Creato da anchise.enzo il 30/01/2012

Mondo contadino

Civiltà contadina molisana

 

 

L'acquedotto a Toro

Post n°69 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Finalmente l'acquedotto 1959-60 (Toro che non c'è più)
Cinquantanni fa arrivò l'acqua corrente nel nostro paese. Rievochiamo quei momenti di euforia in questi giorni in cui come ogni anno in estate puntuale si ripete la crisi idrica nel nostro Comune. E per ore, i nostri rubinetti restano a secco con grave disagio della popolazione. Probabilmente, quando cInquant'anni fa arrivò l'acqua corrente a Toro, si pensò di avere sconfitto una volta per tutte l'atavica sete che ha afflitto la nostra popolazione. E invece...



Alla fine degli anni 50, la Cassa del Mezzogiorno finanziò anche il nostro Comune per la costruzione dell’atteso acquedotto comunale.

Alla sommità dei colli dei paesi si costruirono i serbatoi di alimentazione, che si scorgevano da lontano per il caratteristico intonaco dal colore rosso pompeiano.

Ricordo l’euforia e la grande partecipazione di popolo per quell’evento epocale. Dal serbatoio, fino alla piazza del paese, dove fu collocata la fontana, furono interrati grossi tubi neri per il trasporto dell’acqua.

I lavori furono effettuati in economia, e per lo scavo furono allertati tutti gli uomini del paese. Il banditore Trapolino, avvertiva che ogni uomo, munito del proprio piccone o badile, avrebbe dovuto donare almeno due giorni di lavoro per l’imponente impresa. Tale fu il comando del sindaco.

Mai avevo visto tanti uomini assorti tutti insieme per un’ opera che avrebbe evitato, finalmente, di attingere acqua dai pozzi del paese, del resto carente e non buona. Si scavava a mano, e curioso era vedere la lunga fila indiana di lavoratori, che iniziava dal Colle di Dio per finire fino alle prime case del paese. Si effettuarono scavi profondi quanto l’altezza di un uomo e i tubi di ferro rivestiti di catrame, venivano congiunti mediante fusione di piombo, che avveniva sul posto, ad ogni innesto di tubo, cioè ogni cinque metri. Nella caldarella veniva fatto fondere, seduta stante, il piombo, poi, mediante rudimentale anima di creta, veniva colato il piombo liquido nei tubi da congiungere. Mentre per rompere il selciato duro di cemento nel centro abitato, furono impiegati i primi rumorosissimi martelli pneumatici, che impaurivano gli anziani.

Giunto il giorno dell’inaugurazione, e del relativo collaudo dell’acquedotto, che avvenne di sera, tutti i toresi si assieparono, a circolo, presso la fontana della piazza, per scorgerne il primo spruzzo d’acqua. C’era gran ressa: vi era chi, per prudenza, allontanava gli astanti, asserendo che la forte pressione dell’acqua li avrebbe scaraventati tutti a terra; chi diceva che la pressione avrebbe fatto scoppiare i tubi, mandando l’acqua in cielo; chi, invece, sosteneva che ci sarebbe stato prima un forte sibilo, per l’aria contenuta nei tubi, che voleva giusto e definitivo sfogo alla fontana; chi avvertiva che sarebbe uscito prima del fango e impurità dalla fontana, e poi finalmente acqua potabile.

Insomma, l’ansia davanti a quel semplice monumento di mattoni, dal quale fuoriuscivano tre cannelle, posto a ridosso del muretto della piazza, fu tanta, e tanta spasmodica l’attesa, che alla fine fu notato, con estrema delusione, solo un piccolo e insignificante rivolo d’acqua, tra qualche sussulto e fischio. Il quale rivolo, però, divenne gettito potente solo dopo ripetuti comandi alla relativa manopola, posta dietro alla fontana, che qualcuno aveva provvidenzialmente e prudentemente chiuso, temendo l’atteso e temuto gettito impetuoso, che si diceva, avrebbe potuto sommergere tutta quella gente lì assiepata.

Da quel giorno i barili e le tine vennero abbandonati. Ad attingere acqua fresca e potabile del Biferno, alla fontana della piazza, ci si andava con i primi secchi leggeri di plastica “Moplen”.

L’anno dopo fu costruita una fontana in piazza S. Mercurio e l’altra davanti alla cappella di S. Rocco.

Poi, man mano, alcuni benestanti si munirono di un proprio rubinetto in casa.
Negli anni seguenti, alcuni maneggioni napoletani vennero a reperire le tine di rame, in cambio di bambole o sedie sdraio, riempiendo camion interi di quegli preziosi utensili, ormai diventati inutili.

