ONE MAN TELENOVELA
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Post n°659 pubblicato il 26 Giugno 2009 da molinaro
Che nesso c'è fra il linguaggio dell'informatica e l'atteggiamento verso l'immigrazione islamica? Secondo me c'è un nesso. Ho l'abitudine di usare vari programmi e siti (dall'antivirus a Facebook) non in italiano ma in diverse lingue neolatine che più o meno (più meno che più) conosco: francese, spagnolo, catalano, romeno, portoghese. Lo faccio perché mi sembra un buon modo per stare a contatto con altre lingue, per imparare o ripassare, per familiarizzarmi con le culture europee. Ecco, forse ne avevo già parlato una volta, la cosa che ho notato è che tutte le lingue (tutte quelle che ho frequentato, almeno) tranne l'italiano traducono il linguaggio dell'informatica: l'italiano è l'unica lingua che prende di peso, tali e quali, i termini americani, senza neanche provare a tradurli. Per dirla con una battuta: gli italiani sono gli unici (per quanto ne so) che trovano ridicolo chiamare topo il topo (intendo quella cosa che muove il puntatore sullo schermo). Tutti gli altri lo chiamano topo (souris, ratón... compresi, ovviamente, gli inglesi: mouse). Noi invece riteniamo che sia più figo, evidentemente, chiamarlo «topo-in-inglese», mouse. Non so se rendo l'idea. Ci piace farci colonizzare dalla lingua straniera (magari pronunciandola alla cazzo di cane, che importa?). E l'immigrazione islamica che c'entra? Ecco. In Francia in questi giorni si discute molto del velo: già è proibito nelle scuole, si parla di proibirlo anche in altri luoghi pubblici. Chi è favorevole alla proibizione lo considera un simbolo di una religione oppressiva, intollerabile in una civiltà di liberté égalité fraternité, un po' come girare con una maglietta con una svastica o scritte inneggianti a crimini o stragi. Chi è contrario alla proibizione lo considera un semplice modo di vestire e un segno identitario da rispettare. Discussione aperta. Ma, almeno, in Francia ne discutono, più o meno serenamente. Da noi, se provi a ipotizzare che il velo sia un simbolo oppressivo da combattere, ti saltano addosso tutte le anime belle di una sinistra sempre più vagheggina e sradicata, a dire: no, brutto borghese fascista, bisogna accogliere, capire, tollerare. Ma è vera tolleranza? A me sembra che noi italiani non crediamo in nessun nostro valore. Non crediamo nella nostra lingua, non crediamo nella nostra costituzione laica, non crediamo nella nostra cultura e società. E allora apparentemente apriamo a tutti e a tutto, a tutto quello che arriva - eppure, stranamente, restiamo stronzi, ignoranti e razzisti. Perché non è vera apertura, ragionata e critica, no: è il furbesco mimetismo del servo che pensa solo a rubacchiare in cucina. D'altronde è la storia del nostro popolo, farsi colonizzare rubacchiando. Franza o Spagna, purché se magna. Mouse e burqa, purché se lucra. Il Risorgimento, l'Unità, la Resistenza e la Costituzione sono cose da intellettuali, piccole minoranze che il popolo italiano non capisce. Perché il popolo italiano, mi sa tanto, non ha ancora capito di esistere, come civica democratica collettività. Si arrangia; sta lì a guardare la tivù, e nulla più. [A questo si aggiunge un congenito reazionarismo/bigottismo di ritorno: stamattina un'insegnante, in un'intervista su Repubblica, parlando appunto delle allieve con velo islamico - nelle nostre scuole non è vietato, non siamo mica barbari come quei maledetti francesi... - dichiara testualmente: «Detto tra noi, mi sembrano più dignitose loro di certe ragazze italiane che vengono a scuola mezze nude, tipo cubiste». Ora, a parte il ridicolo di quel «detto fra noi» (ma come, detto fra noi? in un'intervista a un giornale nazionale? è proprio l'abitudine coatta all'anonimo bisbiglio...), la brava professoressa dimentica alcune cosette. Primo, le cubiste sono ottime e dignitose persone: almeno, io ne ho conosciute due che sono ragazze splendide, profonde, complesse - e laureate, e una di loro oggi insegnante - ovviamente precaria. Secondo, se una professoressa si trova davanti una ragazza che viene a scuola un po' troppo nuda, la può prendere in disparte e fare il proprio mestiere di educatrice spiegandole che l'ambiente scolastico richiede, forse, un abbigliamento più sobrio, discutendo dialetticamente con lei le ragioni, i motivi, il senso della cosa (se non è capace di farlo, cambi professione); mentre se si trova davanti una ragazza con il velo e prova a mettere la faccenda in discussione, le si scagliano contro la famiglia, il consiglio d'istituto, i giornali e mezza dozzina di volenterose associazioni multiculturali. Terzo, pur con tutti i condizionamenti delle mode, non mi risulta che qualche ragazza sia stata costretta, magari dal padre, sotto minaccia di botte o peggio, a mettere la minigonna per andare a scuola; del velo invece in taluni casi mi risulta proprio così. E quindi forse, alla luce di liberté égalité fraternité, dei nostri valori, potrebbe magari essere più dignitosa una cubista di una insaccata in un hijab, più dignitosa persino una velina di una velata; o, quantomeno, è insensato fare questi paragoni di dignità, signora professoressa. A meno che, detto fra noi, lei abbia certe nostalgie, e riservi la condizione di «dignitosa» alla pudibonda brava fidanzata e fedele moglie, strenua lavoratrice, che tace e spazza e lava i piatti con lunghe gonne e grembiali, angelo del focolare e martire sulla griglia del potere maschile indiscusso e indiscutibile.] |
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