Creato da: JayVincent il 07/03/2006
Tiri liberi sul mondo della Pallacanestro Olimpia Milano

Area personale

 

E-mail me @

starfish-and-coffee@libero.it
 

Cerca in questo Blog

  Trova
 

FACEBOOK

 
 
immagine
 
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 

 

 

IL LODO BUCCHI

Post n°168 pubblicato il 12 Ottobre 2009 da JayVincent

 

La Corte Costituzionale ci ha messo ore di camera diconsiglio prima di definire del tutto incostituzionale l’ormai celebre LodoAlfano, che avrebbe voluto sancire l’immunità davanti alla legge delle quattropiù alte cariche dello Stato.

Anche se i muri e le piastrelle sapevano perfettamente cheil Lodo era a uso e consumo di una sola carica, e non di quattro, almeno si èprovato a mascherarlo con una pluralizzazione.

In via Caltanissetta, anzi no, in Piazzale Lotto, l’immunitàdavanti alla Legge della pallacanestro è stata proposta per una sola carica, ilcoach biancorosso.

Dalla mente di Livio Proli nasce il Lodo Bucchi,provvedimento straordinario che garantisce l’impunità per l'imputato BucchiPiero, anche in presenza di reati manifesti.

 

Chi ha la bontà e la pazienza di leggermi, sa bene che nonsono mai stato un fan degli esoneri o dello sparo libero contro le panchine.Non mi piace e non è mai la soluzione di tutti i mali.

E le cose non sono cambiate: continuo a non amare questapratica nè la invoco, ma l’obiettività e l’onestà mi obbligano a dire che tutto questocredito, tutti questi poteri, non capisco come abbia fatto Pierinonostro a meritarseli.

Naturalmente del buono c’è stato, perché la finale raggiuntalo scorso anno non può essere spiegata esclusivamente come una casualità, ma èforte come un monolite l’evidenza che il lavoro dello scorso campionatopresentò molte lacune, spesso strutturali, ma altrettanto spesso mai néaffrontate né tamponate, se non con il sistematico ricorso al mercato di riparazione.

La prima partita della stagione non è mai vangelo, siè visto tutto e il contrario di tutto nel corso degli anni e non è una prestazione ancormeno che modesta a preoccuparmi. Bensì è il filo sorprendentemente robusto alegarci al passato quello che mi raffredda.

Dove non è più Hawkins, è Finley, che si prende tutti glionori della rimonta ma anche gli oneri di non averci capito nulla quando Vareseassestava le spallate che risulteranno decisive.

Non si voleva evitare come la peste l’accentramento dell’attacco,il famoso 1 contro 5 che è stato bollato come inaccettabile dai verticisocietari?

Io posso anche essere d’accordo, visto che stiamo parlando di Lapalisse: parlando di massimi sistemiè naturalmente meglio un attacco che attacca in cinque rispetto a uno che metteil pallone nelle mani della sua stella e aspetta lo svolgersi degli eventi. Ilproblema è che ho visto tutto tranne che questo, ho visto completamente disinnescatii potenziali ordigni e una lettura della partita, dei suoi mismatch e del suoandamento assolutamente (e gravemente) insufficiente. Ho visto una squadra che non si è cercata, non ha giocato insieme e non ha dato la sensazione di sapere a quale ritmo votarsi.

 

Quindi, che vogliamo fare? Partire un’altra volta morbidiche più morbidi non si può? Seduti su un divano comodo di giustificazioni?

La linea editoriale di quest’anno, impostami da me stesso inquanto editore e condivisa dal Cda che è composto da io, me e Jay Vincent, hadeciso di cambiare registro e limitare al minimo sindacale i bonus scusanti.

Iniziamo con il definire la costituzionalità del Lodo Bucchi:forse è il momento di fare più fatti e non crogiolarsi in un merito che noncostituisce immunità.


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

CRONACA DI UNA MORTE ANNUNCIATA

Post n°167 pubblicato il 30 Settembre 2009 da JayVincent

 

Non per cattiveria, non per imperizia. Nemmeno per suicidio.

Semplicemente, per le leggi del marketing che imperano egovernano il mondo in cui consacriamo le nostre passioni, commettendo l’erroredi crederle valori.

Purtroppo ognuna di queste passioni è appesa a un filo, cheviene tirato a piacimento dal mercato, dal denaro, dai patti multinazionali,dall’interesse di un piccolo o grande gruppo.

Che ha come unico valore quello dell’investimento e delritorno d’immagine.

 

Nel 2001 Sergio Tacchini è il presidente dell’Olimpia Milano. Accanto a lui opera, plenipotenziato, Tony Cappellari, un pezzo distoria biancorossa, firma in calce dei trionfi di Gand e Losanna, stravincentenei confini nazionali.

Io sono un creativo emergente, la mia agenzia annovera Clienti di crescente importanza, tra i quali il Gruppo Tacchini.

Firmiamo la campagna stampa del gruppo, ci affideranno anche il budget per la campagna Eyewear; insomma, quello con l’Azienda del Cavalier Tacchini è un sodalizio fruttifero.

Al punto che, una mattina d’estate, ci viene comunicato chel’Agenzia ha acquisito un nuovo Cliente: la Pallacanestro Olimpia Milano.