Una alla volta, erano diventate molte le case munite di un rubinetto in cucina che scaricava lungo le cunette delle vie del paese. Quando ci si accorse che lungo Viale San Francesco, in entrambi i lati della strada, vi era perenne acqua reflua maleodorante con tantissime mosche, il sindaco pro tempore fece caricare ai tuttofare del comune una carriola di tronchetti di legno che furono innestati come tappi nei tubi che fuoriuscivano sulla pubblica via. Con tale stratagemma si invertì il flusso dell’acqua reflua, che fu fatta scaricare nella direzione opposta, verso gli orti e la campagna, prima di essere incanalata dopo qualche anno nell’apposita fognatura realizzata dalla Ditta Fidotti.


 
 
 

crescere tra chiesa e convento

Post n°70 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Quando si cresceva tra Chiesa e Convento (Toro che non c'è piu)
Riceviamo da Vincenzo Colledanchise una rievocazione della vita associativa degli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso a Toro, quando i ragazzi si dividevano tra simpatizzanti e frequentatori della chiesa o del Convento...

Fino agli anni Sessanta i ragazzi, in paese, amavano ritrovarsi in due distinte associazioni giovanili: l’Azione Cattolica operante presso la Chiesa parrocchiale e la Gioventù Francescana guidata dai frati del convento. Di solito i ragazzi che abitavano lungo il viale S. Francesco gravitavano presso il convento, mentre gli altri che abitavano nella parte vecchia del paese gravitavano presso la Chiesa parrocchiale. Vi era grande rivalità tra le due associazioni, come vi era notorio attrito tra frati e l’arciprete.


Il Parroco Don Camillo Iacobucci
con un gruppo di ragazzi dell'Azione Cattolica (Anni Cinquanta)

Chi li riconosce?

L’Azione Cattolica vantava la guida rigida e continuativa di Don Camillo, l’arciprete. Obbligo assoluto dei ragazzi era quello della partecipazione della messa domenicale e dei più piccoli al servizio liturgico. L’associazione poteva contare su una piccola biblioteca, alcuni bigliardini ed altri piccoli giochi. Nei primi anni Sessanta vi fu l’esibizione teatrale dei giovani nell'oratorio sottostante della chiesa munito di piccolo palcoscenico. Vi furono rappresentazioni memorabili grazie al forte entusiasmo e alla volontà di vivacizzare la vita monotona paesana. Nel periodo estivo una gita fuori regione consentiva ai ragazzi allargare le loro conoscenze geografiche. Il Presidente dell ’Associazione Cattolica era figura preminente per capacità culturali e autorità caratteriale dal quale dipendeva la disciplina degli iscritti, seppur la figura di riferimento assoluta dell’Associazione Cattolica era l’arciprete. Vi era fiero orgoglio di appartenenza al gruppo e sincera amicizia, che si è protratta per molti anni nonostante la diaspora e i diversi destini di tanti tesserati.

I ragazzi del convento, invece, non avevano una guida fissa, ma erano soggetti a continue variazioni legate ai continui trasferimenti dei frati. Si ricordano alcuni di essi veramente dotati di carisma nella guida dei giovani come, negli anni Sessanta, è stato certamente P. Mercurio Parziale, vero trascinatore e affabulatore.


Corteo in occasione dell'ordinazione di Padre Mercurio Parziale (con la stola),
figura carismatica di frate minore (Fine Anni Cinquanta)


In convento il gruppo dei giovani era meno numeroso, ma molto attaccato a quel luogo, che, prima di essere catalizzatore dei bisogni spirituale era forte richiamo per il fascino o la semplice simpatia dei frati. Di pari vi gravitava un gruppuscolo di irriducibili adulti (Martinangelo Ferrara, Nicolino Fasciano, il falegname Ferrazzano, e altri) dediti alle commissioni dei festeggiamenti dell’Incoronata o di S. Antonio, che prediligevano ritrovarsi immancabilmente nella cucina dei monaci, ma si prestavano anche per piccoli lavori di riparazione di ogni tipo, oltre che allestire stupendi “ tuselli” e presepi in chiesa.

Il televisore dei monaci era attrazione irresistibile per i ragazzi, ma anche utile ricatto per indurli a fare i chierichetti per le splendide solenni novene che si tenevano in convento. Ricordo molti rosari per “supplicare” il ritorno della corrente per continuare a visionare “Rin Tin Tin”.

Per alcuni anni ho addirittura pernottato in una cella per adempiere al meglio al compito del chierichetto per le funzioni liturgiche, che, per favorire i contadini, si tenevano nella primissima mattinata. Spesso mi si consentiva di mangiare coi monaci poiché la generosità dei toresi permetteva al frate questuante di tornare sempre carico di ogni ben di Dio per l’irta salita del convento. A volte mi aiutavano anche a svolgere i compiti e, soprattutto, a istruirmi spiritualmente, seppure la forte testimonianza di vita di qualche frate pio era più convincente di ogni parola in tal senso. Molti ragazzi attratti dalla vita dei monaci alimentavano la loro vocazione a seguire lo stesso destino. Si passavano molte ore in quel magico ed edificante luogo e per le attività più disparate. Vi era una biblioteca fornita e tanti giochi. Vi circolavano numerose riviste. Si organizzavano molti pellegrinaggi. Nel coro del convento, intorno all’armonium, ho imparato ad amare la musica e il canto, mentre l’incanto del chiostro con i suoi semplici ma bei affreschi rimane in assoluto il mio luogo dell’animo. Della chiesa del convento saprei riconoscere il suo caratteristico inequivocabile odore fra mille altri odori, che non è suggestione del magico ricordo infantile o incanto nostalgico, ma pura familiarità di un luogo domestico.


