Un blog creato da molinaro il 04/06/2007

Carlo Molinaro

Pensieri sparsi, poesie e qualsiasi cosa

 
 
 
 
 
 

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Messaggi di Dicembre 2012

 

Non fate la guerra fate la guerra?

Post n°1154 pubblicato il 21 Dicembre 2012 da molinaro
Foto di molinaro

NON FATE LA GUERRA FATE LA GUERRA?


Riflessione a ruota libera. Il sesso come guerra forse è nel DNA, ma noi esseri umani dovremmo, secondo me, un po' superare la cosa. Certo, è nel DNA: gli animali lo usano come strumento di dominio, prima che per la riproduzione. I cani s'inculano fra maschi per stabilire una gerarchia, la femmina montata viene sottomessa. C'è lotta feroce per conquistare la femmina (e - in modi diversi - per conquistare il maschio). Lo scopo è la propagazione del proprio patrimonio genetico, cioè la vittoria del proprio io. In natura non c'è il minimo nesso fra il sesso e una qualche forma di amore o simpatia (anche perché in natura l'amore e la simpatia non esistono: esistono solo funzioni).

Per millenni l'uomo non è che sia andato molto oltre. Anche per l'uomo il sesso è stato guerra di dominio, di conquista, di potenza. Il vocabolario lo dice bene: quasi tutti i verbi popolari che indicano l'atto sessuale hanno un senso metaforico di furbesco truffaldino dominio sull'altro: fottere, ciulare, fregare, chiavare, trombare, eccetera. E «metterlo in culo a qualcuno» vuol dire sconfiggerlo, batterlo, sopraffarlo. E di uno a cui non funziona il pene si dice «impotente», parola in sé molto generica ma diventata molto specifica: non la si usa per uno a cui non funzionano (non hanno potenza) altre parti del corpo, non so, un sordo o un paraplegico per esempio. Un tipo dominante, vincente, deciso e coraggioso, magari anche un po' cinico e spietato, è uno che «ha le palle» (lo si dice persino, a volte, di una donna). E un verbo considerato quasi eufemistico (!) per l'atto sessuale di un uomo su una donna (oggi sta andando in disuso, credo, ma da poco) è «possedere». Che, se ci pensi, è una cosa tremenda. «Su quel divano quella sera l'ho posseduta» - a me sembra proprio tremendo, forse ad altri no.

Gli umani maschi ancora lottano in vari modi fra loro per la conquista della femmina, e le umane femmine si mettono molto in competizione per la conquista del maschio.  E il maschio che si astiene dal corteggiare una ragazza fidanzata con un altro non vede la libertà di lei di fare l'amore con chi le pare, ma vede il diritto di possesso di un collega maschio, che va rispettato. Oppure cerca di «farla sua» rubandola all'altro, che diviene «cornuto», sconfitto... inculato. E le femmine fanno all'incirca la stessa cosa, catturare un maschio sottraendolo alle altre femmine - mica condividerlo.

È tutto un prendere, afferrare, fare proprio, sconfiggere concorrenti. Peggio che nel mondo finanziario. È un lessico di guerra. Se l'amore è questo, la frase «non fate la guerra fate l'amore» è metadone.

Forse non c'è niente da fare. Forse il sesso funziona meglio con la violenza, la violenza «ce l'ha duro» (si vedano taluni slogan). Due mie ex fidanzate e tre o quattro amiche mi hanno confidato di avere avuto la loro iniziazione da maledetti fascisti che, senza troppe esitazioni, hanno superato tentennamenti, barcollamenti emotivi, incertezze, tenerezze dei «compagni»... E certo, se uno «ce l'ha tenero» ci va un bel po' più di pazienza e confidenza e vicinanza ad arrivare là, e magari quell'altro, che «ce l'ha duro» già come punto di partenza, sorpassa. Fortunatamente le due ex fidanzate e tre o quattro amiche il fascista deflorante l'hanno mollato tutte dopo qualche mese (mentre un secolo fa ci sarebbero rimaste inchiodate per la vita) ma la faccenda resta significativa.