Come un riflesso condizionato, le facce al tavolo si voltanoa guardarmi.

La notizia non era nell’aria, ci penso e ci ripenso: io mi occuperò della comunicazione pubblicitaria dell’Olimpia? Da noncredere.

Quanto può essere assolutamente fantastico per un pubblicitario avere tra le mani il frutto della sua passione?

Oggi, un po’ di anni e parecchia esperienza dopo, mi guarderei bene dall’esserne entusiasta.

Mi farei in quattro per non essere uno dei creativi alavorare sul Cliente.

 

Entrare nell’Olimpia, mentalmente e fisicamente, è stata unadelle più forti delusioni della mia carriera, seppur ancora relativamentebreve e poco più che decennale.

Guardare dal vivo cosa c’è dietro la carta patinata, dietrole notizie sui giornali e oltre la fittizia superficialità, può essere unesercizio sfiancante.

A una delle prime riunioni – tutte le riunioni si tenevanonella Sala dei Trofei di via Caltanissetta – ci venne chiesto di studiare unanuova immagine coordinata.

Svecchiare i simboli, dare una sferzata di novità. Come se,purtroppo, il passato deve essere sinonimo di polveroso amarcord.

Primo dubbio: che fare di Fiero? Resta o se ne va?

È stato solo grazie all’abile lavoro del bravissimo artdirector Fabio Azzoni che Fiero passò la notte: presentammo un restyling, un passaggio nel tempo, che era poi la versione di Fiero utilizzata fino a oggi.

Solo il tempo di sospirare per il pericolo scampato, chearriva il secondo problema.

È Cappellari a sollevarlo. Bisogna levare il nome Olimpiadalla ragione sociale.

E mutarlo in Pallacanestro Milano 1936.

Tony, gli dissi. Non possiamo dare l’idea che la nuovaSocietà rappresenti un altro mondo. Perché questa smania di tagliare i ponticon un passato che passato non è?

Mai, mai nella vita avrei potuto aspettarmi di sentirmirispondere: perché Olimpia è un nome che non conosce nessuno. Un conto è Virtus, che a Bologna è un’istituzione, ma a Milano nessuno fa l’equazione tra il basket e l’Olimpia.

Non voglio commentare oltre, né giudicare persone per le quali nutro comunque un rispetto personale; per fortuna salvammo anche Olimpia,questo conta.

Da lì, fu una deriva triste legata alla gestione, alleriunioni, alle indiscrezioni, alle cose viste con i miei occhi che nontrovarono e non possono trovare spazio sui giornali.

Tacchini mollò, regalò la società facendo apparire ungesto eroico quello che in realtà ebbe scenari ben diversi, sui quali nonintendo soffermarmi.

 

Stare nella stanza dei bottoni, o nell’anticamera di questa,mi procurò diverse antipatie all’interno della Società stessa, ma soprattuttomolte amarezze personali.

Purtroppo, nel tempo, cambiano le proprietà, cambiano i modi dipresentare e presentarsi.

Cambiano l’approccio e le relazioni, ma la grande e unicaverità è che nel nome di Fiero, nel nome dell’Olimpia, ci siamo solo noi.

Che non saremo mai quelli che pigiano i bottoni.

E che eleggiamo a mito piccolezze che per altri sono solo riempitivi che tolgono spazio.


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

LA STORIA DEL GIOVANE GUERRIERO E L’AQUILA CON GLI OCCHI BUONI

Post n°166 pubblicato il 21 Settembre 2009 da JayVincent


C’era una volta un popolo, variopinto e variegato, un popolo orgoglioso e battagliero.Non aveva differenze di ceto sociale, non conosceva invidia né pettegolezzo, aveva il solo obiettivo di conquistare trionfi.L’ambizionedi piantare la propria bandiera ovunque. Entro i confini della propriopaese e oltre, lungo le terre distese della lontana Europa.

L’orgoglioli muoveva, la voglia di stupire, di sentire il peso del trionfo tra lemani e il sapore del successo nella bocca. E, forse per dimostrarequanto forti si sentivano, scelsero come simbolo della loro armata ilpiù piccolo dei soldati. Il più basso, il meno prestante, il piùsilenzioso. Un ometto piccolo che nessuno aveva mai visto in viso, dietro il suo elmo e oltre il suo scudo. Divenne il simbolo di quella frenetica conquista, di quel dominio che azzerò confini precostituiti. Quelragazzo senza volto, ma fiero dentro la sua corazza, sembrava nato ecostruito come emanazione del cuore che gli batteva in petto.

Il dominio continuò, poi si incrinò sotto il peso dei decenni e sfumò annacquato nel colore. Glianni passarono e il popolo si succedette. I figli, i figli dei figli.Gli anziani impegnati a ricordare loro lo splendore del passato,l’antico fasto e la coltivazione della speranza per il futuro. E a tutti, quella statua fatta erigere nel centro della piazza. Unaenorme statua di quel ragazzo con lo scudo e l’elmo, un pezzo dimemoria piantato nella terra, come una radice secolare, come un monitoa chiunque lo osservasse dietro la stanchezza del tempo placido.