Padre Giovanni Petrella
tra adulti toresi che simpatizzavano per il convento
Foto scattata il 23 giugno 1960
in occasione della festa di Sant'Antonio di Padova

Anche qui: chi li riconosce?

Oggi, che le circostanze avverse non permettono neanche di ritrovarsi nella chiesa parrocchiale del paese per il servizio liturgico, figurarsi se fosse possibile convincere i ragazzi abbandonare pizzerie e bar per frequentare oratorio e convento. Mancano i presupposti che invece hanno permesso a noi ragazzi degli anni Cinquanta e Sessanta di essere educati e disciplinati in tali ambiti, e mancano quelle magiche persone che, sapendosi donare, hanno permesso a noi di vivere di rendita non solo dal punto di vista religioso, ma anche educativo. Certamente siamo stati dei privilegiati perché ci è stata concessa la possibilità della scelta, forse anche obbligata, mentre oggi manca qualsiasi opzione perché i luoghi frequentati dai giovani sono altri e non sempre altrettanto edificanti quanto un Oratorio o un Convento, in passato riferimenti preziosi per i ragazzi toresi.

Vincenzo Colledanchise

 
 
 

nascere donna una volta...

Post n°71 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Nascere donna un tempo (Toro che non c'è più)
Nel contesto in cui attualmente la figura della donna viene screditata e strumentalizzata a fini poco edificanti, dopo tante battaglie sostenute per la sua emancipazione, mi pare giusto ricordare le dure tappe che hanno segnato faticosamente la sua redenzione sociale in tempi recenti, soprattutto nel nostro ambito paesano.


Prima comunione di ragazze toresi (Anni Cinquanta)
Qualcuno ci aiuta a riconoscerle?
In redazione abbiamo riconosciuto oltre a Don Camillo,
solo Giovanni Tromba in braccio alla mamma Incoronata, in alto a destra
e davanti a loro Netta D'Amico con la borsetta


Pur inserite in una società patriarcale, di solito le donne erano le figure maggiormente edificanti della famiglia. Se ne ricordano i loro grandi sacrifici e la loro straordinaria dedizione per portare avanti la numerosa prole, nel contesto di una esistenza legata a mille precarietà e condizionamenti. Nel mondo rurale, la donna veniva relegata in un ruolo predefinito, quello dell’ambito domestico dove era confinata ad assolvere le sue naturali funzioni di moglie e di madre, ma spesso era pure costretta ai duri lavori dei campi.

Fin da piccole erano segregate tra le mura domestiche, dalle quali potevano allontanarsi per una fugace evasione per andare ad attingere l’acqua al pozzo, vicino o lontano che fosse, con la tina in testa. Inoltre, si consentiva loro di frequentare le chiese. Una nota caratteristica paesana era costituita dai maschi assiepati davanti al sagrato per vederle passare in rassegna, dopo la “messa cantata”, quando scendevano lente la scalinata della chiesa per essere ammirate.

A scuola ci andavano solo per imparare a leggere e far di conto. Molte giovinette frequentavano le scuole di cucito, come quelle delle Signorine Carlino e di Luigella. Infatti, non si chiedeva altro per il loro matrimonio che l’illibatezza e una buona dote, e nel doddario vi erano elencati scrupolosamente, tra l’altro, decine di panni da esse stesse ricamati.

Le signorine Pilla (conosciute a Toro come le signorine Carlino, dal nome del padre)
con le ragazze che frequentavano la loro scuola di cucito.
Foto scattata davanti la casa del Barbacane (Fine Anni Trenta)
Anche qui c'è qualcuno che ci aiuta riconoscere le altre,
a parte la signorine vestite di nero, la prima a sinistra e l'altra seduta in prima fila?


Figure spesso minute, ma forti caratterialmente, tenaci tanto nella fede che nella loro fedeltà ai grandi valori familiari, fino a sopportare stoicamente anche le botte e i maltrattamenti da parte di qualche grezzo consorte, pur di tenere la famiglia unita e di governarla con onore e senso di responsabilità.

Mi viene di ricordare le signorine di buon casato di Toro che rimanevano zitelle e si mettevano in prima fila nella chiese con il loro inginocchiatoio privato che assolvevano a dei compiti liturgici importanti, donando alle chiese tutte le loro fatiche di ricamo.

