FREUDCONTROFREUD?

UNA STORIA ANCORA TUTTA DA SCRIVERE

 

AREA PERSONALE

 

ARCHIVIO MESSAGGI

 
 << Aprile 2024 >> 
 
LuMaMeGiVeSaDo
 
1 2 3 4 5 6 7
8 9 10 11 12 13 14
15 16 17 18 19 20 21
22 23 24 25 26 27 28
29 30          
 
 

FACEBOOK

 
 
Citazioni nei Blog Amici: 12
 

CURATO AGITATO (4 RISATE)

>

Il nuovo curato della parrocchia era molto nervoso per la sua prima messa e quasi non riusciva a parlare. Domandò quindi all'arcivescovo come poteva fare per rilassarsi e questi gli suggerì di mettere alcune gocce di vodka nell'acqua della messa. Così fece. Si sentì così bene che avrebbe potuto fare la predica in mezzo ad una tempesta.Però quando tornò trovò la seguente lettera dell'arcivescovo:                                                                                                                                                        

"Caro Don Angelo, qualche appunto spicciolo: 1) Per la prossima volta, metta gocce di vodka nell'acqua e non gocce d'acqua nella vodka e non metta limone e zucchero sul bordo del calice. 2) La prossima volta sorseggi, invece di scolare. 3) La manica della tonaca non deve essere usata come tovagliolo. 4) L'altare non e' un mobile-bar e il messale non e' un sottobicchiere. 5) Ci sono 10 comandamenti e non 12.6. Ci sono 12 discepoli e non 10.7 e i vizi capitali non sono i peccati degli abitanti di Roma. 8) Non ci si riferisce alla croce come "quella grande T di legno". 9) Non ci si riferisce a Gesù Cristo e i suoi discepoli come "GC e la sua band". 10) Non ci si riferisce a Giuda come "quel figlio di puttana", e sua madre e suo padre non erano rispettivamente una zoccola e un ricchione. 11) Davide ha sconfitto Golia, non ha cercato di inchiappettarlo. 12) Non si riferisca a Giuda come al "fetentone". 13) Il Papa è sacro, non castrato, e non si usa chiamarlo “Il Padrino”. 14) Giuda ha venduto Gesù nel Sinedrio, non in un "localaccio malfamato" o nel bazar persiano. 15) E il prezzo erano 30 monete d'oro, non "30 sacchi".

 

>

16) Il  Padre, il Figlio e lo Spirito Santo non sono il Vecchio, Junior e il Fantasmino. 17) Quella "casetta" era il confessionale e non la toilette. La toilette dove ha orinato a metà messa in realtà era il confessionale... e non è bello bestemmiare perché non hanno messo lo sciacquone .18) L'iniziativa di chiamare il pubblico a battere le mani è stata lodevole, però ballare la macarena dopo aver fatto la selezione delle devote ed aver scelto la più giovane e poppona e poi, come se non bastasse, fare il trenino, mi sembra esagerato. 19) L'acqua santa serve per benedire e non per rinfrescarsi la nuca sudata. 20) Le Ostie vanno distribuite ai fedeli che si comunicano, non devono essere offerte come una specie di patatine e come antipastini e accompagnate dal vin santo. 21) Quello sulla croce, anche se con la barba assomiglia a Che Guevara, non era lui ma Nostro Signore Gesù Cristo. 22) Berlusconi è proprietario di Mediaset e del Governo italiano, ma non ancora il Boss della Chiesa Cattolica. 23) Cerchi di indossare le mutande e quando ha caldo eviti di rinfrescarsi tirando su la tonaca. 24) I peccatori quando muoiono vanno all'inferno, non “a farsi fottere”. 25) Ricordo ancora che la messa deve durare un'ora circa e non due tempi da 45 minuti e che quello che girava vestito di nero e' il sagrestano, non "quel cornuto dell'arbitro". 26) Quello che le stava seduto di fianco a lei ero io, il suo Arcivescovo, non "...una vecchia checca in gonna rossa" 27) La formula finale corretta e' "La Messa e' finita, andate in pace" e non "Va beh,basta che adesso ho mal di testa, andatevene tutti fuori dai coglioni".

