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La pentolaccia
Post n°305 pubblicato il 04 Marzo 2020 da pasquale.zolla
La pentolaccia, festicciola della seconda domenica di Quaresima, ai tempi della mia fanciullezza avveniva tra le mura domestiche dove si ballava con un giradischi, su cui dischi di vinile facevano sentire suoni di tanghi, mazurche, polghe e valzer, incorporati ad una radio, prima di rompere la pignata, colma di noci, fichi secchi, fave e lupini. Era una tradizione molto sentita a Lucera e lo è tutt’oggi soprattutto da chi, come me, è avanti negli anni. Tra l’altro molti miei ricordi sono legati al cortile di Santa Caterina dove il nostro amato Servo di Dio Padre Angelo Cuomo in detta ricorrenza faceva trovare delle pentole di terracotta appese ad un filo con dentro segatura e caramelle. Un ricordo a me tanto caro perché la prima volta che vi partecipai c’erano un centinaio di ragazzi e, nel vedere quelle poche caramelle cadere ad ogni pignata rotta, pensai ad un miracolo perché per terra alla fine c’erano caramelle molto più che sufficienti per tutti. Noi ragazzi, a turno, venivamo bendati e armati di bastone e su indicazione dei presenti e di Padre Angelo che gridavano: Acqua, fuocherello, fuoco, ad indicare la distanza e la vicinanza della pignata da colpire, menavamo colpi a casaccio e a volte colpivamo l’amato Servo di Dio (per me Santo anche da vivo!) che si avvicinava a noi per invogliarci ad essere più accorti nel maneggiare il bastone per colpire le pignate. Oggi tale gioco lo si usa nelle feste dei compleanni dei bambini per rendere più movimentata e divertente la festa del bimbo festeggiato, perché per i bimbi vedere rotta una pignata colma di cioccolate e caramelle significa tuffarsi per terra per accaparrarsi la maggior quantità possibile. Ma com’è nata tale festa? Per alcuni affondano nella storia della scoperta dell’America: si narra che, all’inizio del XVI secolo, i missionari spagnoli arrivati colà, utilizzarono la pignata per attirare i nativi alle loro cerimonie. Sembra, invece, che gli indigeni avessero già una tradizione simile per celebrare il compleanno della divinità della guerra. Infatti alla fine dell’anno i sacerdoti aztechi collocavano nel tempio un recipiente di argilla adornato di piume colorate e pieno di piccoli tesori. Quando la pignata veniva rotta i tesori in essa contenuti cadevano ai piedi degli dei. I Maya, invece, usavano praticare un gioco molto simile a quello della mia infanzia: i partecipanti al gioco, con gli occhi bendati, dovevano colpire un recipiente di argilla sospeso con una corda. Furono, comunque, i missionari a trasformare questo gioco dandogli un significato religioso: il recipiemte di argilla decorato rappresentava Satana che doveva essere distrutto. La pignata, che aveva sette coni, rappresentava i sette vizi capitali, ed era riempita di dolci e frutta che rappresentavano le tentazioni di abbondanza e i piaceri terreni. Il partecipante bendato, invece, rappresentava la fede che, seppur cieca, vince il male e il bastone utilizzato per romperla simboleggiava la virtù. Con il gioco della pignata la gente che vi partecipava era costretta ad alzare lo sguardo verso il cielo per vederla colpita, mentre era sospesa da una corda, aspettando il premio di ciò che in essa era contenuto. Una volta sotto il recipiente, le caramelle e la frutta che cadevano giù rappresentavano la giusta ricompensa per la fede mantenuta. La festa della pignata venne introdotta in Europa nel XIV secolo e venne adattata alle celebrazioni della Quaresima.
Nu rè me facéve assemeghjà È timbe de kuanne krjature éve tuttekuande bèlle éve. Avastave ascì fóre d’a kase è i kumbagne ngundrà pe ce se sènde chjìne chjìne de prjèzze, appure si è pite skarpe ne nge stèvene. I festecciòle, kume Natale, Paskule è u fèrrauste, addedekate a ‘Ssunde ngile Patròne de Lucére, èvene majestòse è da sfunne facèvene ò kambà de tutte i jurne. Tra kuèste, appèrò, vune ce ne stéve, ‘a pegnate, dinda kuje nuje uaghjune tuttekuande èmme prutaguniste è pubbleke dind’u kurtighje de Sanda Katarine, grazje a Patrè À, ògge Sèrve de Dìje. Angòre mò, chjù ka uttandènne, kuèlla festecciòle éje akkussì chjéne de vite nda mè da sènde i lukkule: akkue, fukarille, fuke ka me facèvene rutjà u vastòne pe kòghje ‘a pegnate ka dinde tenéve sckitte sekature è kakkè karamèlle. Éve ‘na prjèzze sènza kumbine kuanne kughjéve u berzaghje pekkè sènde me facéve d’èsse kakkèvune ò kakkòse ka, ‘mméce, nenn’éve. A nu rè sènza kròne assemeghjà me facéve pekkè tutte i uaghjune atturne a mè pe ndèrre se jettavene akkume p’addengrazjarme, ‘mméce éve pe peghjà kakkè karamèlle. Un re mi faceva sembrare Ai tempi della mia fanciullezza ogni cosa era bella. Bastava uscire di casa e i compagni incontrare per sentirsi colmi di felicità, anche se ai piedi mancavano le scarpe. Le feste, come Natale, Pasqua e il ferragosto, dedicato all’Assunta in cielo Patrona di Lucera, erano solenni e da sfondo facevano alla vita quotidiana. Tra queste, però, ce n’era una, la pentolaccia, in cui noi ragazzi eravamo tutti protagonisti e spettatori nel cortile di Santa Caterina, grazie a Padre Angelo, oggi Servo di Dio. Ancora adesso, più che ottantenne, quella festa è così vivida in me da sentire le urla: acqua, focherello, fuoco che mi facevano roteare il bastone per colpire la pentolaccia che conteneva solo segatura e qualche caramella. Era una gioia sconfinata quando colpivo il bersaglio perché sentire mi faceva d’essere qualcuno o qualcosa che, invece, non si era. Ad un re senza corona mi faceva sembrare perché tutti i ragazzi a me d’intorno per terra si buttavano come per ringraziarmi, invece era per prendere qualche caramella.
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