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la malattia dell'occidente

Post n°21 pubblicato il 08 Novembre 2009 da m_de_pasquale
 

Se uno dicesse che si è recato sulla spiaggia, si è seduto sulla sabbia ed ha cominciato a guardare il mare; poi, guardando il ritmo continuo delle piccole onde sulla battigia, considerava che nessuna onda è uguale a quella precedente e che la loro vita è brevissima (nascono dal niente e ritornano al niente); pensava ancora che pur essendo così effimera la vita delle onde ciò che vi è d’identico in loro (l’acqua) rimane, non perisce, anzi costituisce l’occasione del loro apparire e scomparire. Beh col nostro fare spiccio e pratico, potremmo pensare che un tipo del genere è abbastanza stupido perché al posto di usare l’acqua del mare per farsi un bagno o farsi un bel giro con un acquascooter, perde il suo tempo per qualcosa che non gli serve a niente. In effetti il pensiero che ci è abituale è quello che assegna un significato alle cose (agli enti) sulla scorta della categoria dell’utilità. Non più lo sguardo meravigliato sulle cose, ma la domanda solita: a che serve? Ci sfugge lo sguardo sulla totalità, mentre ci si concentra sulle parti nella misura in cui possiamo servircene: “La foresta è legname, la montagna è cava di pietra, la corrente è forza d’acqua, il vento è vento in poppa” (Heidegger). La categoria di utilità determina il senso di tutto. Il passo, poi, verso l’appropriazione di ciò che è utile (il senso della proprietà!) ed il mezzo attraverso cui ci appropriamo delle cose, cioè il denaro, è breve: il senso ultimo di tutte le cose è nel denaro. Una malattia è all’origine di tutto ciò. Scrive Severino: “Si comincia a scoprire la malattia mortale. Ma chi se ne preoccupa? L’Occidente è una nave che affonda, dove tutti ignorano la falla e lavorano assiduamente per rendere sempre più comoda la navigazione, e dove, quindi, non si vuol discutere che di problemi immediati, e si riconosce un senso ai problemi solo se già si intravedono le specifiche tecniche risolutorie. Ma la vera salute non sopraggiunge forse perché si è capaci di scoprire la vera malattia?”. Questa malattia è l’oblio dell’essere: si distoglie lo sguardo dalla condizione (l’essere) che fa essere le cose (gli enti), per concentrarsi su di esse, riducendole ad oggetti per un soggetto (l’uomo) pronto così a dominarle: inizio della storia del progressivo controllo del mondo da parte dell’uomo grazie agli strumenti che si è dato (la scienza e la tecnica); inizio dell’esercizio della volontà di potenza. Se solo gli enti esistono, l’essere viene considerato come un nulla, un niente: in questa logica è insito l’esito nichilista. Ma se l’essere si annuncia in occasione della manifestazione dell’ente [la sua presenza non esaurendosi nell’ente, instaura un rapporto di trascendenza immanente: è sempre aperto un pensiero che va oltre = metafisica], c’è la possibilità di tornare dal solitamente pensato (ente) al solitamente impensato (essere)? Dove trovare oggi le tracce dell’essere? Per Jaspers c’è stato un periodo nella storia del pensiero occidentale ed orientale (attorno al VI secolo a.C.) in cui il pensiero si è collocato oltre gli enti nell’ascolto problematico del messaggio dell’essere, la cui parola si coglie nell’annuncio del mito oltre la logica codificata dalla ragione. Anassimandro e Lao Tzu appartengono al periodo assiale, così come vi appartengono Eraclito e Parmenide. Questi due filosofi sono stati considerati, dalla tradizione, antagonisti: Eraclito il filosofo del divenire e Parmenide quello dell’essere, movimento contro stabilità. In realtà, sostiene Jaspers, ambedue “pensano in modo diverso ciò che è sempre. L’uno [Parmenide] pensa l’essere nell’identità logica e nella tranquillità trascendente di una perfezione senza cambiamento, l’altro [Eraclito] nella dialettica logica e nella tranquillità trascendente del nòmos immutabile. L’uno coglie il senso dell’essere nell’unità in cui si annienta la contraddizione, l’altro nella contraddizione che si cancella in virtù dell’unità dei contrari.” All’essere di Parmenide corrisponde il lògos di Eraclito: e se il primo pone l’attenzione sulla positività [l’essere è], il secondo sul fatto che senza il negativo non ci sarebbe il positivo [l’unità dei contrari]. Il tutto (= il logos eracliteo e l’essere parmenideo) fa essere le parti (= la molteplicità che si disvela dall'uno) le quali conservano la loro verità se non cadono nella tentazione dell’isolamento (= mantengono l’apertura verso ciò che ha consentito loro di essere), cioè se viene mantenuta quella condizione di trascendenza immanente. Eraclito pensa che una cosa possa definirsi solo nell’opposizione ad un’altra (il giorno è tale in contrapposizione alla notte): “Polemos è padre di tutte le cose, di tutte re”; ma questa opposizione non si risolve nell’annientamento di una cosa a scapito dell’altra: “congiungimenti sono intero e non intero, concorde discorde, armonico disarmonico, e da tutte le cose l’uno e dall’uno tutte le cose. Non comprendono come, pur discordando in se stesso, è concorde: armonia contrastante, come quella dell’arco e della lira. Una e la stessa è la via all’in su e la via all’in giù”; il lògos è, appunto, questa armonia invisibile che accoglie l’unità degli opposti “l’opposto concorde e dai discordi bellissima armonia”. Parmenide concependo l’essere come un intero [“tutt’intero, unico, immobile e senza fine”] ritiene che esso sia quell’unità che ospita la molteplicità; ma purtroppo gli uomini non sanno andare oltre l’apparenza nonostante il consiglio accorato del filosofo [“Ma tu da questa via di ricerca allontana il pensiero / né l’abitudine nata dalle molteplici esperienze ti costringa lungo questa via, / a usar l’occhio che non vede e l’udito che rimbomba di suoni illusori / e la lingua, …”] per cogliere che la verità è nell’unità che comprende tutto. Solo percorrendo la via dell’essere (secondo Parmenide) o guardando l’armonia invisibile (secondo Eraclito) possiamo cogliere la verità, ovvero l’unità del molteplice. Quindi quando il nostro sguardo è dominato dall’apparenza (doxa) ci disperdiamo nella molteplicità, nel pensiero delle parti dimenticando il tutto (cioè l’essere) condizione del loro manifestarsi; e così le parti ( = gli enti) diventano oggetti a disposizione della nostra volontà di potenza, inaugurando, così, la malattia dell’Occidente. Il metodo di guarigione è chiaro.

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