Per il resto, mi pare andasse tutto bene.

L'Arcivescovo.

 

 

RACCONTAMI UNA STORIA...E L'ORSO INTENERITO...COMINCIO'...

Post n°41 pubblicato il 02 Gennaio 2013 da carmarry

http://digilander.libero.it/carmarry/Foto%20animali%20orsi%20(401%20x%20300).jpgGuardo sempre aldilà dei miei occhi

e così avviene - non soltanto a me- di non vedere.

Ma la mia forza è in questo sentirmi trapassato

dallo sguardo delle anime che incontro

compresa la mia irrequieta e persa

e non potere per questo mai mentire

nemmeno a me stesso.

Me lo dicevo una sera, affacciato al terrazzo

ed ero,come sempre,sincero:

nemmeno a partire son stato capace

di fare un'impresa...una cosa speciale...

...una di quelle da ricordare

col cuore in gola e gli occhi velati.

Non era autunno,né primavera.

Non era inverno quando partii.

Quanta poesia in queste stagioni:

le foglie gialle cullate dal vento

che stendono un letto sui viali del mondo,

le colorate primule d'arcobaleno,i glicini in fiore,

la pioggia che bagna gli adii degli amanti

o la neve che il mondo fa muto,

lo rende ovattato,di bianco vestito.

Ecco il palcoscenico giusto:

mentre in semicerchi di dolore

lui slarga le pupille e soffoca nell'aria,

arsa la gola...con solo lei, davanti ai suoi occhi...

lei...- l'altro suo cuore- grida per lui

e divide in sillabe acute di sangue

il suo stesso dolore

per quella partenza voluta, cercata

ma che ugualmente brucia

col pensiero la neve...

...e poi il silenzio.

Una promessa...

...un: "insieme per sempre"!

Macché...quando mai! Nulla di questo è accaduto

Era un tranquillo mattino d'estate

un giorno qualunque, un giorno banale

di Luglio inoltrato.

Tutto era pronto per la partenza

il bagaglio già fatto...

un vacanziere che torna in città!

Ma era diversa la cosa. Tu come me lo sapevi!

Avevo in tasca un progetto e nel cuore l'urgenza

a lettere di fuoco,su scritto:  "FUTURO PER NOI"!

L'avevamo fatto insieme..ricordi?

In un giorno qualunque in cui l'erba del prato

faceva l'amore come ogni mattino col vento del nord,

quello che d'inverno porta la neve!

La macchina aperta al soffio del vento

aspettavo giungessi per il saluto,

non disperato, non angosciato...

un triste saluto di breve commiato...

torna presto...ti aspetto, ti amo.

Giungesti, eri triste...tutto previsto...

...ma non il saluto...che mi tirò il fiato.

Non era quello che mi aspettavo...non si dice

all'Amore che parte:

"Mi raccomando stai attento!...Mi spiace"

Rimasi di sasso...

col cuore spezzato

Rimasi scioccato...

senza parole...

troppo ghiacciate per sciogliersi al sole.

Ma poi mi dissi:"E' l'emozione! E' disperata...

Non sa cosa dire! A volte...l'amore...!"

Ed eccomi qua,su questo terrazzo

a soffocare i singhiozzi di questo cuore incauto

con dentro l'angoscia di sentirmi sospeso

ad un filo,come tela di ragno

quanto lungo o quanto breve,non so,

ma che un altro ha filato per me

e che un altro può spezzare in ogni momento.

anche senza di me...

Eccomi qui senza lamento...

eccomi qui senza capire!

Non so cosa guardo: un fiore, un uccello?

Per me come sempre, nulla di tutto

è più oscuro di ciò ch'io posseggo!

Di ciò che è più mio!

Maledetta voglia di volare...

...forse verso cieli più limpidi e più puri...

...lontano da questi due mondi alla deriva:

 tu l'asfalto,io la radice!

