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mysterium tremendum et fascinans

Post n°25 pubblicato il 18 Novembre 2009 da m_de_pasquale
 

Talvolta accade, durante le lezioni, che gli studenti sollecitino una mia posizione sulla religione: siete credente o ateo? Mentre sul ruolo politico della Chiesa (di buona parte dei vertici di essa e di quegli integralisti che ne fanno parte) manifesto sempre la mia posizione molto critica, sul fatto se sia credente o meno – devo dire la verità – non mi appassiono molto perché si tenta di ingabbiare, semplicisticamente, la questione del sacro nella scelta per uno schieramento o il suo opposto. Ho usato di proposito il termine sacro e non religione ed affini, perché è questa l’esperienza originaria fatta dall’uomo; in effetti il sacro “non implica necessariamente la credenza in Dio, negli dèi o negli spiriti, ma si riferisce a quella esperienza connessa all’idea di essere, significato e verità” (Eliade). Dio si inserisce con ritardo in questa esperienza originaria del sacro. Afferma Galimberti: “Sacro è parola indoeuropea che significa ‘separato’. La sacralità, quindi, non è una condizione spirituale o morale, ma una qualità che inerisce a ciò che ha relazione e contatto con potenze che l’uomo, non potendo dominare, avverte come superiori a sé, e come tali attribuibili a una dimensione, in seguito denominata ‘divina’, pensata dunque come ‘separata’ e ‘altra’ rispetto al mondo umano”. Cosa sono queste potenze che l’uomo avverte come superiori a sé e che poi acquisiranno una dimensione divina? Potrebbero essere gli istinti, le pulsioni subite, patite (di qui il termine passione) dall’io razionale il quale non riesce a collocarle nel suo ordine e perciò legge come 'altro da sé'? Sentite come ‘altro da sè’, è facile che diventino delle proiezioni antropomorfiche dando origine agli dèi? Se così è, il sacro ha a che fare con quello che la psicanalisi chiama il ‘profondo’ (inconscio), con quella follia che ci abita, non la follia intesa come il contrario della ragione, ma la follia originaria, quella che precede ogni distinzione tra la ragione e il suo opposto. Il sacro ha a che fare con quel fondo pre-umano, indifferenziato: “… nelle religioni primitive il sacro è il luogo dove si manifesta la cieca violenza, la sessualità selvaggia, l’entusiasmo fuori misura, il dolore sordo e cieco … al sacro appartengono tutti quei simboli della natura per quel tanto che è estranea alla cultura  (istinti, pulsioni, eccessi…)… vi appartengono i mostri, i morti, i demoni…. Il sacro coincide col nucleo di follia che ognuno di noi avverte dentro di sé come non culturalizzabile, non interpretabile… tutto ciò che sfugge alla logica della ragione…” (Galimberti). Se di fronte al numinoso – come afferma Otto – proviamo non solo attrazione (fascinans), ma anche paura (tremendum), tendiamo a tenerci lontano da ciò che ci inquieta. Sembra che ‘religione’ provenga da relegare (recingere): si perimetra l’area del sacro (che ha il suo personale – i sacerdoti -, il suo spazio – il tempio -, i suoi tempi diversi dai tempi profani) in modo da garantire la separazione e regolarne il contatto con gli uomini. Pertanto il sacro ha a che fare con un gioco ambivalente: tenere a distanza per regolare l’accesso. La logica della separazione obbedisce ad una esigenza di difesa: se una cosa è oggettivata, allontanata, può essere controllata. Ma essa è anche distinta da me. Il male viene separato dal bene. Ciò che è separato diventa il male (dal greco dia-ballein = separare): la parola diavolo vi ha familiarità. La distinzione viene ulteriormente accentuata grazie alla relazione di causalità. Se è vero quello che sostiene Nietzsche [“Ricondurre qualcosa di non conosciuto a qualcosa di noto solleva, calma, soddisfa, dà inoltre un senso di potenza … L’impulso di causalità è condizionato e stimolato dal sentimento di paura”], individuando in Dio la causa prima (origine dell’uomo e delle cose), confermiamo la bontà della nostra natura essendo Dio il “Sommo Bene” [per Platone to agathon”] , e quindi marchiamo ulteriormente la distanza dal ‘male’, dalla dimensione inquietante. Ma conoscere la causa significa anche possibilità di previsione (come ben sa la scienza) e quindi controllo del futuro, vittoria sull’ignoto. Quindi il sacro ha familiarità con quella dimensione che ci appartiene (e che, sentendola minacciosa, ci farebbe comodo pensarla come separata da noi), dimensione della confusione totale, dell’indifferenziato, della follia, del simbolico (sym-ballein = comporre) dove c’è “questo e anche l’altro”, dove c’è – a voler usare una terminologia che è solo successiva alla operazione della ragione – il bene e il male insieme, la gioia e il dolore insieme, la vita e la morte insieme. L’esistenza umana non deve accostarsi troppo al sacro per non esserne dissolta, ma non deve neppure troppo allontanarsene per non perdere gli effetti della sua presenza fecondante “perché – scrive Jung l’inconscio è la matrix dello spirito umano e delle sue creazioni ed è spesso impossibile dire che cosa è spirito e che cosa è pulsione. L’uno e l’altra sono un impasto insondabile, un vero magma che emerge dalle profondità remotissime del caos originario”. Se il sacro ha a che fare con quel fondo pre-umano che ci abita, quel fondo incomprensibile  allo sguardo della ragione che opera in termini di differenze, separazioni, distinzioni, ma accessibile solo al linguaggio indifferenziato (una cosa è questa ed anche l’altra) dei simboli che alimenta mitologie, fantasie, allucinazioni, se il sacro ha abitato questo mondo non costituisce anche per l’uomo contemporaneo una straordinaria opportunità della conoscenza del proprio "sé" profondo? A chi potrà rivolgersi l’uomo contemporaneo per gestire la sua follia se oggi le religioni, nate per tenere a bada il sacro, hanno abdicato alla loro funzione e sono diventate strumento di politica e di potere (si interessano dell’8 per mille, di prendere soldi per le scuole cattoliche, moraleggiano sulla sessualità, …)?

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