Anche sui pullman in occasione dei pellegrinaggi venivano loro riservati i primi posti, anche perchè guidavano canti e litanie. Quante ragazze gravitando nelle loro case hanno potuto apprendere buone maniere, leggere i loro libri, apprendere la loro arte.




Ricordo mia mamma Pina (Riparola) che lavorando sodo ha potuto crescere una morra di figli. Ma un ricordo struggente di nostalgia è legato alle mie due nonne, una migliore dell'altra, a dispettto di mariti duri o inetti.

Insomma, mille esempi di una femminilità paesana foriera di valori grandi. Di queste grandi e semplici figure , che hanno incarnato con dignità il ruolo di donne e di madri dobbiamo tenere alto il ricordo ora che si è scivolato nella deriva di una mera strumentalizzazione del loro sesso e, paradossalmente, da parte di chi dovrebbe invece valorizzarle ed emanciparle socialmente ancor di più..

Vincenzo Colledanchise,

 
 
 

il mio terzo fratello

Post n°72 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Quando nacque il mio terzo fratello (Toro che non c'è più)
A oltre mezzo secolo di distanza, la suggestiva rievocazione della nascita del fratello più piccolo, il corteo del battesimo, il rinfresco, il vincolo del San Giovanni, le cure sommarie, l'asilo infantile, le scuole elementari...


In campagna con la culla in testa, sferruzzando e portandosi dietro la capra
Forli del Sannio 1027, Foto A. Trombetta


Quando nacque il mio terzo fratello ricordo il via vai della levatrice, con i suoi semplici attrezzi, per aiutare la mamma a partorire. Il bimbo venne amorevolmente fasciato in tutto il suo corpicino, per farlo crescere "diritto", gli fu fatto "'u rabbuglie", cioè venne avvolto in una lunghissima fascia, con le mani dentro per proteggerlo dal freddo, e gli venne posta in testa 'a cuppelella.

Era d’obbligo, allora, mettergli il nome di uno dei nonni e di li a qualche giorno battezzarlo, perché la sua gracilità era preoccupante. Fu condotto processionalmente in chiesa una domenica sera, per il rituale che si teneva in una funzione a parte presso l’antico fonte battesimale posto nella cappella di S. Michele.

Il corteo era formato dalla madrina che portava il neonato vestito di bianco; dietro la"comare" seguivano il padrino, la levatrice, e alcuni parenti con uno stuolo di ragazzi festanti. Ricordo mia cugina, a capo del corteo, che portava la giara d’acqua con la fetta di pane sopra, come era in uso allora. Mio padre, durante la veloce somministrazione del sacramento aspettò fuori dalla chiesa, mia madre restò invece a casa, poiché si credeva che la loro presenza non fosse di buon auspicio durante quel rito.

Dopo il battesimo si dette un rinfresco a casa del neonato, con rosolio, caffè, biscotti e la "pizza dolce". Ci si teneva molto, anche i più poveri cercavano di festeggiare il lieto evento in qualche maniera coinvolgendo i vicini. I padrini ragalarono al battezzato una catenina d’oro. Dopo il rinfresco si ballò con un semplice organetto, trattenendoci fino a tardi.

Nelle ricorrenze di Natale e di Pasqua, i miei mandavano ai compari sempre un regalo : un pollo, un coniglio o un gallo, per tenere stretto il vincolo del “San Giovanni” . Vincolo che si mantenne stretto finchè non emigrarono entrambi i padrini per l'America da dove, immancabilmente, inviavano per il compleanno del figlioccio dieci dollari.

Dopo lo slattamento, e fino ai tre o quattro anni, ricordo mio fratello con una calzamaglia di lana, fatta dalla nonna, con un foro anteriore e uno posteriore per dar libero sfogo alle sue esigenze corporali, che spesso lo portavano a imbrattare il pavimento di cotto. I genitori erano intenti ai lavori nei campi e spesso il bimbo veniva lasciato in cura dai vicini, ma la loro cura era minima, appena uno sguardo fugace finchè non cadesse giù per la “cataratta”. Ricordo la mamma che, per recarsi in campagna, e aiutare papà nei lavori dei campi , non potendo lasciare il piccolo a casa, lo adagiava nella culla e con la culla in testa trascinava capre e pecore, finchè giunta al podere, collocava la culla al fresco sotto la grande quercia.

Mio fratello fino ai quattro anni era ancora legato alla mamma e all'ambiente familiare, poi fu mandato all’asilo delle suore dove mangiava la refezione offerta dalle suore, ed era costretto poi, suo malgrado, a dormire nel pomeriggio poggiando la testa sui duri tavolinetti bianchi, nel chiuso del salone posto sotto il municipio. Era un supplizio per i ragazzi subire il forzato riposino per consentire alle suore di poter ricamare in tranquillità sull’ampio terrazzo che dominava la valle del Tappino. Altro supplizio era quello di essere costretti a bere l’acqua dai bicchieri grezzi di alluminio in rassegna, uno dopo l'altro volenti o no, come l’obbligo di recarsi in fila indiana nel piccolo cesso della loggia, che emanava miasmi insopportabili.