Poi, un giorno, come un messaggio, giunse tra il popolo un’aquila. Qualcuno si guardò, qualcuno non capì, le mamme coprirono il capo dei loro bimbi. Ma era un’aquila buona. Gli occhi erano mansueti, il becco non rapace. L’aquilaparlò e promise al popolo di ricominciare la conquista nel solco deipropri padri, di imparare da capo la declinazione del verbo vincere.

Tutti furono entusiasti. Ma l’aquila disse: io non esigo tributi, ma chiedo solo un sacrificio. Voglio volare via con il guerriero che c’è in questa piazza. Le urla di entusiasmo dei più giovani accolsero come una risposta non data la richiesta dell’aquila con gli occhi buoni.

Ma quella notte gli anziani del villaggio non dormirono. Ei loro figli capirono. Solo i nipoti, per i quali il passato non era néstato vissuto, né raccontato, dormirono sonni a forma di nuovi trionfi. Poi, il mattino dopo, si incontrarono nella piazza del villaggio

Etutti insieme, come guidati da un’idea comune, come messi in comunioneda una mano silenziosa, presero la parola e domandarono all’aquila.

Per favore, non ci porti via il solo simbolo che parla di noi. Raccontare la storia a parole è più difficile che riassumerla con il simbolo che l’ha scritta.


 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

UOMINI SOLI

Post n°165 pubblicato il 17 Giugno 2009 da JayVincent


Non ci voleva una finale Play Off per rendersi conto che c’è una sola squadra al comando, un gruppo con un vantaggio talmente enorme sulle inseguitrici da potersi permettere soste, sieste e chissà cos’altro.
La Mens Sana è un gruppo che lavora nel solco e nel rispetto di un progetto, con gente brava e capace, che è andata a pescare Campioni in pectore da realtà minori, li ha integrati con acquisti importanti e, creata la struttura, ha via via operato solo innesti mirati.
E poco importa dell’italianizzazione fasulla di Stonerook o Eze: hanno agito nelle regole e quindi la critica, semmai, va al sistema che consente operazioni poco limpide.
Uomini soli anche i nostri, che hanno però dimostrato in modo incontrovertibile di non essere ragazzi ma – appunto – uomini dotati di attributi, che ci hanno consentito di portare a termine una post season più che soddisfacente; giocata, troppo poco ricordato da stampa e tv travolte dal complesso del servo, senza Mason Rocca, Pape Sow e senza Maurice Taylor nelle ultime due partite di finale.
La stagione milanese è stata una Via Crucis impressionante, è per questo che mi fanno ridere – e anche un po’ pietà – quelli che insistono a dire quanto siamo stati baciati dalla sorte ad incontrare squadre abbordabili.
Le stesse squadre abbordabili che, durante l’anno, hanno schiaffeggiato tutte le grandi o presunte tali? La squadra materasso Biella che ha dato una lezioncina in gara-5 a Roma, dopo averle inflitto due pesantissime sconfitte nella propria tana?
Sono discorsi che non mi interessano, dettati dall’acidità di chi ha visto sfumare malamente i propri progetti, abbattuti tra l’incudine e il martello di progetti sballati e obbrobri dirigenziali.
Il nostro Anno I d.C. (dopo Corbelli) è stato tutt’altro che esente da errori: ma quando al timone ci sono persone serie, ai remi gente che ci da sotto, la rotta si riesce a tenere.
E non è colpa di chi giunge al traguardo se le altre imbarcazioni si schiantano contro iceberg o si ammutinano.

Vale la pena di analizzare la partita di ieri? No, probabilmente no.
C’è da registrare la più lampante conferma di quanto gli uomini soli, quelli soli al comando, siano anche solo giocatori, grandissimi, ma molto poco altro.
Ribadisco quanto scritto nei giorni scorsi: c’è modo e modo di vincere. Bisogna saperlo fare, pur non essendo un requisito necessario per fagocitare trofei e successi.
L’essere grandi giocatori ti garantisce le vittorie; l’essere grandi uomini non garantisce nulla.
Ma nella mia moralità, personalissima, s’intende, c’è una concezione di rispetto dell’avversario che impone di tendergli la mano per rialzarsi, dopo averlo abbattuto.
Perché le due cose non sono inconciliabili, anzi: stroncarlo, asfaltarlo, azzerarlo non è mancanza di rispeto.
Io non sono iscritto al partito di chi pensa che dare 50 punti sia una inutile dimostrazione di prepotenza; penso che si debba fare il lavoro fino in fondo, giocare, dare tutto. Non c'è mortificazione nella dimensione del punteggio: c'è mortificazione nello sputare sull’avversario a terra.
E io non posso tollerare di vedere gli avversari che, mentre ci fanno a pezzi, protestano, fingono, si vittimizzano, recitano.
Non si può guardare Stonerook che sul +30 simula.
Non si può guardare Kaukenas che sul +35 aggredisce verbalmente un arbitro per un sacrosanto fallo fischiatogli.
Non si può guardare un ragazzo come Terrell McIntyre che prende in giro un avversario e chiede poi che venga sanzionato con un fallo tecnico.
Uomini soli al comando, abituatisi al potere vessatorio di gente cui non basta la vittoria, ma vuole vedere scorrere il sangue (sportivo) per segnare il dominio.