Due mondi che non si guardano più

che non si danno più la mano:

senza pace!

Un rumore in strada mi distoglie!

Che strana la vita!

Ognuno crede spesso

d'essere solo di notte

a camminare per le strade del mondo.

E invece l'eco dei nostri passi

risveglia a caso la speranza

d'un impossibile ritorno

in chi lontano dalla casa dell'amore

ciecamente sta camminando e con la mente altrove

stava ciecamente consumando, a un passo dalla morte,

forse l'ultimo disperante suo peccato.

Crediamo spesso che si dissolva come nebbia

al sorgere del sole

quel sospiro inatteso, inconsistente

sorto per caso in un momento.

E invece anche quello la vita nel suo cuore raccoglie

e lo usa per rompere uno strano silenzio...

...come fosse una nuvola bianca di grazie

sull'agonia

di un bimbo irrasegnato.

Meglio che vada a letto.

Chiudere gli occhi al mondo

ora è tutto ciò che posso...

Il resto è anima....!

Riversa sul celeste

atlante dei miei sogni

è acqua di luce che dorme:

eco d'un volto che non so

o di cui sbaglio il nome...

d'un volto ignoto che voglio!

Insonne nostalgia tiene a guardia la mente

per vie d'anime o vento

di qualcuno che chiami

o la tua mano...

nuovo Amore ancora non nato...

...a farmi da me...salvo!

Ascolta questa voce

Che ormai fluttua nel vento

"Dio di misericordia

Vedrai sarai contento!"*

 

                 *Da una canzone di F. DeAndrè

 
 
 

INTERVALLO

Post n°39 pubblicato il 28 Novembre 2012 da carmarry

Mettiamola così: qui si parla di psiche dal punto di vista scientifico. Pensieri, sentimenti, azioni compiute da tutti noi, qualcuna compiuta solo da alcuni in quanto effetto di una patologia,ma siamo nella community di Libero...ricca di poeti e di poesie. Senza voler fare romanticismo o cantare l'amore,ho deciso,molto ben consigliato e spinto da una cara amica, di fare un Post particolare che chiamerò: "INTERVALLO". Non voglio definirla poesia perché non sono, non sono mai stato e mai sarò un poeta. Definiamolo e consideriamolo un "esempio" pratico di ciò che ho finora trasmesso solo in un'ottica scientifica che però, avrete notato, non ho mai trattato in quella maniera fredda e distaccata come solo la scienza sa essere...Ci sarà un motivo,no? Del resto già nel mio profilo,l'ultima frase della presentazione, un'idea di quest'anima ironica ma inquieta,la dà, giusto?                          

Una promessa: non lo faccio più! Da oggi riprendo il mio ruolo! Quindi...tranquilli!

 

 Scorrono i giorni...come gocce di uno spazio

che non dimentico, nei colori sbiaditi di un tempo

che forse non è stato mai...vero

ma intenso, sì!

Ed io che sto

- in tanti attimi di pace soffocata,

di sorrisi strappati alla vita,

di lacrime e rabbia ingoiate con forza,

di solitudini invocate,

e speranze nuove -

in mezzo a questa lucida follia,

a fare a pezzi un pensiero...

ancora mi chiedo se ho fatto la cosa giusta

anche se so già che non ho la risposta

ad una domanda mille e mille volte ripetuta.

Ritaglio bocconi da mandare giù masticando bene,

staccando morso a morso ogni ricordo,

ogni brivido,

ogni emozione congelata nel petto...

spurgo,piano piano,ogni veleno...

mi chiedo perché ho dentro tutto questo

a causa di ciò che ho sempre rinnegato,

talvolta persino irriso negli altri...

...finché ho ripensato a quegli occhi,

a quella luce,che senza ragione,

senza splendori di bellezza abbacinante,

senza preavviso,

senza motivo,

un giorno mi esplose nella mente

ad uno sguardo...

...accendendomi fuochi dentro!

