ONE MAN TELENOVELA
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Post n°316 pubblicato il 22 Aprile 2008 da molinaro
Una pagina de L’animale morente di Roth mi ha illuminato. Ho scoperto chi sono. Mi sono immedesimato. No, non con il protagonista del romanzo, David Kepesh, quello mi sembra un po’ stronzo. No, mi sono immedesimato con lei, Consuela Castillo. Io sono una ragazza cubana di vent’anni, di buona famiglia contadina arricchita, in un campus universitario del New Jersey. Un mondo della cui moderna cultura capisco una cosa sì e quattro no. Come Consuela, mi emoziono davanti agli impressionisti ma Picasso me lo devo studiare con fastidiosa perplessità, cercando cercando e non trovando. Guardo, leggo, ascolto cose che sono dei veri must della cultura moderna e resto lì a cercare di capire che cosa avrei dovuto capire, a sforzarmi di immaginare quale emozione avrei dovuto provare. Non voglio estremizzare, intendiamoci. Ci sono un sacco di cose nell’arte, nella musica e nella letteratura di oggi che mi prendono, mi coinvolgono, mi emozionano, mi cambiano (è il minimo che possa fare l’arte, cambiare le persone), mi spingono avanti verso nuova conoscenza (di testa e di cuore). Ma ce n’è un altro sacco, direi un po’ più grosso, davanti a cui resto proprio come Consuela. Ecco il passo che mi ha colpito: «La cultura è importante, per lei, anche se in un modo antiquato e deferente. Non che sia una cosa da cui voglia trarre il suo sostentamento. Non vuole e non potrebbe - è stata allevata troppo bene e in un modo troppo conforme alla tradizione, per questo -, ma la cultura è importante e meravigliosa come nessun’altra delle cose che conosce. Consuela è la ragazza che trova affascinanti gli impressionisti, ma il Picasso cubista deve guardarlo bene, aguzzando gli occhi (sempre con un senso di fastidiosa perplessità) e mettendocela tutta per cogliere l’idea. Lei sta lì, in attesa della nuova e sorprendente sensazione, del nuovo concetto, della nuova emozione, e quando non viene (non viene mai), si accusa di essere inadeguata e priva di... cosa? Si accusa di non riuscire a capire nemmeno che cosa le manca. L’arte che puzza di modernità non la lascia soltanto perplessa, ma anche delusa di sé. Vorrebbe che Picasso contasse di più, che operasse in lei qualche trasformazione, magari, ma teso sulla ribalta del genio c’è un telo trasparente che le offusca la vista e tiene un po’ a distanza la sua venerazione. Consuela dà all’arte, a tutte le arti, assai più di quanto ne riceva, una specie di zelo che non manca di un suo fascino struggente» (Philip Roth, L’animale morente, Einaudi, Farigliano, Cuneo, 2002, pag. 5). Sì, mi sono immedesimato molto con lei, tanto che all’ultima riga ho pensato: ma fìccatelo su per il culo il suo fascino struggente, saputello professore di merda, che capisci al volo Picasso – ma sarà vero? perché vedi, a Consuela e a me a volte viene il dubbio che voi bluffiate, anche se siamo timidi nel dirlo – e guardi la ragazza cubana dall’alto della cattedra, come fosse un curioso animaletto, ma poi te ne innamori. O forse no, non te ne innamori: ti innamori solo della sua proiezione nel mondo delle tue idee, dei tuoi modi, modi non antiquati e non deferenti, ma gelidi, ah, cazzo, quanto gelidi, e lo sai! Ora, ripeto, non estremizziamo. Ci sarà un po’ di tutto. Certo nell’arte ci saranno cose che non capisco perché mi mancano dei passaggi intermedi, e altre che invece non capisco perché non c’è niente da capire, perché sono, per dirla fantozzianamente, una boiata pazzesca. Il tempo di solito le smaschera. Sono stato all’ultima Biennale di Venezia e direi che lì la categoria boiata pazzesca rappresentava un buon novanta per cento. In mezzo a quelle costosissime installazioni prima o poi