E allora? O si accetta che il sesso non c'entra niente con forme di amore, neanche per il genere umano, che è come per tutte le altre bestie, che si combatte e si fa strage per catturare la femmina (o il maschio) e trascinarlo nella propria caverna, agitando la clava vittoriosa minacciosa verso ogni altro maschio (o femmina) e basta, è così e sempre così sarà.

Oppure si cerca di andare oltre, verso un sessamore (amor sessuale) fra persone che si piacciono, si cercano, o si respingono (questo è inevitabile) - ma non si accalappiano, non si possiedono, si lasciano libere della libertà che secondo me è costitutiva della persona, della vita, e che non può non comprendere altri amori, altro tutto. Un sessamore non guerra, non competizione, non possesso: allora sì che la frase «non fate la guerra fate l'amore» assumerebbe un valore di contrapposizione fra due cose ben distanti, e non quasi uguali come di fatto sono se l'amore è una guerra.

A me sarebbe piaciuto, mi piacerebbe, andare oltre quel rudimentale residuo di preistoria: non riesco a vedere vera felicità dietro la porta chiusa della famosa capanna dei due cuori, proprio non ci riesco, non c'è gioia nel chiuso, nell'impedito. Anche il giardino più bello diventa orribile e angoscioso se, entrato che ci sei, senti chiudere il cancello alle tue spalle.

Ma forse non c'è niente da fare, la guerra sessuale è nel DNA e sempre ci sarà, è la violenza che lo fa venire duro, è il possesso; l'orgasmo rimane l'urlo di guerra dell'io propagato contro ogni «noi». Tutto il resto è illusione. I ragazzi, ancora oggidì, prima di approcciare una ragazza si informano se è «libera», cioè se non è proprietà altrui, di un altro maschio da rispettare ritirandosi o aggredire per rubargliela. E se poi invece a lei va bene stare con più d'uno, allora perde valore, non è più una lucente esclusiva Ferrari ma un mezzo pubblico, un tram. Casualmente, noto che ho sempre amato i tram, fin da bambino, e non mi è mai fregato niente delle Ferrari. Sarò strano.

Sì, forse ogni illusione di cambiamento è appunto solo illusione. Il «cuore» non ha tutte quelle stanze che dice García Márquez, è una feroce rombante aggressiva arrogante monoposto. E ha sulla porta il segnalino «libero/occupato». Come un cesso. Bah! Mi piacerebbe che la profezia dei Maya oggi si avverasse, sì, ma nel senso della fine di «quel» mondo, e dell'inizio di un altro, dove fare l'amore è pace e libertà. Ma ci spero pochissimo. Quasi niente.

 

L'illustrazione è un particolare di un disegno di Giuseppe Scalarini (1873-1948): «La guerra» (7 agosto 1914).

 
 
 

Ode principale

Post n°1153 pubblicato il 18 Dicembre 2012 da molinaro
Foto di molinaro

ODE PRINCIPALE


sulla soglia della vecchiaia si accorse
di essere stato troppo vile - di avere troppo stemperato
in buonismo e buonsenso la sua limpida pazzia
la sua limpida poesia

oh certo meno degli intellettualuzzi con la sciarpa
che scrivono giudiziosi in vitarelle d'apericena
in stanze scaldate con serrature prudenti - ma
confrontarsi con i mediocri è una scappatoia ridicola

si accorse di essere stato troppo vile
pauroso di perdere amori che ugualmente perdeva
o di ferire ferite che ugualmente feriva
- o no poi no poi anche questa è una scusa di zucchero

la sua più grande paura
era stata d'incontrare il lungimirante assassino
il sé stesso che nascosto nel cuore del cuore del cuore
al cuore mira e preciso colpisce dall'oltre dell'oltre dell'oltre