Ora è il momento del rompete le righe.
Ci sono i compiti delle vacanze, non semplici come potrebbe apparire: chiudere il rinnovo di Hawkins, valutare alcune posizioni, soppesare la guida tecnica.
Ci sarà tempo nei prossimi giorni, con calma, di parlarne. E anche di riprendere, chiudendolo, quel discorso sul Break Even Point.
Per ora, un applauso ai nostri uomini soli.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

ORGOGLIO E PREGIUDIZIO

Post n°164 pubblicato il 15 Giugno 2009 da JayVincent


A volte ci sono partite che, indipendentemente da punteggio e risultato, un tifoso vorrebbe sempre vedere.
Guardare i suoi ragazzi che giocano con un cuore e una fierezza immensa, vederli mentre sputano tutto quello che hanno dentro, osservare il trito e retorico paragone di Davide contro Golia che diventa invece giustificata e giustificabile metafora.
Sarò subito impopolare: uscire sconfitti dal match di ieri è quasi un bene, è la conclusione più giusta, perché tatua sulla pelle tutto ciò che deve essere fatto per arrivare a competere con i migliori, ma scrive nella pietra quali sono le cose che non vanno fatte.
Scolpisce nelle tavole di Mosè alla milanese che accontentarsi non basta, che se si vuole davvero competere e crescere, ora, oggi, è il momento di fare uno sforzo in più.
Evidenzia che con una gara perfetta si può vincere, appunto, una partita. Ma con una struttura e un lavoro che sulla lunga durata sono imperfetti, non la spunti.
Non questo momento storico.
E forgiare un gruppo, un Progetto con la P maiuscola, nel momento di dominio incontrastato di un altro vessillo, è una fatica doppia.
Ma ti da la possibilità di garantirti un futuro altrettanto solido, perché issarsi al comando in un momento di vuoto di potere è una cosa, rovesciare un regime – sportivo e meritatissimo, s’intende – ti iscrive nella storia che conta.

L’orgoglio che provo per questa squadra, oggi, è davvero grande.
Per la bellezza infinita che c’è nel vedere ragazzi come Katelynas, come Sangarè, come Joey Beard – tutt’altro che baciati dal talento, non incensati, non esaltati – tenere testa e costringere Siena a perdere la trebisonda, obbligandoli, se possibile, a giocare ancor più sporco, è qualcosa al limite del commovente.
Vedere l’avversario che ricorre a tutto il proprio repertorio prima tecnico, poi tattico e poi sommerso per strappare la vittoria, è il successo più grande.

Sarò magari sgradito ai puristi del ‘Siena non si tocca’, ai cronisti e giornalisti orbi che vedono solo il luccichio e si astengono da ogni critica, ma Siena non sa vincere.           O meglio: null'altro che il campo.
È una squadra fortissima, costruita con basi solide e nel rispetto di un progetto, straordinariamente ben messa sui legni: e finchè ci si limita a questo, io mi alzo e applaudo.
Ma c’è una Mens Sana meno sfavillante, che non ha lo stile degno delle grandi squadre, che porta in campo un’arroganza e una presunzione che si legge sulle facce di chi li dirige, che vibra nelle proteste e nelle occhiate dei suoi interpreti in campo, tagliabile con il coltello nel modo in cui non rispettano l’avversario. Nella piaggeria di chi li asseconda e non sarebbe mai tanto impertinenti dal fare qualcosa di sgradito, perchè spesso è più triste il dominato del dominante.
Diceva il grande Indro Montanelli: come si fa a non diventare dittatori in un paese di servi?

Questo è un discorso da perdenti? Forse.
Invece io mi sono sentito incredibilmente vincente nel vedere i miei ragazzi costringere i Campioni al più completo repertorio di intangibles da padroncini del vapore.
Questo è il pregiudizio.

Ma non solo. Perchè, restando in casa nostra, il pregiudizio è stato nel sapere a pochi secondi dalla fine che Siena l’avrebbe portata a casa.
Nel vedere Bucchi chiamare quel time out e sapere perfettamente cosa sarebbe accaduto.
Temo che questa sia una Polaroid piuttosto triste della nostra stagione, perché dentro tanti complimenti c’è il rammarico di non essere mai usciti dalla prevedibile ovvietà di uno spartito monotono e sempre uguale a sé stesso.
E Siena, che è una squadra di Campioni che leggono le partite e sanno perfettamente dove andare a guastare il gioco, si è limitata ad aspettare la naturalezza degli eventi.
La difesa del nostro ultimo possesso è stata semplicemente un pezzo di bravura, sciorinato con la facilità e la naturalezza di chi beve un bicchier d’acqua.
Ma ci sarebbe da capire se, finalmente, sarà possibile mettere in discussione la guida tecnica della squadra; Livio Proli disse che questa squadra, ora, assomiglia al suo allenatore.
È proprio così: gli somiglia fin troppo. E non gli è mai stata fedifraga, perché nel momento del bisogno è ricorso al grande quadro che coach Bucchi ha dipinto per noi.
L’isolamento di Hawkins.
Capolavori come quelli di ieri sera non meritano di diventare rimpianti.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