Fattosi più grande, varcò l'austero portone del Municipio, dove erano allogate le scuole elementare, con i balconi delle aule che si affacciavano sul sottostante terrazzo delle suore. Lì non c'erano cessi, ma durante l'intervallo e all'occorenza si usciva per raggiungere le stalle, gli orti, e i viottoli di campagna del Grottone.

 
 
 

a Monacilioni ....

Post n°73 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Montecchi e Capuleti a Monacilioni (Toro che non c'è più)
Il caro amico Vincenzo Colledanchise, in gita a Verona, non poteva non visitare e fotografare la casa di Giulietta. Nell'occasione si è ricordato che due famiglie di Monacilioni hanno emulato i Montecchi e i Capuleti per l'odio recipropco e l'accesa rivalità. Senza per questo riuscire a impedire ai rispettivi rampolli di amarsi al pari di Giulietta e Romeo. Ringraziando VIncenzo, riportiamo volentieri fotografie e aneddoto.


Verona: casa e stuatua di Giulietta

Negli anni venti la storia di Monacilioni registra un forte contrasto tra il sindaco Luigi Zeuli e il medico condotto Dott. Giulio Nasella, per motivi politici: una lotta tra due famiglie, ognuna col suo gruppo militante.

Nel 1925, anche se indirettamente, tale contrasto è causa di una sommossa popolare. In occasione della festa di san Nicola, il 6 dicembre, la famiglia Nasella chiede al sindaco che i fuochi di artificio non vengano effettuati al Largo del Piano, come consuetudine, ma altrove, adducendo come motivo che l'abitazione risente dei colpi. Il sindaco rifiuta.


Vecchia foto di una processione a Monacilioni
(da notare la scalinata della chiesa diruta, simile a quella di Toro)


Durante la processione, il popolo preceduto dall'arciprete Don Nicola Graziano, si ferma al largo del Piano per assistere ai fuochi d'artificio ma qui avviene una sorpresa. Le bombe sono state sottratte da alcune facinorosi e vengono portate a tracolla per il paese. Il popolo rimane deluso, scoppia una rivoluzione!

Il sindaco, in preda alla rabbia, si toglie la fascia tricolore e la depone a terra. In tanta confusione vengono lanciate pietre contro i carabinieri, prontamente intervenuti. Verranno anche i soldati e arresteranno 47 persone, compreso il sindaco: gli arrestati sconteranno il carcere di 40 giorni a S.Elia a Pianisi.

Dopo qualche anno l'odio tra le due famiglie tramuterà in ben altro sentimento a causa dei rispettivi figli del medico e del sindaco. Infatti, il 9 ottobre 1950 a Monacilioni verrà celebrato il matrimonio tra il dott. Francesco Nasella figlio del dott. Giulio, e Ida Zeuli, figlia di Luigi che si ameranno tanto quanto si erano odiati i rispettivi genitori.

(Dal libro del parroco D. Domenico Leccese, Monalioni e S. Benedetta Martire, 1997)

 
 
 

La Norma in convento

Post n°74 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

La Norma in convento (Toro che non c'è più)
Convento, chiesa... Come si vede, spesso e volentieri sono preti e monaci i protagonisti di questi aneddoti paesani (tutti rigorosamente accaduti, benché in qualche caso ci permettiamo di cambaire i nomi dei protagonisti). Non può essere diversamente: essendo inesistenti o quasi le occasioni di svago, un tempo le sacre funzioni erano molto più frequentate di oggi da una popolazione ingenua e poco acculturata.



Don Pasquale era veramente bravo a cantare e a suonare l’organo


Ogni anno, in convento, la messa solenne di Sant'Antonio era molto seguita. Erano in tanti a non trovare posto per assistervi e finiva inevitabilmente che qualche donna sveniva, a causa della ressa e del caldo. Per evitare l'una e l'altro, molti uomini preferivano l’ampia ombra dell’olmo, davanti al sagrato, dove al riparo della calura chiacchieravano amabilmente..

A costoro che si curavano poco di venerare il santo sull'altare, si univano molti altri uomini che uscivano di chiesa pochi minuti dopo l'inizio della messa: erano coloro che non sopportavano il lungo panegirico del predicatore, tra l’altro, pagato a caro prezzo dalla Commissione dei festeggiamenti .

Per la migliore riuscita della festa, non doveva mai mancare don Pasquale Caruso (il padre della maestra Caruso). Don Pasquale era veramente bravo a cantare e a suonare l’organo, ma quell’anno volle strafare. Adattò l’inno di Sant’Antonio alle note della Norma di Vincenzo Bellini, e lo cantò insieme ad una brava araldina che aveva la vocazione di soprano.