 

E ancora ho sentito sciogliersi i miei ghiacciai...

dentro il profumo del ricordo di un abbraccio,

come tanti, ma diverso,

in quel calore che per troppo tempo ho rifiutato.

Finalmente ma lontano...in un'altra vita...

...ricordo...ho amato!

E in te amo sempre

l'avventura della nave che non c'è

amo in te

l'audacia che non hai,

amo in te le cose lontane

che non mi appartengono,

amo in te ciò che è l'impossibile per te.

Sono tante volte entrato con la mente

nei tuoi occhi, come in un bosco

pieno di sole

e ancora ora da lontano ci riprovo...

e sudato, affamato, infuriato

ho intatta la passione del cacciatore

per mordere nella tua carne

e renderla mia

e aspettare che tu (la tua parte animale

che è in ognuno di noi)

mi morda, mi strappi,mi graffi...

Se non mi violenti non sarò mai completo!

Ma tu...no...non puoi...Alla tua naturalità

hai rinunciato tanto tempo fa,lo so!

E dunque so che, alla fine, amo in te l'impossibile

e non posso chiederti la disperazione.

Non saper esistere per te

è il tuo solo difetto. Ma non è cosa da poco!

Se tu mi fossi accanto

adesso, evocata,

ti chiederei perché.

Ti chiederei perché

invece di essere

nell'oggi,nel domani

nel dopo...

sei tu -ora-

cristallizzata...

favola di un giorno passato

che in un altro giorno si ripete

se si può...

ma sempre favola è...

e per un giorno solo.

Sarei già da prima altrove

se non avessi sperato in te

e - senza speranza-

non sperassi ancora

nel fatto che non sei un recipiente

di solo amore,

tu che continuavi a dirmi

che verrà domani

ma...forse...chissà...vedremo...

...lo sai come sono...i miei timori...

e non capivi che per me

- investigatore della mente-

era già tutto chiaro

e il domani era già passato...finito!

Tu non lo sai

ma quando amavi

regalavi brividi alla terra che calpestavo.

E così, dunque

non ti regalo le mie inutili parole,

non ti regalo i miei silenzi,

quelli dove impari la vita cos'è e com'è,

quegli attimi di infinito tempo

fatti di cose da capire

attimi che non puoi scrivere

ma che puoi ricordare...e ricordare.

Sarebbe un regalo inutile perché

tu avrai purtroppo sempre il filo

della ragione e della paura che ti

taglierà in due.

Però -allora- da queste profonde

ferite -ricordi?- sono uscite

"farfalle libere"(*). Noi!

Ma ha vita breve la farfalla:

da una settimana ad un giorno.

Delle due -in un giorno- una è morta...Io!

Non importa: ha trovato il suo fiore preferito.

Lui l'ha accolta e le ha dato

l'abbraccio amoroso dei suoi petali,

il suo nettare profumato e dolce.

E' morta tra profumi e miele.

Sazia  -ma non certo appagata né felice- ha dischiuso

all'ultimo sole,le ali...

e s'è addormentata per sempre...serena.

Ha capito presto che il suo tempo era giunto alla fine!

L'altra -tu- lo cerca ancora il suo fiore:

dimentica che lo aveva già trovato

e lo ha smarrito e allora continua:

questo no,questo forse,vediamo l'altro.

Vola inquieta, senza sosta,

ubriaca -nella ricerca-  di falsa libertà!...

Domani...si domani il mio fiore lo ritrovo...

Non sa contare una farfalla...

e lei non lo sa che domani

la sua settimana finisce...

...è il suo ultimo giorno!

E mentre penso a questo,

ai confini del silenzio,

dall'esterno lontano

mi arrivano grida,

appena percettibili

ma allegre, di bimbi...

che mi distolgono da questo riflettere

ricordare...

Mi volto,mi guardo intorno:

sul tavolo apparecchiato...

non due né quattro, ma

un piatto solo!

Mi stanno a guardia

- sentinelle mute-

le spalliere

di quattro sedie vuote.

Il camino consuma i suoi tocchi

in pigre lingue di fuoco.