THE UNDERDOGS

Post n°163 pubblicato il 03 Giugno 2009 da JayVincent


Ovvero, i sottovalutati.
Partiamo così, da una domanda che mi frulla in testa dall’inizio dei Playoff.
Chi sono, in queste serie che stiamo disputando, i veri Underdog?
Biella e Teramo, oppure noi?
Da quale punto di vista è lecito e giusto osservarci?
Siamo noi quelli che hanno il blasone, quelli che si chiamano Olimpia Milano e hanno speso un signor budget sul mercato, a essere i favoriti, oppure sono (state) Teramo e Biella?
Capiamoci.
Io credo che questa Olimpia, oggi, in una serie playoff – nella configurazione senza Sow e Rocca –  non possa essere favorita contro nessuno.
Da Siena a Treviso, da Bologna a Roma, da Biella a Teramo.
Siamo una squadra che non sviluppa un gioco offensivo accettabile, che soffre in modo assoluto a rimbalzo, atleticamente inferiore a tutti i roster, con una guida tecnica che ancora non ha definito una gerarchia assoluta.
Abbiamo un fattore campo spesso poco influente e non godiamo di arbitraggi non si dice compiacenti, ma nemmeno casalinghi.
Chi mi vuole fare credere che il fischio dei 5 secondi a Moss è stato un omicidio, dice una sciocchezza sesquipedale.
E nonostante tutto, oltre ogni singolo rilievo, questa Olimpia 2008/2009 è a una vittoria dall’unico scudetto che sia realmente in palio quest’anno: quello della finalista sacrificale.

Io credo che i veri sottovalutati siano i nostri avversari.
Perché trattarli con la condiscendente simpatia delle belle favole di provincia non rende giustizia a loro, ma nemmeno a noi, che stiamo giocando un Playoff di proporzioni cosmiche.
Con attributi incredibili, con una voglia e una concentrazione commoventi, con una partecipazione favolosa da parte di giocatori epurati (Thomas), giustiziati preventivamente (Hall) e oggettivamente al capolinea (Marconato).
In ogni partita o quasi abbiamo visto quintetti dissennati, sofferenti in quasi tutti gli accoppiamenti, andare sotto di brutto a rimbalzo.
Abbiamo visto avversari andare prestissimo in bonus e capitalizzare, o provare a farlo, dalla lunetta.
Eppure, eppure per 5 volte su 7 a uscirne vincenti siamo stati noi.
Croce e delizia, piuttosto preventivabile per una squadra destinata, mediamente, a non vincere né perdere con ampi scarti.
Troppo poco attacco e troppo brutte esecuzioni per segnare parziali che stacchino gli avversari; troppe palle, troppo sudore per farsi seminare.
Ripeto: noi saremo anche Milano, quella che secondo tanti polemisti da bar avrebbe ricevuto una bella mano dal Palazzo, fornitore di revolver per terne in grigio col compito di spianarci la strada.
Ma noi la strada ce la stiamo spianando da soli, contro avversari che di sicuro non sono mai partiti con il pronostico a sfavore, checchè addetti ai lavori e giornalisti beoni ne ciancino.
Tutt’al più, saranno state e sono serie in equilibrio, ma è corretto dire – anzi, urlare – che la differenza la stanno facendo quelle intangibles di cui siamo dotati oltre misura.
La stanno facendo le palle, la voglia, la concentrazione, non certo i pick’n’roll, i giochi o le esecuzioni pulite.
Le volte in cui ho visto questi ragazzi eseguire in modo sopraffino un gioco, con tempi e modi giusti si contano sulle dita di una mano. E hanno avuto come terminale sempre Mo Taylor.
Il resto è la meraviglia pulsante di David Hawkins, godiamoci quel che ne resta.
Il resto è la follia, il purissimo istinto, di Mike Hall.
Le mani dolcissime di Price.
Ne manca ancora una, ma fino ad oggi, cosa vogliamo chiedere di più a un gruppo che 8 mesi fa partiva tra mille dubbi, molti dei quali anche giustificati (e non risolti)?
Il primo articolo di questa stagione lo scrissi parlando di Break Even Point: cosa avrebbe dovuto fare questa squadra per raggiungere il punto di parità tra “costi” e “ricavi”, metaforicamente parlando?
Al tempo ci siamo limitati a convenire che lo avremmo scoperto strada facendo.
Ora, mi sento di dire che comunque vada a finire, il ricavo è infinitamente superiore al costo.
E di equivoci da risolvere, dubbi da dissipare, errori cui rimediare abbiamo un’estate di tempo per parlarne.
Se questa stagione ha insegnato una cosa, è che Livio Proli ebbe pienamente ragione a dire che per fare parte del progetto fosse indispensabile essere persone serie.
A volte gli uomini, più che i giocatori, ti portano lontano.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

