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ODORE ANTICO

Post n°97 pubblicato il 05 Ottobre 2009 da fittavolo

L’odore della legna bruciata aveva invaso la strada. Non era acre ma dolciastro. La resina intrappolata nelle venature del legname rendeva piacevole quella esalazione. Era un odore antico che suscitava vecchi ricordi, storie di un tempo passato, perse negli angoli bui di una fanciullezza finita anni fa. M’immaginavo la fiamma consumare pian piano il ceppo, avvolgerlo e divorarlo. Forse in qualche stufa moderna, in una delle tante case lì vicino, o forse lontano in qualche camino rustico ed era giunto trasportato dalla lieve brezza del pomeriggio. Guardai i tetti delle case, i loro camini tacevano. Allora pensai ad un posto lontano, dove c’era un fuoco acceso ed un vecchio signore che lo curava. Aveva le dita ingiallite dalla nicotina, depositata dalle tante sigarette che aveva fumato. Le faceva lui, cartina tabacco e tanta esperienza. Mi raccontò che aveva cominciato a fumare a sedici anni. A quell’epoca non aveva soldi in tasca e le prime sigarette le aveva fatte raccattando i mozziconi per strada e avvolgendo il tabacco ricavato con un pezzo di carta qualsiasi – avevano il gusto della carta, il tabacco si sentiva poco. Ce n’era poco. Ma tu queste cose non le devi fare, non devi fumare – era il consiglio di un fumatore accanito. Avevo otto anni quando mi parlava di queste cose, ed eravamo in piena campagna, al suo podere. Borgo San Giusto stava seguendo le sorti di tanti altri centri agricoli nati nel dopo guerra, si stava svuotando. I giovani, figli dei contadini che con tanto sacrificio avevano riscattato i propri poderi, di zappare la terra non ne volevano sapere. L’ente riforma aveva tolto la terra ai grandi latifondisti e l’aveva data ai braccianti, trasformandoli in piccoli proprietari terrieri. Tutto ha funzionato finché, stanchi dalla fatica di tanti anni di duro lavoro, i vecchi lasciarono il posto ai loro figli. Ma i figli erano già andati via in città, in cerca di una vita più agiata, delle comodità che la moderna società in forte ascesa prometteva. Così i campi spesso rimanevano incolti o erano affittati ai pochi che restavano. Nei suoi occhi c’era tutto il rammarico di non vedere continuare la propria tradizione, mentre fumava e mi guardava e mi diceva parole per dissuadermi dal fumare. Eravamo seduti su due tufi, accanto ad un fusto pieno di bottiglie di passata di pomodoro. Le stava sterilizzando tramite la bollitura. Il fuoco curato con molta attenzione serviva a scaldare l’acqua – deve raggiungere la bollitura lentamente, altrimenti si può rompere qualche bottiglia. Poi bisogna lasciarle bollire per almeno mezzo ora – mi insegnava un’operazione apparentemente semplice, ma che richiedeva molta attenzione. Intorno a noi la sua terra era coltivata solo un pezzetto. Era quello che riusciva fare senza stancarsi eccessivamente, il resto era terra brulla. La casa colonica era al centro dell’appezzamento e tutto era recintato con la rete metallica. Un cancello malandato era il punto d’accesso. Nell’ampio porticato mia madre con le sorelle e sua madre ultimavano le pulizie, dopo aver passato quattro quintali di pomodori e aver riempito decine di bottiglie. Solo dopo si poteva mangiare. Pomodoro fresco con pasta e rucola selvatica, era il menù di un giorno particolare. La rucola l’aveva raccolta nella mattinata, nei campi incolti o lungo le cunette della strada, era stata lavata e aspettava di essere cotta. L’odore che regnava incontrastato era quello della legna che ardeva. Non il fumo, che fuggiva via verso l’alto, ma l’aroma delicato che lasciava il ramo di eucalipto bruciando. – Adesso sta bollendo, vedi le bolle d’aria che vengono su – mi fece notare togliendo il pezzo di latta sul fusto. Poi tolse la legna che alimentava il fuoco, lasciando solo la brace – questa è sufficiente per farla bollire per mezz’ora. Spense i rami ancora accesi coprendoli di terra. Poco dopo la voce di mia madre giunse chiara e inequivocabile, era pronto il pranzo.
– Nonno andiamo, è pronto da mangiare – avevo fame.

 

 
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