
Queste tre poesie, scritte in questi giorni, parlano di cose diverse, eppure mi sa che hanno un filo conduttore: il distacco fra immaginato e vissuto, fra sogno e realtà, fra ideale e concreto. E la necessità di superarlo, quel distacco, senza... perdere il filo. Buona settimana a tutti!
L'AMORE NON È NÉ UN CAVALLO NÉ UN ANGELO
Ho talvolta invidiato i cavalli
perché non si fanno problemi a cagare:
in qualsiasi posto, anche camminando,
se devono cagare cagano. Non come noi
che magari siamo in treno e su otto vagoni
non c'è un cesso che funzioni, o siamo in giro
e bisogna andare a caccia di un bar
e prendere un caffè anche se non se ne ha voglia
e sperare che ci sia la carta igienica (comunque
è meglio avere in tasca dei fazzolettini).
Ho talvolta invidiato i cavalli
anche perché trombano senza usare le mani
(d'altronde se no si sarebbero estinti:
le mani non le hanno): il cazzo gli viene duro
e trova, tutto da solo, la fica della cavalla:
è molto bello, molto naturale,
direi molto romantico.
Io la prima volta che ho fatto l'amore
- o, per meglio dire, che non l'ho fatto -
avevo questa idea che l'amore fosse
una cose equina e celeste, naturale e angelica:
a usare le mani mi sembrava di offenderlo,
di renderlo artefatto, artificiale, voluto, non spontaneo,
come se si scrivesse una poesia per decisione di scriverla
e non perché viene. La ragazza era sul prato
ed era bella, e ben disposta, nuda
con le gambe un po' aperte, era una sera
d'agosto, dopo il prato c'era il mare,
era tutto perfetto per la mia prima volta,
non mi potevo certo lamentare:
mi stesi su di lei e la baciavo dappertutto
e l'abbracciavo e accarezzavo con dolcezza
e aspettavo che il mio cazzo s'indurisse
e andasse al posto giusto, dentro lei:
toccarmi con le mani mi sembrava
inverecondo, inadatto all'incanto
di quel dolce momento.
Ma essendo ansioso e non essendo un cavallo
né il cazzo s'indurì né tantomeno
si diresse da sé verso la meta:
e fu un vero disastro. La mia verginità
durò così altri due anni, poi
mi decisi a toccarmi con le mani
e finalmente andò. Massì. Ci vuole
un po' di senso pratico. Però
le poesie no: le poesie le scrivo
solamente se vengono da sole.
Le poesie funzionano come
il cazzo del cavallo, almeno loro
vengono senza decidere, spontanee,
non spinte né guidate dalle mani:
acquistano da sé la consistenza
per penetrare: angeliche ed equine
riempiono tutti i buchi in terra e in cielo.
Per far l'amore invece è meglio usare
anche le mani, ed è bello lo stesso,
non si è cavalli né angeli e del resto
pure i cavalli hanno i loro problemi:
li fanno correre come dei dannati
negli ippodromi, poi ne fanno bistecche.
Quanto agli angeli, ammesso che ne esistano,
sul loro sesso si è sempre discusso
persino mentre bruciava Costantinopoli:
se fanno sesso, comunque, di certo
sono gay, perché non c'è notizia
di angele in nessuna delle sfere.
LE FANTASTICHERIE
Le fantasticherie sull'«inutilmente amata»
sono una cosa infantile da vergognarsene:
di solito non le racconto neanche agli amici
più intimi, neanche alle fidanzate:
ma stamattina è una domenica di primavera,
ho messo avanti gli orologi di casa
perché scatta (si dice sempre «scatta») l'ora estiva
e poi vado a votare contro il maledetto banana,
e ho deciso di raccontarne qualcuna,
un piccolo campione fra le circa quindicimila
fantasticherie fantasticate in un anno e mezzo
su una ragazza inutilmente amata:
raccontarle può essere liberatorio
e poi mi sono sempre domandato
se sono pazzo e infantile io solamente
o se succede ad altri: se qualcuno
vorrà darmi informazioni in tal senso
sarà gradito.