NEMICIAMICI

Post n°162 pubblicato il 20 Aprile 2009 da JayVincent


Un grande nemico, per avere la dignità di esserlo ed entrare in quella ristretta cerchia di interpreti del male (sportivo) assoluto, deve avere fatto veramente qualcosa di nefando. Un grande amico, per essere tra quelli che prendono gli applausi a scena aperta, deve avere tratteggiato la storia della tua squadra, deve avere fatto qualcosa che travalica dal semplice gesto. Sia esso cestistico o umano.
Massimo Bulleri è un ragazzo che non sarà mai ricordato né come un nemico, né come un amico. Prenderà il singolo applauso di chi ne ha apprezzato l’indiscussa professionalità e lo stile impeccabile, mai fuori dalle righe anche quando il trattamento non è stato dei più gradevoli, né quando lo si è fatto passare come unico responsabile a fronte di fallimenti societari ben più evidenti.
Prenderà i fischi di chi si ferma alla superficie, dove superficie è il mero gesto tecnico, lo srotolare partite all’interno di stagioni – diciamolo con onestà intellettuale – tutt’altro che memorabili.
E penso che questo stare nell’ombra, sospeso sul filo del non essere riuscito a lasciare un segno nè in un senso nè nell'altro, sia anche il paradigma della sua carriera: quella di un ragazzo che troppo ha pagato la santificazione da star italiana, suggellata da premi e riconoscimenti che solo male gli hanno fatto.
Un ragazzo con un carattere difficile da decifrare, troppo schiacciato dal peso delle attese e dalla pressione della piazza, abbandonato da quella stampa e addetti ai lavori che ne hanno decretato la consacrazione in nome di interessi esterni, per poi lasciarlo nella polvere con indifferenza quando lo hanno visto annaspare.
La sua storia a Milano è finita senza ricordi, come se quell’attimo sospeso in seguito al suo arrivo si fosse cristallizzato; e nel mezzo tutto fosse evaporato, come acqua – trasparente e insapore – buttata sul fuoco – che brucia tutto, aspettative e speranze.
Tanto dovevo a Massimo. Il mio in bocca al lupo è sincero e vero, ma privo del trasporto che si concede a un amico.

Milano gioca una partita convincente per alcuni tratti, la maggioranza.
Si perde ancora in qualche balbettio di troppo, nonostante una Treviso disarmante faccia poco o nulla per limitare le spallate biancorosse.
Che Mahmuti avesse in testa un’idea destinata al naufragio lo si potrebbe intuire ancor prima della palla a due, quando spinge in quintetto Bulleri e lascia seduto CJ Wallace.
La partenza biancoverde è sprint, ma bastano un paio di soffi di Hall e Sow per fare crollare il castello di carta.
Bullo è una sciagura, spara a salve e ferma il ritmo con palleggi insistiti da cui non estrae nulla, Neal è anestetizzato e nemmeno l’ingresso in campo di Wood, involuto in maniera preoccupante, scuote le coscienze biancoverdi.
Di fatto, la partita finisce lì e prosegue con l’essere un susseguirsi di situazioni prive di interesse complessivo, ma valutabili a compartimenti stagni, all’interno di un match che non ha più in palio i due punti.
Ciò che più salta all’occhio è la partita energica di Pape Sow, che banchetta di fisico contro l’acerbo Renzi e i troppo leggeri Rancik-Nicevic.
Una risposta di peso, che ci consegna un giocatore in ripresa dopo un lunghissimo appannamento; situazione che, per la verità, si era già presentata a gennaio e che speriamo questa volta abbia un seguito.
Di certo, un suo maggior coinvolgimento offensivo è la chiave per avere una maggiore applicazione difensiva, allontanando quei clamorosi cali di tensione che tendono a spegnerlo senza nemmeno il cicalino di avvertimento.
E poi, Vitali. In assenza di Price, Luca srotola una partita niente male, non priva di quegli errori che purtroppo sono parte integrate del suo basket, ma condita di cose buone, di un controllo del ritmo decisamente più efficiente del solito e impreziosita da un gioco a due con Rocca che vale una sacrosanta standing ovation del palazzo.
Con Hawkins che dà l’idea di poter fare quello che desidera quando lo desidera, rimanendo confinato in una serata di relativa tranquillità, ci sono le prove in chiaroscuro di Katelynas e Thomas.
Minda, dopo prove molto confortanti, si perde in minuti confusionari, imprecisi e meno energici del solito; Jobey paga il progressivo allontanamento dall’agonismo domenicale, troppo diverso dall’impegnarsi in palestra.

In conclusione, dopo tanto rincorrere ci siamo agganciato al treno delle seconde. E il mettere nel mirino il calendario difficile che ci aspetta non deve farci scordare da dove siamo partiti.
Alcuni problemi di questa squadra non potranno essere risolti, perché sono di costituzione.

Ma avevamo una squadra senza un gioco offensivo, mentre ora possiamo andare oltre l’isolamento per il Falco.

Avevamo un 4 che non si scollava dall’arco e ora ha inserito un gioco più sostanzioso, che comprende il mettere la palla a terra.

Avevamo problemi in regia, con un Vitali perso nelle nebbie delle aspettative, e ora il ragazzo ha preso a macinare palloni.

Avevamo una squadra tremebonda e paurosa, incapace di gestire i finali, e ora non abbiamo più bisogno di arrivarci, a quei finali.

Avevamo un gruppo senza gerarchie, con equivoci, e ora ognuno fa il suo sapendo il ruolo che deve interpretare.

Ricordiamocelo. Non diamo per scontato. Non pensiamo che al primo passo falso, che inevitabilmente verrà, sia giusto dare un calcio al secchio del latte.
Tenere a mente da dove si è partiti è il modo migliore di non scordare quanta strada si è fatta.