Se ad alcuni estimatori di Bellini, e ad altri che si volevano spacciare per intenditori di musica, la novità piacque, ad altri, ed in special modo alle bizzoche, la trovata giunse sacrilega, mentre da coloro che non si intendevano ne’ di canti liturgici, né di opere liriche, la novità non fu intesa affatto.

Così fu per la povera zia Mariuccia, che di ritorno dalla messa, riferì al marito che c'era stato qualcosa a movimentare la solenne cerimonia religiosa in convento, ma lei ci aveva capito ben poco : “So' capite sule quille che m'hanne djtte. ch’auanne Don Pasquale ha cantate ca nore.

Al che, il marito scrollò le spalle. Faceva bene lui a starsene a casa. Figuriamoci, non gli risultava nemmeno che Don Pasquale avesse una nuora!

 
 
 

il Padre Guardiano

Post n°75 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Le stravaganze simpatiche del Padre Guardiano (Racconto)
La stravaganza di quel Padre Guardiano era esagerata: dipendeva forse dall’età, oppure dall’essere un po' distratto; sempre di corsa verso qualcuno o qualcosa. A volte...




A volte capitava che lasciasse il sugo acceso sui fornelli, prima di celebrare messa, e poi all'improvviso abbandonava l’altare nel bel mezzo dell’omelia per correre in cucina a spegnere quel sugo ormai bruciato. E che fosse bruciato, lo faceva intendere dall’umore cambiato, quando tornava a riprendere messa sull’altare. L'omelia cambiava tono. Si indovinava il suo turbamento per quel suo ennesimo pranzo andato in fumo.

Un'altra volta capitò che dei ragazzi che giocavano, avevano urtata, più che spinta la sua Fiat 1100 familiare, da lui lasciata a ridosso della discesa del convento, facendola avviare lungo la discesa. Fu avvisato e in abiti sacri rincorse la macchina e, solo per miracolo, la riacciuffò in tempo, scongiurando il disastro. Prima di tornare sull’altare, fece in tempo a rincorrere quei ragazzi ai quali dette sonori ceffoni.

Era così quel nostro padre guardiano.
Un'altra volta volta, in maniera clamorosa, quel suo strano carattere si evidenziò in tutta la sua imprevedibilità. Fu in occasione della festività di Santa Lucia, mentre officiava la messa solenne, insieme all’anziano padre Raffaele, del tutto sottomesso al superiore e impaurito dai suoi severi comandi.

A Padre Raffaele comandò di prelevare la reliquia della santa affinché i fedeli potessero baciarla in occasione della festa. Padre Raffaele, che era da poco giunto in convento e non aveva ancora avuto modo di riconoscere tutte quelle numerose reliquie, andò in sacrestia e vi rimase molto tempo senza riuscire a rintracciare la reliquia richiesta. Disperato, tornò a mani vuote dal padre guardiano che sull'altare stava aspettando con impazienza insieme al popolo dei fedeli.

Molto seccato il Padre Guardiano intimò all'anziano confratello di tornare subito in sacrestia a prendere una reliquia qualsiasi, tanto quelli, i fedeli, non se ne sarebbero accorti. E fu così che Padre Raffaele, nella foga di prendere la prima a portata di mano, prese quella, riconoscibilissima, di Sant'Antonio. Per fortuna i primi fedeli non la riconobbero e la baciarono tranquilli.

Quando però qualche bizzoca s'accorse che non era la reliquia di Santa Lucia, ma quella di sant'Antonio, si ebbero le puntuali rimostranze rivolte all’officiante. Al che il guardiano indignato e forse anche arrabbiato ebbe seccamente a replicare: "Embè, l’anne passate l’avete baciate, a’ uanne na’ veléte bacià, e i' n'vva facce bbacià?".

I fedeli più intimoriti che convinti, si decisero a baciare la reliquia e pazienza per Santa Lucia. Tanto a tenerla buona ci avrebbe pensato Sant'Antonio, che come si di dice nel paese nostro è "un santo molto miracoloso".

 
 
 

Burle e rivalità campanilistiche:

Post n°76 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Burle e rivalità campanilistiche: a Monacilioni le raccontano così
Il Figlio del Fornaio ci ha mandato due anneddoti, raccontati dalla prof. Enza Santoro a Monacilioni lo scorso 2 agosto 2008, in occasione del "Cammina Molise".
Il primo aneddoto è riferito alla fondazione del paese (a seguito della distruzione di Catello, da parte dei toresi). Il secondo illustra la cosiddetta
pazzia di un monacilonaro, che voleva farla in barba ai toresi, e invece....


Monacilioni è sorto intorno al XII secolo, scrive il Masciotta nella sua opera “ Il Molise dalle origini ai nostri giorni”, intorno ad una chiesetta benedettina intitolata a “Sancti Monachi Leonis”. Lo stemma del Comune, invece, riporta un frate e un leone scolpiti.