Una volta ho fantasticato che ci rapivano dei terroristi arabi
prendendoci a caso in un posto qualsiasi
e ci chiudevano in una stanza chissà dove:
lei era terrorizzata e anch'io, però la confortavo
e parlavamo e passavano i giorni
e ci raccontavamo le nostre vite
e col passare dei giorni lei si innamorava
e ci baciavamo e nonostante il terrore
eravamo felici: i nostri carcerieri
guardavano i nostri baci e la nostra felicità
e si commuovevano, poi arrivavano gli americani
per un blitz e stava per cominciare un massacro
ma anche gli americani vedevano i nostri baci
e la nostra felicità e si commuovevano
e lo dicevano ai capi e i capi decidevano
che se esiste una felicità così grande
non ha più nessun senso fare la guerra,
così finiva la guerra in Oriente
e si era tutti liberi e veniva assegnato
ai nostri baci il premio Nobel per la pace
a andavamo a vivere in una casa sul mare.
Una volta ho fantasticato che eravamo in un posto
con prati e cavalli, un posto che esiste davvero,
dove una volta Guido ha letto poesie
con Gattico e Suzuki che suonavano,
un maneggio nei dintorni di Torino,
e lei aveva bevuto qualche bicchierino
di vino liquoroso e c'eravamo io e un ragazzo
che la corteggiavamo e lei diceva,
perché aveva bevuto qualche bicchierino,
va bene darò un bacio a uno dei due,
giocatevi il bacio in una gara, e facevamo
ai rigori, come la finale dei mondiali,
c'era una porta di calcio e facevamo ai rigori,
io ne segnavo uno, anche solo uno,
ma quelli che tirava l'altro li paravo tutti,
perché vedevo partire il pallone e mi lanciavo
e li paravo con la forza dell'amore
ma mi facevo malissimo (ho una certa età)
ed ero tutto ammaccato e sanguinante,
probabilmente vari strappi muscolari
e forse un polso fratturato,
andavo verso di lei zoppicando
e lei con le lacrime agli occhi si avvicinava
per baciarmi ma io le mettevo una mano
sulla bocca e le dicevo: no, io non voglio
baci vinti ai rigori, mi bacerai quando vorrai,
quando mi amerai, e mi allontanavo svelto
(svelto compatibilmente col fatto che zoppicavo)
e lei restava ferma, esitava un momento,
io ero già lontano qualche decina di metri,
poi faceva un gesto, un gesto da sola per sé,
un gesto finale come in una canzone di Guccini,
e si metteva a correre e mi raggiungeva
e mi guardava negli occhi e i suoi occhi dicevano
che mi amava davvero e allora sì
ci baciavamo e andavamo via da soli
lungo il Po e lei continuava a baciarmi
e mi medicava le ferite.
Una volta ho fantasticato che era
come in «Autumn in New York»,
io Richard Gere, lei Winona Ryder,
anche se noi siamo cento milioni di volte più belli
che quei due là, e lei mi raccontava
tutta la sua vita, la sua vita è bellissima,
mi raccontava di quando era bambina
e in campagna di notte suo nonno le insegnava
i nomi delle stelle, mi raccontava i giochi
nei vicoli con i ragazzini del quartiere
e i natali festeggiati che arrivava il «caga tió»
(una tradizione dei suoi posti)
e bisognava batterlo finché non cagava i regali,
e poi le pazzie, i primi amori, le fughe:
ma era malata, aveva un male inguaribile,
nessuno degli amici lo sapeva,
a me lo diceva e mi diceva che non dovevo
innamorarmi di lei perché lei sarebbe morta
entro un anno, due al massimo, non c'era
niente da fare, ma io la prendevo con me
e andavamo in tutto il mondo a cercare,
e trovavamo uno che sapeva curarla
e, a differenza che nello stupido film di Joan Chen,
l'operazione riusciva e lei guariva
perfettamente e andavamo a vivere
nella stessa casa sul mare
di due fantasticherie fa
(non è il caso di fare una casa nuova
a ogni fantasticheria, le case costano).
Una volta mi sono spinto più oltre e ho fantasticato
che avevamo già fatto l'amore,
perché una volta allo Sbarco (ma va bene
anche l'Artintown, non facciamo questioni)
ci eravamo guardati negli occhi e zac,
ci eravamo innamorati, semplicemente,
come a volte succede, avevamo fatto l'amore
alcune volte e lei era rimasta incinta
e mi diceva: non voglio abortire
però non so se è tuo, potrebbe essere
di altri tre o quattro con cui ho fatto l'amore
questo mese, e io le dicevo: non importa,
io ti amo e quindi facciamo che è mio,
a quegli altri non importa così tanto,
non verranno a chiedere la prova del DNA,
sono un po' anziano come padre ma non importa,
facciamo che è mio, e stavamo insieme e nasceva
una bambina e la chiamavamo María de los Remedios,
per gli amici Remedios, per gli amicissimi Reme,
Remy no, Remy fa cagare, e stavamo
insieme in quella solita casa sul mare.