 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

TELEGRAMMA

Post n°161 pubblicato il 16 Aprile 2009 da JayVincent

Forza Hollis.

Un abbraccio grande. Le parole non ci servono mai in certi momenti: quando un filo si spezza, resta solo la possibilità di prenderne un capo sfilacciato e tenerlo sempre tra le nostre mani. A tenerci compagnia, sotto forma di ricordo a colori.

 

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

GRUPPO INSEGUITORI

Post n°160 pubblicato il 06 Aprile 2009 da JayVincent


E sono sei.
Sei vittorie consecutive, un ruolino di marcia che nel girone di ritorno si è fatto battente portandoci, di fatto, ad agganciare la zona delle dirette inseguitrici della corazzata Montepaschi.
Quelle che, pateticamente, vengono definite come l’AntiSiena.
Pateticamente un po’ perché l'AntiSiena concretamente non esiste, un po’ perché cercare di accorciare le distanze con questi giochini ad inseguimento è un mezzuccio per non dire che il campionato, sin dalla prima palla a due della stagione, cerca solo la vittima sacrificale da regolare in finale.
È una guerra tra secondi e camuffarla da qualcos’altro fa un pò piccolo borgo, per usare un’espressione a noi tanto cara.

Il punto è: Milano si è inserita in questo gruppuscolo di inseguitori?
Perché fino a oggi, tra tifosi e addetti ai lavori, c’era chi sosteneva che non ne facessimo parte. Chi invece che ci stessimo in pectore, in nome di non si sa cosa, forse del Progetto con la P maiuscola.
E io, che preferisco sempre la sostanza alla forma, solo ora mi sento di metterlo nero su bianco.
Tante volte ci siamo avvicinati, abbiamo succhiato la ruota, per poi perderci in prestazioni sconfortanti, errori banali di gestione (turnover) e inspiegabili cali di concentrazione.
Ora penso davvero che questo gruppo faccia parte di quelle tre-quattro squadre che stanno lì, che possono battagliare tra di loro ad armi pari.
Sia chiaro: non sto a dire che la squadra è brillante, che srotola sul parquet un gioco fluido e intrigante.
I limiti sono quelli che sono, ma come ho già avuto modo di dire più volte, personalmente li ritengo strutturali e non eliminabili.
Sono il rovescio della medaglia. Contro Teramo giochiamo una partita gagliarda, di cuore, venendo a capo di un’avversaria che – sono certo – ci avrebbe potuto mettere in crisi nera solo poche settimane fa.
Invece ci siamo adeguati, abbiamo lavorato bene per uscire dalle secche iniziali anche con la gestione delle rotazioni, abbiamo spinto il contropiede di Hawkins al momento giusto, sopperito alla partita travestita di Vitali (solite triple importanti, freddezza in lunetta, qualche palla illuminante all’interno di una regia confusionaria e di una difesa improponibile).
Ci siamo riusciti grazie all’ottima serata nel tiro da tre punti, il miglior amico di Bucchi, e grazie a un apporto incisivo e sostanzioso del trio Katelynas- Rocca-Taylor, ognuno dei quali ha fatto vedere cose pregevoli.
Mason, pur indisposto, con il solito lavoro nel pitturato, fatto di lavoro sporco, rimbalzi e canestri chirurgici. Minda giocando una partita elettrica, tutta sostanza, dimostrando di essere molto cresciuto nel corso della stagione. Mo facendoci lustrare gli occhi con quei movimenti straordinari, con una facilità di tiro che appartiene, di fatto, a un altro basket.
Il tutto, naturalmente, a scapito di un Pape Sow orrendamente involuto, del tutto incapace di trovare una sua dimensione e di affinare un feeling con i compagni che dovrebbe essere ormai, se non consistente, almeno esistente.
Sow sembra l’elemento arrivato ad aprile, l'innesto per il rush finale del Campionato in vista Playoff.
E come dice Bucchi in conferenza stampa, è il momento di tenerne conto, perché il campo è giudice e le scelte seguono solo il trend del risultato.
Personalmente ne ho grande rammarico, perché il ragazzo ha potenziale. E perché vorrei vederlo fare ciò che poco tempo fa, non secoli, aveva lasciato intravedere con diverse prestazioni più che discrete.

Il rush finale certificherà la nostra appartenenza al gruppo inseguitori.
Il calendario finisce in salita, uno strappo tosto, ed è certamente un gran bene. Per arrivare alla post season belli rodati; perché è sulle grandi salite che si dimostra di che pasta siamo fatti, è sulle montagne leggendarie che nascono i grandi miti e le storie da raccontare.
Per il momento, lottando solo per il secondo posto. Ma in presenza del cannibale Merckx, il secondo faceva pur parte di una grande èlite.
In attesa che il futuro, il lavoro, l’impegno e la progettualità ci regalino lo spazio per giocarci anche la vittoria.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