e se ti prende cadi al di là del posto di confine
nell'immenso da cui nessuno è mai tornato
l'invisibile abisso infinito
che il mestiere dell'artista è rasentare

in quel momento gli telefonò sua figlia
per accordarsi per il pomeriggio a prendere i bambini
e lui sorrise e capì semplicemente
di volere tutto in tutto

si versò un bicchiere di latte

sentì nella bocca la lingua ansiosa di vita e vita ancora
d'un'amata innamorata nel chiaro del mattino

sentì sulle dita le pieghe della cintura morbida
d'una tuta su un ventre al sesto mese di gravidanza

vide capelli neri chini su una caffettiera elettrica
capezzoli da mordere raccontando favole

dita riporre piccoli oggetti in un cartoccio
un bacio a labbra chiuse a Porta Susa

lettere con foto e piumette colorate
e veli da spose su bare di legno

si sporse sull'infinito come mai aveva osato
e ci sputò

 
 
 

Bang bang bang

Post n°1152 pubblicato il 17 Dicembre 2012 da molinaro
Foto di molinaro

BANG BANG BANG


bang bang bang
big bang

esistiamo per suddivisione
per separazione

esistere è allontanarsi
dividersi

felicità è avvicinarsi
congiungersi

quindi esistere felici
dai non farmi ridere

bang bang bang
big bang

 
 
 

One Man Telenovela settantaseiesima puntata

Post n°1151 pubblicato il 11 Dicembre 2012 da molinaro
Foto di molinaro

La puntata numero settantasei. Così, tanto per aprire la strada alla settantasette.

 
 
 

Il tragico in Guido Catalano

Post n°1150 pubblicato il 05 Dicembre 2012 da molinaro

IL TRAGICO IN GUIDO CATALANO

(breve quasi saggio critico - quasi, però)

Secondo me Guido Catalano è - ormai si può dire - un maestro nella poesia che sa unire il tragico al comico, o meglio esprimere il tragico attraverso il comico - il comico è uno dei modi più efficaci per esprimere il tragico - il tragico che, nella sua essenza pura, è sempre stato e sempre sarà indicibile, perché non fa parte di noi ma ci contiene [non è «nella» vita, è «la» vita] e nessuno può descrivere davvero un qualcosa da cui è contenuto. Solo l'arte, che non descrive ma evoca, può in qualche modo avvicinarsi al tragico - e il comico è, ripeto, un buon modo.

Durante i readings di Catalano (readings come li chiama lui, marcando la esse finale con la stessa goduriosa buzzurrìa con cui Guccini dice camions quando canta i fichi) la gente ride, ride spesso e molto, e qualche volta la risata evolve in un applauso a scena aperta. Che la gente rida è giusto, non vuol dire che gli ascoltatori siano deficienti: il comico deve far ridere. Il deficiente sono io che rido poco perché deficio di alcune mediazioni fra dolore e ironia, fra realtà e desiderio, fra voragine e volo e fra altre cosette ancora, mediazioni che sono quasi indispensabili per vivere (quasi: infatti in questo momento sono probabilmente comunque vivo, sto pure scrivendo).

La domanda che (mi) pongo è quanto passi all'ascoltatore, nella ridente fruizione, del tragico che la poesia contiene. Evidenziare limpidamente il tragico è possibile se non in tutte almeno nel novanta per cento delle poesie di Catalano. È possibile «a me», se non altro - personalizziamo, personalizziamo, sono anch'io un poeta e non un critico professionista (se no magari mi pagherebbero per scrivere saggetti su minchiate). Forse la domanda è stupida: la ricezione della poesia (e dell'arte in genere) si colloca naturalmente su svariati livelli e in svariati modi. A ogni lettore, ascoltatore, osservatore passa qualcosa di diverso (quantitativamente e qualitativamente). Diciamo allora che la stupida domanda è solo uno spunto per far quattro parole sul tragico nella scrittura catalaniana.