Non s'appannano i vetri alla finestra!

E' tanto freddo dentro...

Come fuori!

  (*) "farfalle libere": espressione tratta da una poesia di Alda Merini  (di cui non ricordo il titolo e non ho voglia di andarlo a cercare)

 

 

 

 
 
 

L'IDIOZIA DELLA GUERRA

Post n°38 pubblicato il 06 Novembre 2012 da carmarry

La guerra la fanno i ricchi...Quando i ricchi si fanno guerra tra loro, sono i poveri a morire.(J.P. Sartre)

Che brutto affare la guerra! Ormai le immagini televisive ci hanno resi quasi indifferenti di fronte a scene e foto che fino a nemmeno un decennio fa erano ancora capaci di scuotere le coscienze. Ma viverla dal di dentro è tutt'altra cosa perché lì oltre alle immagini (spesso appunto, foto che fermano un momento), partecipi al "divenire" degli eventi, leggi la paura,vivi il terrore, l'odio negli occhi dei combattenti, senti il rumore delle armi e il fetore della morte, del sangue e degli escrementi (pochi hanno chiaro il concetto che quando un uomo muore di morte violenta, si svuotano subito gli intestini e la vescica per il prolasso improvviso degli sfinteri) senti i lamenti, le urla, gli strepiti, il crepitare delle automatiche che danno e ricevono morte. Vedi, noti e scopri subito tra i belligeranti, i professionisti della guerra. Quelli che sono senza patria, lì, prezzolati ed addestrati a portare morte per mestiere, per denaro e questo rende ancora più triste il tutto. Pensavo che tra le tante domande che, per esigenza di copione televisivo, non vengono mai poste, ce n'è una semplicissima: com'è possibile? Com'è possibile che uomini "civili" accettino di fare altrove cose che mai si sognerebbero di fare in casa propria, come uccidere, seviziare e reprimere? Più di 40 anni fa, lo psicologo sociale americano Stanley Milgram, apostolo di Adler, riformulò a questo proposito una celebre ipotesi esplicativa del maestro, suffragata da un altrettanto celebre esperimento. Una cosa molto interessante, davvero! Egli mostrò, al di là da ogni ragionevole dubbio, che data un'autorità riconosciuta come legittima, una forte pressione conformistica ed una qualche blanda giustificazione ideologica, qualche volta solo il dio "denaro", un qualsiasi onesto cittadino può trasformarsi in scrupoloso esecutore di ordini spietati. Con buona pace dei sostenitori dell'unicità della Shoah - che significava, di fatto, la sua irripetibilità -  Milgram (come, per altre strade, la Arendt della "Banalità del male") dissolveva così la consolante ipotesi dell'uomo o del popolo mostro per natura. Ma quando mai!!! Per l'orrore, i baffetti di Hitler e l'antisemitismo non sono affatto indispensabili! La differenza tra il perseguitato ed il persecutore è solo una differenza di posizione nella scacchiera della gerarchia burocratica. A decidere sono piuttosto le regole oggettive del gioco. La logica del potere si rivela insomma più forte di ogni etica umana e trascina anche quelli che in cuor loro, se fossero soli, mai ricorrerebbero alla violenza. In fondo è questa la logica che crea "il branco" nelle nostre città. Ma torniamo all'esperimento di Milgram: ancora più agghiaccianti sono le risposte date dai soggetti sottoposti a questa sua esperienza scientifica, per spiegare il loro comportamento. Avevano somministrato scariche elettriche ad innocenti che, se fossero state reali, avrebbero avuto conseguenze gravissime, anzi per qualcuno, letali. Avevano visto quelle cavie (in realtà attori addestrati) lamentarsi ed implorare di farla finita. Ma quelli andavano avanti! A spingerli a proseguire era soltanto l'autorità di un uomo in camice bianco che diceva di lavorare per la "scienza". Nient'altro. Viene un brivido a pensare che cosa può fare un uomo quando a motivarlo è un qualche Grande Valore: la "democrazia", la "nazione" o, addirittura, "Dio"...e si riesce a dare non una logica né una giustificazione(come si fa?) ma una vaga quanto inutile spiegazione, persino all'esistenza di una idiozia come la guerra! Ad esperimento concluso, posti di fronte all'evidenza della loro responsabilità, i più non sapevano rispondere altro che "si trattava del mio lavoro, in un modo o nell'altro, andava portato a termine". Come se il lavoro non fosse altro che un'attività indifferente ai fini, un fare estraneo al senso e valutabile solo per i suoi risultati operativi, non importa quali essi siano (ma non ragiona proprio così un militare di carriera, un "professionista della sicurezza internazionale" ecc?). L'esperimento, del resto, avveniva negli Stati Uniti, il paese che ha nel suo DNA l'etica protestante e lo spirito del capitalismo. Milgram sottolinea anche come la rinuncia a continuare nell'esperimento (non più di un 15% del totale dei soggetti coinvolti) avesse per questi, che in realtà dimostravano di avere una coscienza,(non certo vigliaccheria), un costo psichico che raramente si è disposti a sostenere. Perché chi ha la nobiltà ed il coraggio di fermarsi - il disertore, il refusenik, il renitente - in definitiva deve riconoscere che fino a quel momento ha sbagliato tutto. I più preferiscono perciò tirare dritto preferendo non mettersi in discussione. L'azione compiuta, indipendentemente