qualcuno avrà il coraggio di gridare che il re è nudo. Almeno lo spero. Ma, al di là delle boiate pazzesche vendute al potere a caro prezzo (la critica è asservita, è totalmente embedded), c’è una componente magari più sincera, nell’arte e nella letteratura moderna, che Consuela e io fatichiamo a comprendere: il gusto del nascosto, del doppio, dell’ingannevole, dell’esoterico. A tutti i livelli, anche nell’arte di strada: osservo certi graffiti su un muro di periferia e mi rendo conto che sono fatti volutamente per essere decifrabili solo da un gruppo ristretto. A tutti gli altri risultano illeggibili. Leggo racconti (e anche poesie) in cui mi sembra che l’autore volutamente mi prenda per il culo, mi dica il contrario di quel che vuol dire, mi nasconda un pezzo per il gusto di nasconderlo. Non so per quale motivo lo faccia. In tutto questo, l’avverbio volutamente è fondamentale. Nelle mie poesie (ma anche in prosa) cerco di essere il più chiaro possibile, cerco di mostrare tutto quello che riesco a portare faticosamente alla luce. Rimane un’immensa fascia oscura, rimane perché c’è, perché non arrivo a scavarci dentro, è naturale che rimanga, c’è un infinito ignoto e misterioso; ma non mi sognerei mai di oscurare volutamente una parte di quel che ho scoperto e che quindi posso comunicare. Mi sembrerebbe anche un sacrìlego spreco e un rischio intollerabile: la finestra si apre solo per un attimo: se non dici adesso tutto quello che hai visto, non è affatto sicuro che tu lo possa dire domani; potrebbe essere perduto per sempre. L’artista è un veggente precario: se quel poco che vede non lo mostra tutto, se non lo mostra nel modo più chiaro possibile (che è sempre comunque abbastanza oscuro), viene meno al suo compito, è inadempiente. È come un molinaro che nasconde una parte della farina macinata nel suo molino. Chissà poi perché. Per farla marcire lì con lui? Insomma, fra boiate insipienti e sapienti studiati nascondimenti, gran parte dell’arte moderna a me e a Consuela non parla. E a me Consuela è tanto simpatica. E spero che guarisca, dato che alla fine del libro è molto malata. M’importa assai più di questo che delle paturnie dell’intellettuale David, che anziché correre da lei malata si fa pagine di seghe mentali per poi decidere sì, all’ultima pagina, di correre da lei, con una controvoce che gli dice di non andarci: «Pensaci. Rifletti. Perché se ci vai, sei finito». Finito come stronzo, io direi, ma come uomo, tutto da cominciare. [Chissà. E se magari anche tutta una parte dell’arte moderna, se ci andasse, sarebbe...] (Mah, speriamo che Consuela guarisca bene. La storia è ambientata ai giorni nostri negli Stati Uniti d’America dove, se hai qualche soldo, il tumore al seno si cura bene, no? E quei due là qualche soldo ce l’hanno. Andrà tutto bene.) |
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ti dico questo e come te mi riconosco in consuela, e probablimente molti altri ci si riconoscono; in primis, per descriverla così, s'è immedesimato roth, non credi? e questo david, per come lo descrivi (non ho letto il libro di roth) sembra fatto apposta per suscitare le antipatie e la riprovazione del lettore. dunque dall'effetto che ti ha fatto deduco, ancora una volta, che roth è un grande scrittore. perché ti ha emozionato, perché ti sei ritrovato in consuela, il che è quanto si può - si deve - chiedere a un artista: delle immagini, dei suoni, delle parole.
tutto il resto è fuffa?
non lo so: ammetto che le poche volte che so qualcosa di quel che leggo, osservo, ascolto, le possibilità di fruirne, di goderne, aumentano. fermo restando che poi, sì, c'è la fuffa (concettuale), c'è la boiata. ma in molti casi, come te, sospendo il giudizio, mi dico: "non so, forse non capisco", e mi va bene così.
