improvvisamente che a Vercelli quasi tutti i caffè si ordinano così. Che dire qualsiasi cosa è una grande fatica. Anzi, non è una fatica, è un disonore. Se fossi un vero uomo starei zitto. Ma mi abbasso a parlare per chiedere un caffè, sì, vah. Me ne vergogno molto. Vercelli mi ha abituato a questo: a considerare ogni cosa che faccio, ogni cosa che dico, un disonore, un'onta, un abbassamento. Un'umiliazione. A meno che uno gridi, che sia prepotente, allora è un altro discorso, dopo che uno ha gridato forte e a lungo il caffè non deve più nemmeno chiederlo, basta un cenno. Mah. Probabilmente esagero. È stato anche il luogo della mia infanzia. Qualche sogno ci è rimasto. Però da non dire, appunto. Da tenere ben nascosto. Ben chiuso. Come le cose vergognose. Fra le risaie, solo i deboli e le donnicciuole possono avere un'anima da comunicare. Gli uomini stanno zitti, o parlano di cazzate, che è lo stesso che stare zitti. Va così. Eppure c'era, poco distante da Vercelli, una grande foresta, e lì il silenzio aveva un senso, e io stavo zitto per non disturbare, e ci scrissi una poesia. Ma non si poteva stare per sempre zitti e chiusi. Secondo me, almeno, non si poteva. Io ho preferito andare via. RICORDO D’INFANZIA
Sí, tu niñez: ya fábula de fuentes. Jorge Guillén
C’era, poco distante da Vercelli, una grande foresta. A torso nudo m’inoltravo nel verde, e mi colpiva il sole, che oscillava sulle foglie. C’era una chiazza d’acqua che agitava bolle di sabbia, e nasceva un ruscello che rallentava in piccoli laghetti. Molto lontano, il croscio di una cava. C’era un sentiero nitido, compatto di terra bianca fra due cigli d’erba: di colpo si perdeva sul ghiaione sparso di secchi rami calcinati. Il fiume scintillava e scivolava vegliato dagli stridi degli uccelli. Sopra il filo dell’acqua, qualche uomo stava in piedi, qualche volta, fissando. Spingevo piano la mia bicicletta perché non disturbasse. Mai nessuno disse sconce parole. |
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