dalla sua malvagità, tende così automaticamente a generare un'azione identica. Altrimenti non si spiegherebbero gli stermini nazisti che sono durati fino all'ultimo giorno di una guerra già persa o le vessazioni e le torture a cui sono stati sottoposti alcuni militari americani rimasti nelle mani dei vietnamiti dopo oltre un decennio dalla fine delle ostilità e nemmeno l'ostinazione con cui, oggi, i media, che con la menzogna hanno fomentato la guerra coloniale, continuano di fatto a sostenerla, nonostante l'evidenza della menzogna stessa.La mistica cristiana Simone Weil, poco prima di morire, ebbe modo di sperimentare tutta l'atrocità della guerra. Niente più della guerra è figlio del prosperare del vizio e della sventura della virtù. La Weil, psicologa profonda e di spessore, non aveva però dubbi sul significato della parola "eroe". Ella individuava nell'invisibilità la dimensione propria dell'azione massimamente virtuosa. Al limite l'eroe è colui che sparisce, senza lasciare traccia di sé, senza nemmeno una memoria postuma. Al contrario l'azione viziosa è quella che reclama visibilità, che pretende di essere apprezzata  e giudicata con i criteri del "mondo" e della "storia". Niente ai suoi occhi è più peccaminoso di questa pretesa di riconoscimento. Dal punto di vista di Simone anche il Paradiso e l'Inferno dei cristiani, almeno nella loro accezione comune, sono allora solo degli agenti inquinanti che contaminano tanto la purezza di una vita virtuosa quanto la colpevolezza di una vita malvagia. Ma perché i progetti di pace falliscono sistematicamente? Come si fa a non vedere che l'unica forma di pace è ancora quella di cui parlava amaramente Tacito, la "pax romana", così simile alla "pax" armata cara agli attuali capi statunitensi...quella pace, cioè, che consiste nel far sapere al mondo:"State attenti che con le armi che ho io, faccio tutti i massacri che voglio..." e magari,come ci è capitato di vedere, fare addirittura "preventivamente" una "guerra" e chiamarla poi pomposamente "pace"? Senza voler essere né ironico né dissacratorio, ma solo "molto chiaro", mi sembra che non è sbagliato dire che combattere per la pace alla fine è come fare l'amore per la verginità! Ci può essere una stupidata maggiore? E le parole di Freud non sono affatto diverse da quelle che oggi, soprattutto in Europa, si levano nel vano tentativo di arginare l'arroganza militare dell'impero."Il diritto internazionale deve fondarsi su una federazione di liberi stati", scriveva Freud. La pace perpetua ha insomma come sua imprescindibile condizione una federazione di stati come mezzo di regolazione pacifica delle contese e di garanzia delle libertà di ognuno. Splendido! E dunque, a torto si rimprovera all'illuminismo solo un arido razionalismo. Infatti proprio in questo progetto freudiano, che anticipa di oltre 100 anni quanto si vorrà realizzare nel secondo dopoguerra (senza riuscirci) con le Nazioni Unite, si può toccare con mano la generosa illusione che caratterizza ogni illuminismo. Perché Freud in realtà, con quella espressione, sta chiedendo al potere di fare quello che il potere, se vuole restare potere in atto (e lo vuole, anzi lo pretende!), non può per principio fare: rinunciare a se stesso per sottomettersi al diritto. Sarebbe bello...auspicabile! Ma non accade, perché è contro la "logica" del potere. Il potere uccide gli altri, non si suicida! E qui cade ogni buon proposito e la pace gandhiana diventa una meta irrealizzabile, quasi un'ipotesi fiabesca. Ogni madre che si rispetti giudica candidamente il proprio figlio, il più bello ed il più intelligente. Al tempo stesso ogni madre normale sa bene che le cose non stanno "oggettivamente" così. Lei stessa, del resto, può avere più figli e, come nei film, non sa scegliere. Questo conflitto tra assoluti non crea però problema perché l'intelligenza delle madri è di altro genere rispetto a quella logico-analitica a cui accennavo prima. Non è al di qua del principio di contraddizione, come reputa la stupidità maschilista, ma al di là di tale principio. Il loro amore presuppone ciò che l'intelligenza logico-analitica deve per principio escludere. Il presupposto di quell'amore è ciò che gli psicologi del Rinascimento chiamavano la "realtà" dell'infinito, il suo darsi "in atto" per il quale non possono esistere immagini di riferimento. Allora infinitizziamo, per forza con l'uso della fantasia, una sfera (rubo l'immagine alle riflessioni nel merito, di Cusano e Giordano Bruno). Diciamo, per comodità di pensiero, che quella è l'infinito! Che proprietà deve avere una sfera che sia infinita in atto? Scopriremo facilmente che "tutto" ciò che in una figura finita deve per forza essere distinto, nella stessa figura, una volta infinitizzata, quello stesso "tutto", perde ogni distinzione, viene paradossalmente a coincidere. Il centro, per esempio, sarà ovunque e, non potendo esserci due infiniti, il diametro infinito combacerà con la circonferenza della sfera anch'essa infinita. I muri dell'esclusione reciproca (o - o) crollano, l'aria si rinfresca e le madri possono amare ciascuno dei loro figli di un amore diverso e assoluto.