A Monacilioni è diffusa una leggenda sulla fondazione del paese. Secondo tale leggenda, gli abitanti di Catello, un villaggio la cui documentazione archeologica è ancora da scoprire, si sarebbero dispersi in seguito all’incendio provocato dagli abitanti di Toro per difendere le proprie donne, troppo desiderate dai catellesi. Una parte della popolazione di Catello si sarebbe fermata a Petra, la piccola comunità collocata sullo spuntone di una roccia, che avrebbe poi preso il nome di Pietracatella, ed una altra parte, accompagnata dal Monaco e dal leone, si sarebbe rifugiata su un cucuzzolo ricco di un’acqua fresca e preziosa ed avrebbe costituito il primo nucleo abitativo di Monacilioni.

Dal 1752 il piccolo borgo è sotto la protezione di S.Benedetta Martire le cui spoglie mortali sono molto venerate dai monacilionesi.

E’ noto che in passato tra Toro e i paesi limitrofi , Campodipietra e San Giovanni in Galdo, vi fosse accesa rivalità, mentre con Monacilioni vi era buona amicizia, ma anche una viva goliardia che induceva i giovani a fare scherzi esagerati fino alla pazzia.

Infatti, ancora oggi gli abitanti di Monacilioni vengono definiti pazzi.



Si racconta che un monacilionese, che faceva di mestiere il fornaio, partecipò ad una festa che si teneva a Toro e pensò bene di rubare di nascosto gli ultimi colpi della batteria dei fuochi artificiali preparati per l’occasione, eliminando così il botto finale che siglava il valore della festa. Pensava di riservarli alla festa della amata Santa Benedetta a Monacilioni.

Purtroppo, nel ritornare verso il suo paese venne a piovere e i colpi si bagnarono. Lo sprovveduto pensò di farli asciugare sistemandoli nel suo forno, il cui calore fece scoppiare le bombe e naturalmente anche il forno. Un vero matto che da burlone divenne burlato.

 
 
 

Una sbronza memorabile

Post n°77 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Una sbronza memorabile - racconto
Si dice maliziosamente a Toro che abbiano procurato più danni i monaci all’antico convento, che i vari terremoti succedutosi nel corso degli anni, a partire dal 1592, anno di fondazione dell’edificio sacro. Ogni volta che arrivava un nuovo Padre Guardiano, si progettavano nuovi lavori di ristrutturazione. Ma le entrate modeste dei frati non bastavano a pareggiare i conti. Per incrementarle, i monaci, agli inizi degli anni Sessanta, pensarono di affittare il grande salone per i pranzi nuziali dei toresi.


Nozze in convento, 1965


Al lauto pranzo non provvedevano i monaci, ma il valente cuoco Zio Gennaro Evangelista. Davanti al suo spezzatino in brodo, o alle sue gustose braciole, non resisteva nessuno.

Il pranzo lo si preparava fin dalla vigilia delle nozze utilizzando gli utensili del cuoco, che venivano sparpagliati per stanze e corridoi e lungo il chiostro. Era consuetudine che coadiuvassero il cuoco gli stessi parenti degli sposi o semplici invitati che, durante il pranzo nuziale, si trasformavano in camerieri. Era un viavai continuo e frenetico e molto allegro. Spesso, grida e imprecazioni, se non rumori indicibili, arrivavano fino in chiesa, durante le celebrazioni.

Durante il pranzo nuziale il servizio era fin troppo efficiente. Senza aspettare che finisse il vino, la bottiglia iniziata veniva subito rimpiazzata da un’altra piena. Il chiostro accoglieva gli avanzi e molte bottiglie semivuote di ottimo vino fatto in casa. Era tentazione irresistibile per noi ragazzi, portarci in convento per “raccogliere gli avanzi”.

Fu in tale circostanza che mio fratello, a soli otto anni, esagerò. Più per sfidare i compagni che per sete, scolò diverse bottiglie di vino, bianco, rosso e rosato, fino a quando qualcuno non lo ritrovò riverso dietro una colonna del chiostro, che dormiva russando fortemente: si era ubriacato.

Appresa la notizia, la nonna andò a prelevarlo in convento e lo riportò a casa in braccio. Lungo la discesa del convento, il ragazzo ebbe a vomitare più volte, sbiancando in volto. La nonna, molto apprensiva, si allarmò. Qualcuno le consigliò di far prendere al ragazzo molta aria e lei eseguì il consiglio alla lettera. Trascinò fuori all'aperto il lettino, lo sistemò davanti casa, in Viale San Francesco, e vi depose l’ubriaco, che sembrava più un cadavere che un ragazzo addormentato.

