Creato da Psicologiaexpress il 16/03/2013
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Può essere il farmaco una terapia risolutiva nella gestione del dolore?

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La  vita e’ tutto quello  che succede mentre stai facendo

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JOHN LENNON, Beautiful BOY

 

 

E cosi, quando finalmente pensi di essere arrivata all’ultima rata del mutuo di casa e tuo figlio ha fatto l’interrogazione tanto temuta di storia  e vorresti urlare alla vicina di casa che ogni mattina palesa l’insostenibile leggerezza del suo essere obbligandoti all’ascolto delle sue musiche preferite,  può accadere  che un evento inaspettato e di certo non desiderato,” il cancro” interrompa  i tuoi programmi e gli affanni, e di colpo non sai più cosa davvero e’ importante delle cose che fino ad un attimo prima sembravano essere irrinunciabili per la tua sopravvivenza!

 

 Nonostante siano avanzatissimi i progressi della medicina, e nonostante alla parola tumore non sia sempre associato un esito infausto, e’ sempre drammatico e destabilizzante il momento in cui si viene a conoscenza della diagnosi: e’ uno di quei momenti che delimitano e sanciscono un prima e un dopo nella vita.

L’incontro con la malattia introduce un elemento di discontinuità, di rottura,di crisi della presenza del soggetto nel mondo.

Si avverte un forte spaesamento per tutto ciò che dovrà essere affrontato,per le conseguenze che dovranno essere assorbite e integrate nella propria vita.

All’improvviso tutto ciò che poteva avere valore prima della diagnosi,perde di significato e si è in un mondo estraneo, sconosciuto  che richiede nuovi codici di comportamento nuove consuetudini, nuove parole.

Il passaggio dalla situazione di persona in salute a quella di persona malata,causa dunque un diversa visione del mondo e delle cose che in esso si possono fare, e determina un sentimento di provvisorietà, di precarietà’ e per ciò di forte insicurezza.

La prima alterità con cui bisogna fare i conti è il proprio corpo,esso non funziona, non è in armonia,in sintonia con l’ essere il corpo che era stato fino al momento prima della diagnosi.

 

Lucia dopo che le è stata comunicata una diagnosi di cancro alla mammella, si ritrova impaurita e smarrita,arrabbiata ,per tutto ciò che le sta succedendo. Fino a prima della diagnosi era stata una bella donna in carriera che aveva dedicato gran parte della sua vita al lavoro. Era stata una persona attenta alle spese e che si era divertita con poco ,qualche viaggio buone letture, gite. Aveva sempre preferito essere previdente, un po’ formica.  Con l’avvento della malattia,il suo sistema di credenze improntato al dovere viene messo in crisi. Si ritrova a perseguire scelte che sembrano dettate dal piacere, ma in realtà ella si perde in uno shopping frenetico, che nasconde anche a se stessa il terrore del prossimo controllo.

 

Il seno e’ simbolo di femminilità,e quello che si ammala è un simbolo,e perciò si ammala anche una biografia,una storia personale.

Se dunque la malattia provoca spaesamento, vissuti di precarietà e di perdita di potere personale in relazione al proprio agire nel mondo, la medicina, il sapere medico, aiutano a ridurre la caduta, ma di certo non sono in grado di esaurire nell’ambito del proprio sapere che cosa significhi la malattia per quel soggetto, come essa si inscriva nel suo universo di credenze e di costruzioni simboliche.

Le cure mediche hanno fatto enormi progressi:le sopravvivenze si sono allungate sensibilmente insieme con le aspettative di vita libera dalla malattia.

 Ma per quanto riguarda i segni è necessario tornare a quell’immagine del corpo che ora è ferita, che rischia di essere infranta,perché ora i gesti dell’altro, i suoi sguardi rimandano a una immagine che non si sente più’ appartenere a se ma che appartiene al passato e nel quale non ci si riconosce.

 

 Inizia per Patrizia un periodo di grande angoscia,da quando le hanno diagnosticato un cancro all’utero, riferisce di guardare le altre donne per strada e di chiedersi se anche loro sanno cosa vuol dire sentirsi diverse, estranee anche a se stesse, sole.

Emerge una grande paura, un senso di solitudine,la difficoltà della ricerca delle parole giuste per parlare agli altri, che “non avendo provato, non sanno cosa vuol dire essere malati di cancro”.

Niente è più uguale a prima, la casa in campagna che voleva realizzare diventa un traguardo impossibile,il figlio che cresce un compito superiore alle proprie forze,il marito, con cui aveva avuto fino a prima della malattia un rapporto di forte complicità, diventa  un estraneo che non può capire. Il dolore si impadronisce del suo corpo giorno dopo giorno senza tregua nessuna terapia sembra “fare effetto”.

 

 

Un evento improvviso destabilizza un intero nucleo familiare, la sfida è per la “famiglia tutta” riuscire a recuperare un nuovo equilibrio, un nuova visione del mondo che rielabori  l’accaduto e lo integri all’interno del proprio percorso di vita.

 Accade  frequentemente infatti che  il “dolore di una lesione” assuma connotazioni esistenziali,  metta in crisi una identità soggettiva e si allarghi,  coinvolgendo un intero sistema di relazioni importanti per il soggetto divenendo il “dolore di una famiglia”.