è per questo forse che non capisco la veemenza: mi sembra derivi da un sentirsi escluso, emarginato; ma, almeno quando si tratta di quadri o libri, siamo in grado di informarci e formarci per comprendere meglio, sempre nell'ottica di apprezzare di più le cose belle. petarda
per quel che ho capito di scrittura, un autore si immedesima anche in un personaggio che ha deciso di dissacrare: figurati in consuela! e questa è la bravura di scrittori come roth (penso a La macchia umana) ed è proprio questo che fa sì che il lettore poi si riconosca. è molto più efficace affidare un messaggio alla consuela o al david di turno (anche per contrasto) piuttosto che a un pippone piantato lì tipo sermone. in my opinion, obv.
la cosa fantastica di libero è che ora che rispondo al tuo commento il tuo commento non lo posso leggere: fantastico. perché non usi un po' di veemenza per far qualcosa? ;)
Per le immedesimazioni: quando in un racconto ci sono più personaggi, l'autore può far passare il suo messaggio anche attraverso tutti i personaggi, anzi credo che quella sia la norma. Però a volte sembra che si immedesimi di più in uno. Non è detto che sia vero, diciamo che sembra. Il lettore a sua volta si immedesima in chi vuole lui. Pensa a quelle saghe con un casino di personaggi, tipo "I promessi sposi" o "Cent'anni di solitudine": lì ognuno ha una vasta scelta di immedesimazioni. Per la cronaca, io nel primo mi immedesimo nel sarto (quello che dice al vescovo "si figuri"), e nel secondo mi immedesimo in Remedios La Bella, che a tanti piacciono le sue poes... cioè, le sue grazie, ma nessuno penetra davvero in lei, alla fine nessuno la ama, nessuno la coinvolge in qualcosa di sensato, e a lei tocca farsi assumere in cielo, l'unico ufficio di collocamento ancora in funzione!
Bon, sono tornato dal mio turno da nonno e poi dalla biblioteca nonché emeroteca civica, dove non ho trovato nulla di utile per il mio lavoro ma ho constatato che La Stampa nel gennaio 1989 aveva gli stessi articoli dell’aprile 2008, insomma quasi uguali, così non vale, non fanno nessuna fatica i giornalisti, riscrivono sempre la stessa cosa! La vita comunque io la trovo abbastanza veemente, perché, tu no? Che pomeriggio caldo che è venuto! Baci!
quel che penso è confermato da quanto ti copioincollo ora, e cioè che se per passione o per mestiere c'è modo di approfondire la conoscenza di un'arte, dopo la si apprezza di più.
io posso non capire una mazza di poesia e quindi sparare al proposito delle boiate pazzesche: lì, veramente, sono come consuela, solo che io non ci metto nessuno zelo, nessun impegno, dico che m'annoia e morta lì. siamo diversi, tu sei poeta e hai una preparazione e una sensibilità poetica che io non mi sogno di possedere, e mai andrei a sentire certe seratine a base di poetastri sfigati e noiosissimi come fai tu, probabilmente (me l'hai detto tante volte) apprezzando, o trovando comunque spesso qualcosa di buono in performance cui non vorrei assistere manco tra mille anni: lì per me c'è la fuffa, c'è la boiata pazzesca, ci sono le braccia rubate all'agricoltura. ora se torni a quello che scrivevi nel post capisci dove voglio arrivare senza che ti faccia anche l'ultimo collegamento: un po' di sforzo, via, che la pappa sempre pronta favorisce la carie dentale e le malformazioni del palato.
poi mi son stufata e tanto tu rispondi solo a quel che ti fa comodo pur di avere ragione, sicché arrivederci alla prossima settimana o a quella dopo ancora! ;) (petarda)
e già che ci sono, parlando di immedesimazione, nei protagonisti credo ci sia sempre una parte dell'autore, che non a caso di solito è un po' psicologo, e oltre a osservare gli altri osserva anche se stesso; così ama, o quantomeno si affeziona, anche a figure negative, lontane dal proprio modo di sentire. questo processo, che a qs punto credo sia sbagliato chiamare "immedesimazione", è spiegato oltre che da alcuni scrittori, anche da registi. arevedse. (petarda)