Una volta ho fantasticato che le mandavo un regalo
di Natale al suo paese, pur non sapendo l'indirizzo,
lo mandavo ai ragazzi di un bar del paese
chiedendo che mi facessero il favore di trovarla
e i ragazzi la trovavano e le davano il regalo,
un regalo semplicissimo, un portachiavi
con il suo nome, non contava il regalo,
contava il pensiero, e lei nell'aria natalizia
si accorgeva di amarmi e mi telefonava
e tornava e andavo ad aspettarla a Caselle
o alla Malpensa e lei usciva da quei cancelli lì
che ci sono negli aeroporti e ci correvamo incontro
e ci baciavamo ed esplodeva una gioia
così incredibile che tutto si fermava,
tutti i passeggeri perdevano tutti gli aerei
e i professionisti buttavano via le valigette
ventiquattrore e decidevano finalmente
di vivere la vita, distillando liquori dai fiori
in una casa lungo il fiume e anche noi andavamo
a vivere su un fiume (tanto per cambiare).
(A proposito di quest'ultima fantasticheria
ci sarebbe da fare un discorso su come sia
pericoloso, pericolosissimo,
cercare di mettere in pratica le fantasticherie:
i ragazzi dei bar dei paesi
a volte possono prendere iniziative improprie
e vien fuori un casino. Ma questo non c'entra.)
Ne ho raccontate cinque, vi risparmio le altre
quattordicimilanovecentonovantacinque
su questa ragazza e le altre centinaia di migliaia
su altre ragazze nei cinquant'anni precedenti:
a me le fantasticherie vengono così come piovesse,
molte decine al giorno (questo spiega
alcune cose sulla mia scarsa produttività,
sul mio scarso successo nella vita professionale).
Suonano le campane di Santa Zita, è un bel mattino,
ora vado a votare contro il maledetto banana,
forse il Piemonte resterà alla sinistra
(o forse anche questa è una fantasticheria):
voi se avete letto fin qua magari ditemelo
se succede solo a me di fantasticare così
o se è una cosa comune:
perché la gente certe cose non le racconta,
dato che è una cosa infantile da vergognarsene,
certamente lo è, lo è sicuramente:
la gente anche se lo fa non lo racconta,
e dunque non lo so.
PLIN PLON PLIN PLEN
Plin plon plin plen. Prossima stazione, Re Umberto.
Nella metropolitana m'entra in testa
quel suono in quattro note: plin plon plin plen.
L'ho sentito migliaia di volte
ma adesso m'entra in testa e lo ripeto
nella mente, e mi vien voglia di capire
che note sono. Sale o scende? La prima
è uguale alla terza?
Plin plon plin plen. Prossima stazione, Vinzaglio.
Forse è re-do-re-mi? O mi-do-re-mi?
Mi sussurro la scala di do maggiore
avanti e indietro, cercando di associare
alle note corrette il plin e il plon,
ma non sono sicuro. Non sono un musicista,
ho studiato un po' di musica da giovane.
Plin plon plin plen. Prossima stazione, Diciotto Dicembre.
Se avessi uno xilofono o quei cosi
da bambini, un glockenspiel, o anche
un pianoforte, le troverei di certo:
cazzo, son quattro note. Ci riprovo
sussurrando la scala
Plin plon plin plen. Prossima stazione, Principi d'Acaja.
Che rabbia. Neanche a casa ho un glockenspiel,
e con l'armonica a bocca non ci riesco
a trovare le note, me l'ha regalata
mio figlio, ma non so mica usarla.
E poi tempo che sono a casa mi confondo
e mi dimentico. Mi dovrei portare
uno xilofono qui sulla metro.
Plin plon plin plen. Prossima stazione, Bernini.
Come, Bernini? Ma dovevo scendere
a Principi d'Acaja. E sono già in ritardo.
Ma cazzo, cazzo, cazzo, ma perché
mi perdo sempre in un mare di cazzate?
(E mica smetto. Andando verso casa
da piazza Bernini, tanto vale andare
a piedi a questo punto, penso che
posso filmare nella metropolitana
e mi rimane anche l'audio, lo porto
una sera in un posto che so che c'è un amico
col glockenspiel, lo riascoltiamo e le troviamo
in un istante, quelle quattro note.)