 

Che dire poi del” carico emotivo”  dell’ operatore sanitario che assiste il malato?

 All’operatore infatti è richiesta la capacità di accogliere l’altro con tutte le sue angosce, senza per altro lasciarsi travolgere dal dolore. Nel caso di malati terminali, il contatto con la morte dell’altro costringe l’operatore a un continuo confronto con le proprie paure e le proprie angosce di morte e infrange la fantasia onnipotente di poter guarire l’altro, con un inevitabile conseguente senso di frustrazione che alimenta i vissuti di impotenza di  inutilità e di paura.

 Pertanto può accadere che di fronte al paziente oncologico,specialmente se in fin di vita, molti operatori si sentano sopraffatti dalle emozioni dei pazienti e dei loro familiari,si identifichino completamente nelle loro sofferenze e non possano fare a meno di” portarsi il paziente a casa” continuando a pensare a lui anche al di fuori del contesto lavorativo.

Al contrario può succedere di difendersi da questo eccessivo impegno emotivo creandosi una sorta di” corazza”  che protegga dal contatto con emozioni troppo dolorose.

 Entrambe queste modalità relazionali impediscono un reale contatto con l’altro e comportano gravi rischi sia per l’operatore che per il paziente.

 L’ invischia mento causa una usura emotiva per l’operatore che finisce con il non essere più’ in grado di aiutare  poiché  incapace di separare i propri bisogni  da quelli del suo paziente su cui finisce col proiettare le proprie paure.

 La  corazza ugualmente determina un distanziamento che inevitabilmente raffredda la relazione come un muro che non permette di lasciar passare le emozioni.

 Anche in questo caso l’operatore non può  accorgersi del paziente che ha davanti. E queste modalità relazionali sono solo due esempi di possibili  comportamenti di fuga dalla relazione  che possono essere messe in atto da medici e infermieri.

 L’ampliamento del concetto di salute  intesa non più come  “assenza di malattia” ma come ” uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale”(Organizzazione Mondiale della Sanità) obbliga a interventi centrati sulla persona nella sua globalità, ad una presa in carico che sia in grado di accogliere e soddisfare i bisogni fisici, psicologici, spirituali e sociali , attraverso un approccio  multidimensionale in cui le  diverse figure professionali (oncologi, medici, fisioterapisti, psicologi psichiatri, radioterapisti,volontari ),  possano integrarsi al fine di assicurare  un’assistenza  continua e coerente.

 Il compito della medicina pertanto non può esaurirsi nella cura della malattia, e la cura del dolore,   nel passaggio  dal curare la patologia al prendersi cura della persona malata e delle sue sofferenze, passa necessariamente attraverso la costruzione di una relazione d’aiuto con la persona malata.  Solo all’interno di  una relazione di aiuto l’operatore può davvero prendersi cura dell’altro e delle sue sofferenze.

La persona malata ha necessità di essere accolta  nella sua unicità’ di persona  per poi  affidarsi alle cure dell’operatore sanitario.  La cura del dolore, è perciò cura del dolore fisico, ma anche cura dell’anima,  degli atteggiamenti mentali, delle paure, delle  emozioni che accompagnano il duro viaggio della malattia.

 In conclusione e per rispondere all’interrogativo iniziale è evidente che nella” cura  del dolore”, una buona pratica terapeutica deve  tener conto delle  implicazioni psicologiche spesso correlate alla  malattia e che accompagnano il lungo viaggio che il paziente,la sua famiglia e l’operatore sanitario  devono affrontare insieme.  

  Ciò si traduce, da una parte, nel prestare attenzione e dare risposta ai vissuti emozionali del paziente  spesso espressi in un “grido di dolore” ma il cui  significato e’ di più della sola sofferenza fisica, e dall’altra nel  tener conto del carico emotivo dell’operatore  sanitario  che può  definirsi  altrettanto “ doloroso” soprattutto se, come sovente accade,  mancano le condizioni ideali di lavoro.

Sicché, può accadere che , nonostante l’altalena di ansia e di paura, la disperazione  per ciò che non si conosce ancora, la tristezza di ciò che si è perso per sempre, la rabbia per il danno subito,  il nuovo rapporto con la fine della vita, la sofferenza fisica , il difficile percorso verso l’accettazione, il sentire il proprio corpo che ti tradisce “ faccia cosi bene sentire di non essere lasciati da soli nel dolore” per cui e’ possibile  affidarsi alla cure di operatori sanitari ,competenti e professionali,  per  poi  riprendere in mano la propria esistenza e continuare la propria  strada tortuosa, con la fiducia che seppure non si possa guarire e’ pur vero che ci si possa curare.    

   E magari lungo il viaggio scoprire che ­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­­” per vivere con onore bisogna struggersi, turbarsi, battersi, sbagliare, ricominciare da capo e buttare via tutto e di nuovo ricominciare e lottare(…)” (Tolstoj).

 

  articolo a cura di  maria donata ancona

 

tratto da "La malattia senza il dolore"

dossier pratico di terapia antalgica

curato dalla fondazione ANT Italia ODO Brindisi

Miro devicienti

Sebastiano Argentiero

Carmelo Sconosciuto

 

 

 

 

 

 
 
 
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