LA LEGGE DEL SEI

Post n°159 pubblicato il 30 Marzo 2009 da JayVincent


Quando ancora ero un pimpante liceale, con la voglia di studiare regolarmente in secondo piano rispetto a quella di divertirmi, mettevo sempre alle corde mamy e papy con quella che amavo definire la ‘legge del sei’ (o in casi eccezionali, anche del 6 e mezzo).
I miei genitori, due prodigi di apertura mentale e capacità di responsabilizzare l’adolescente che fui, sospettavano che il mio impegno scolastico, a tratti, non fosse esattamente un manifesto di stakanovismo.
E avrebbero anche ritenuto opportuno richiamarmi a una maggiore dedizione.
Più pagine di letteratura che di Superbasket, più numeri matematici che telefonici, più uscite culturali che notturne.
Ma ecco che, nel momento in cui diveniva indispensabile dubitare della mia integrità, arrivavo a casa con un (modestissimo) sei.
O addirittura, con un sei e mezzo.
E quindi? E quindi se il risultato è sufficiente, o più che sufficiente, c’è poco da brontolare.
Posso dare di più? Se posso prendere 6 e mezzo posso tranquillamente arrivare al 7?
Di certo: ma la mia vita personale, la giovinezza, il piacere della scoperta, la libertà, l'assecondarmi e bla bla bla.
Mezzo punto in più vale l’amputazione di una parte del mio meraviglioso mondo di sognatore?
Suvvia.
E nei casi estremi, un bell’otto in quelle materie a me predilette, ma rigorosamente di secondo piano, per dimostrare che le potenzialità ci sono tutte. E, prometto, la prossima volta le applicherò a tappeto.


Questa Olimpia sembra me da ragazzino.
Gioca maluccio. Costruisce poco. Non è equilibrata. Si accontenta. Non pensa.
Ma porta a casa i due punti. E lo fa ormai da un po’.
E quindi puoi scrivere un articolo di critica? Puoi arrabbiarti? No, non puoi.
Però puoi notare che il risultato è di certo massimo, ma lo sforzo è altrettanto sicuramente quello minimo.
Rieti e Udine rappresentavano un banco di prova importante, in termini di continuità e in nome di quella tendenza all’andare fuori giri contro avversari brutti e cattivi.
Rientriamo a casa con due vittorie sofferte, che hanno messo in mostra limiti strutturali e di approccio.
Ma che, rovescio della medaglia, ci consegnano una squadra più cinica, concreta, in grado di tirarsi fuori autonomamente dai pasticci che crea.
Le carenze strutturali ormai non possono essere che evidenti, ma forse è il momento (e lo è da un pezzo) che queste carenze vengano definite caratteristiche peculiari.

Il vivere o morire con il tiro da 3 punti appare in parte inevitabile, vista la tipologia di giocatori su cui si è costruito il roster; è una scelta chiara e come tale deve essere vissuta come un plus. Chi assembla un gruppo di tiratori, lo fa pensando di fare un affare, non di creare un mostro acefalo.
Le ultime due partite raccontano di una squadra che ha tirato 59 volte da due e 59 volte da tre punti: parità, alla faccia del bilanciamento.
E il riscontro numerico è almeno interessante. Abbiamo tirato da lontano con il 37%: per una squadra costruita con l'intento di fare male con quel fondamentale, non è un risultato brillante.
Diciamo da 6.
Per contro, da due punti abbiamo tirato con il 56%, che non è un dato strabiliante ma è più che discreto per chi non ha a roster straordinari atleti (fatto salvo David Hawkins), eccellenti penetratori (ancora David Hawkins santo subito) e gente capace di costruire un gioco solido nel pitturato.
Quindi, come interpretare questo dato? Intanto, con il dire che il pick and roll Vitali-Rocca ha fatto sfracelli. Poi col sottolineare che Hall pare essere più disposto a non piantare le tende dietro l’arco.
E ancora, con il rivelare che Sow, se teleguidato e portato per mano, può recapitare la palla con una certa coerenza. Peccato faccia una grande fatica a capire e capirsi.
Se Mason riesce finalmente a trovare l’abbrivio per un finale di stagione sprint, abbiamo un coniglio nel cilindro. E a tal proposito, sarebbe interessante riuscire a cavalcare con più consistenza il nostro Papa nero, non sostenendolo con l'emarginazione nella sua incredibile capacità autolesionistica di andare in black out totale.
Quando poi potremo finalmente calare anche l’asso Mo, ci potrebbe persino essere da sorridere.
Che poi, io, questo Taylor bug mica lo capisco più di tanto.
Che arrivò in condizioni fisiche pessime non ci sono dubbi, che ancora sia lontano dal fare le onde anche, però parliamo dello stesso bipede che l’11 febbraio, quindi 47 giorni fa, fece intravedere 10 minuti di cose tecnicamente apprezzabili in quel di Vitoria.
E che il 5 marzo, al Palazzo della Pace e dell’Amicizia, giocò 20 minuti interessanti contro l’Olimpiacos tutto tonnellaggio dei Boroussis, Vujcic & Co.
Siamo al passo del gambero? Il ragazzo di Calabria preferisce barricarsi da McDonald’s piuttosto che in palestra? Non ho le risposte, ma forse si potrebbe osare un pochino di più.
Magari, anche timbrando una prestazione da semplice 6, lo scolaro Maurice può darci delle gioie.

 
Condividi e segnala Condividi e segnala - permalink - Segnala abuso
 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963