Oggi, 3 maggio, è la giornata mondiale dedicata alla libertà e alla sicurezza dei giornalisti.
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In ogni angolo del mondo ci sono giornalisti minacciati, picchiati, trascinati in tribunale per spingerli a smettere di «disturbare», rapiti, uccisi. Ci sono Paesi in cui il «pericolo» viene associato soltanto all’andare a raccontare le guerre all’estero e Paesi in cui ci vuole coraggio a descrivere ciò che accade sotto casa. Ci sono Paesi in cui le due cose convivono.
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Se chiedi a un giornalista tedesco o inglese che cosa sia pericoloso, ti risponderà: andare in Iraq, in Pakistan o in Mali. Se rivolgi la stessa domanda a un russo o a un messicano, il primo ti risponderà che rischia la vita chi non si muove di casa ma ficca troppo il naso nelle manovre del potere e nei suoi affari, il secondo che raccontare il narcotraffico e le guerre della droga è il mestiere più pericoloso del mondo.
Ci sono posti in cui, il più simbolico è la Somalia, basta avere l’idea di aprire un giornale e di provare a fare cronaca quotidiana per rischiare di non vedere il tramonto.
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In Italia invece la domanda ha tante risposte. Da noi se vuoi vivere tranquillo è consigliato non partire per la Siria, l’Afghanistan, la Libia ma anche non fare inchieste sulla ‘ndrangheta o la camorra e non importa se il tuo lavoro lo fai a Napoli, a Modena, nella Locride o nell’hinterland milanese. Ma non basta. Se vuoi evitare minacce, aggressioni e fastidi lascia perdere pure gli anarco-insurrezionalisti, evita di avere spirito critico ad una manifestazione contro la Tav e non metterti a presentare libri di dissidenti cubani. L’intolleranza verso un’informazione libera e critica ha facce e radici le più diverse tra loro. L’Italia ha poi la variante giudiziaria: da noi il sistema politico e quello affaristico hanno il vizio di usare l’arma delle querele come minaccia e la richiesta di risarcimenti esorbitanti e sproporzionati rispetto all’eventuale danno ricevuto per scoraggiare i cronisti, i direttori e gli editori e per renderli più gentili e «distratti».
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Lo stesso senso del giornalismo che muove Yoani Sánchez, dissidente e giornalista cubana, che intende questo mestiere come il contrario di quello dell’entomologo: «Noi non possiamo stare lontani dalla realtà, osservare dall’alto la vita delle formiche, usando la lente di ingrandimento per avere l’illusione di essere vicini. Noi dobbiamo invece assumere il punto di vista delle formiche, stare con i piedi ben ancorati a terra: essere cronisti del reale».
Liberamente tratto da un articolo di Mario Calabresi (La Stampa).
Dedicato a Domenico Quirico
Come film ho scelto:
Urla nel silenzio
Inviato da: cassetta2
il 24/12/2020 alle 09:08
Inviato da: surfinia60
il 05/03/2017 alle 12:49
Inviato da: fico_vintage
il 02/01/2017 alle 12:01
Inviato da: Butturfly66
il 01/11/2016 alle 10:55
Inviato da: surfinia60
il 22/10/2016 alle 20:49