Alla fine del pranzo nuziale, era consuetudine degli invitati passeggiare lungo il viale, per digerire il gran peso dello stomaco. Passando, presso il letto del ragazzo, che dormiva tranquillamente, molti non riuscivano a trattenersi dal ridere. A chi le chiedeva perché il ragazzo dormisse in strada, mia nonna rispondeva senza scomporsi: “Non sta bene, deve prendere molta aria”.

 
 
 

il presepe con la cascata

Post n°78 pubblicato il 17 Marzo 2012 da anchise.enzo

Il presepe con la cascata
In tema natalizio, con l'augurio che almeno per il prossimo Natale 2008 si torni ad allestire il presepe in una Chiesa Madre finalmente riaperta al culto, pubblichiamo questo racconto del Figlio del Fornaio. Parla delle peripezie esaltanti e con botto finale che portarono alla costruzione di un presepe memorabile una trentina d'anni fa nel cappellone di San Michele.




Noi ragazzi eravamo assidui in parrocchia. Galvanizzati da un giovane missionario, ci riunivamo periodicamente con l'aspirazione a vivere integralmente il Vangelo. Il parroco era molto felice di vederci riuniti nella sua modesta canonica e sentirci raccontare le nostre esperienze religiose piuttosto edificanti. Non si potè quindi deluderlo quando ci propose di preparare un presepe in chiesa per l’imminente Natale.

Ci mettemmo in moto: alcuni di noi andarono sotto la ripa per prelevare chili e chili di muschio, altri raccolsero ciocchi tarlati per utilizzarli a mo' di monti, altri si organizzarono per costruire case e castelli col cartone. Fernando, da buon inventore ed esperto elettricista, si industriò per animare con effetti speciali il fondo del cielo del presepe, che si espandeva per tutto il cappellone di san Michele. In una bacinella satura di sale faceva affogare delle lunghe lamelle di rame, che animate da un motorino elettrico, provvedevano a far accendere alternativamente varie luci sullo sfondo di due enormi lenzuola, che avevo prelevato furtivamente dal corredo di mamma.

Grazie alla mia fantasia e alla mia megalomania mi organizzai per arricchire quel presepe con una grande cascata e un lungo e tortuoso fiume, che terminava la sua corsa proprio davanti alla grande capanna della sacra famiglia.
Per fare ciò prelevai una potente motopompa, che mio padre utilizzava per attingere l’acqua dalla neviera.

Quando, dopo giorni faticosi, quell’opera grandiosa fu terminata, non credevamo ai nostri occhi. Avendo ammantato tutti i finestroni della chiesa con panni neri, nell’oscurità del cappellone di San Michele si ammirava ciclicamente l’aurora, il giorno e la notte in un gioco di luci incredibilmente suggestivo che abbracciava in un canto il castello fantasmagorico di Erode, e dall'altro la capanna della Natività. Al potere del mondo e dello sfarzo perduto sulle montagne di sacchi e gesso si contrapponeva, in basso, in un contrasto di grande forza scenica, la rassicurante povertà del Bambinello divino.

Quando poi si accendeva l’interruttore della pompa, una vorticosa cascata animava un fiume tumultuoso, che al solo rumore dello zampillio dell’acqua, sarebbe stato sicuro richiamo per i fedeli presso la capanna della natività.

Don Camillo era visibilmente emozionato per quel capolavoro, ma ci esortò a non far funzionare la cascata durante i riti liturgici perché il rumore dell’acqua si riverberava per tutta la chiesa disturbando i fedeli.

Ubbidimmo alla sua richiesta, ma gli disubbidimmo proprio il giorno di Natale perché la calca dei fedeli riversatasi presso il presepe esigeva lo spettacolo completo. Qualcuno di noi, fiero dell'opera compiuta, mise in moto la motopompa che, grazie ai suoi due cavalli di potenza, animò la grande cascata. Naturalmente avevamo collaudato tutti i vari meccanismi più volte, ma non avevamo considerato un imprevisto: il cesto delle offerte dei fedeli posto davanti alla grotta, sotto la quale si celava una grande conca, che raccoglieva tutta l’ enorme massa d’acqua. Quel cesto a Natale si riempì inverosimilmente, quando fu colmo, alcune residue monete finirono nella sottostante conca, ostruendo il tubo della motopompa.

Mi trovavo in piazza ad aspettare alcuni parenti, quando fui avvertito con grida isteriche di recarmi subito in chiesa perché si stava paurosamente allagando e nessuno sapeva interrompere quel diabolico meccanismo. Raggiunsi in un baleno la chiesa. Il presepe era devastato da una inondazione biblica. Con somma cautela chiusi tutti i comandi elettrici per scongiurare ulteriori pericoli, poi, nell’imbarazzo più completo, munito di secchio e stracci, cominciai a raccogliere l’acqua riversatasi sul pavimento, mentre alcuni fedeli mi guardavano a muso duro per quel fuori programma offerto loro proprio nella solennità della messa cantata di Natale.

 
 
 

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