In alcune poesie l'emersione del tragico è più facile: lo è per esempio in Sempre in buona compagnia, comunque [da La donna che si baciava con i lupi, pag. 107], dove l'urlo disperato dell'uomo alla [inesistente] divinità [che gioca a scopa] esce esplicito, interrompendo il flusso comico in modo spiazzante («non vi siete accorti / della mia / profondissima / infelicità»). Così come lo è in Cose di notte [da Ti amo ma posso spiegarti, pag. 32], dove un climax ascendente di vuoto prepara il potente finale: «la mia solitudine / è una tigre ammaestrata / siamo amici fin da piccini / ci vogliamo bene / giochiamo come bambini / può staccarmi la testa con un morso / in qualsiasi momento». E in poesie più giovanili è chiara la dichiarazione di stile: «son così triste / che mi faccio ridere» (1° settembre, da I cani hanno sempre ragione, terza edizione, pag. 10).

Ma anche nelle poesie d'amore che sembrano più scanzonate e forse quasi scherzose il tragico è ben presente. Prendiamo come esempio Ti piacerebbe andare a more? [da Motosega, pag. 7] che è un componimento apparentemente «tutto da ridere». Il tragico è però in agguato nelle risposte che dà la ragazza alle profferte amorose del soggetto.

non ti piaccio? / proprio che non m'interessi - la tragicità disperante del disinteresse a priori verso qualcuno (o qualcosa), un disinteresse che precede ed esclude anche qualsiasi valutazione di «mi piace/non mi piace», una porta chiusa senza nemmeno uno sguardo dentro o un pensiero verso che cosa ci potrebbe essere oltre. L'isolamento assoluto, l'invalicabilità del gap che separa persona da persona. Ribadito e confermato pochi versi dopo: mi trovi basso? / no, è che non ti cerco e quindi non ti trovo.

Un disinteresse che secondo me rimanda alla morte: è alla morte, precisamente, che «non interessa» nulla del soggetto: lo falcia senza alcun riguardo alla sua voglia di vivere, ai suoi sentimenti, pensieri, desideri, ragioni. È la morte che non ti cerca in quanto persona, ma ti ammassa alla rinfusa nel nulla, polvere di polvere.

scusa ma cosa ci fai allora / dentro la mia poesia? - ecco il tragico assoluto del rimanere distante di qualcosa (o qualcuno) che invece ti è entrato dentro, è nella tua poesia, cioè è in te, è dentro te ma ti dice: è un tuo problema / passavo di qui / mi c'hai messa dentro tu. Qui il rimando slitta all'essenza della vita, a tutta la bellezza, alla meraviglia dell'universo, che spontaneamente e necessariamente interiorizzi, eppure ne resti fuori, in lacerante contraddizione. La «straziante meravigliosa bellezza del creato» (Pasolini) che è straziante proprio perché vivendo (morendo) ne scivoli via, così come scivoli via da una ragazza che ti rifiuta - ma è dentro di te, dentro la tua poesia - e quindi scivoli via da un pezzo di te stesso, ti strappi lasciando brandelli d'anima impigliati nella bellezza che fugge (ragazza o nuvola o fiore o cielo stellato o luce o idea che sia).

Altro che poesiuola scherzosa, sono cazzi e controcazzi! Ma la bravura (acquisita) e il talento (innato) stanno proprio nel mettere tutto ciò in qualcosa che sembra una poesiuola scherzosa, che letta a un pubblico in una sala fa ridere - giustamente ridere. Non sono in molti a riuscire a fare questo.

Ho fatto solo un piccolo esempio, ne potrei fare a decine ma vi annoierei e mi stancherei (sono estremamente pigro) e quindi direi che basta. L'invito può essere a scandagliare in questo senso la poesia di Catalano, alla ricerca della falda di tragico da cui zampilla il comico. Beh, lo faccia chi ne ha voglia, eh! Niente è obbligatorio e ciascuno legge e ascolta come vuole e può e gradisce.

 
 
 
 
 
 
 
 
 

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