 
 
 

GUERRA E SOLITUDINE (2 -Fine)

Post n°36 pubblicato il 06 Novembre 2012 da carmarry

Questo purtroppo le religioni lo hanno ben capito e proprio su questo fanno leva affinché una madre possa permettere ai propri figli di andare in guerra, accettare che per quella guerra possano essere uccisi ed in quella guerra, uccidano altri figli di altre madri. Perché qui io dico: Se non una, ma tutte le madri insieme non volessero...nessun uomo riuscirebbe a costringere una madre a mandare il figlio in guerra!. Le guerre non ci sarebbero! Ma dobbiamo usare massimamente l'immaginazione, per penetrare questo concetto, come abbiamo fatto per la sfera e vedere con la nostra fantasia, TUTTE le mamme del mondo(quella del presidente, del generale, del ministro, del cappellano,del contadino...tutte...convinte di questa cosa). Beh penso che vedremo sguardi di tigri pronte a sbranare chiunque volesse fare qualcosa di diverso da ciò che loro, Madri, hanno deciso in difesa delle proprie creature...altro che lo sguardo malinconico come quello che una Madonna di Duccio da Boninsegna rivolge al suo unico figlio. Quello è lo sguardo di una madre maschilista-dipendente, rassegnata, lei per prima, ad un'obbedienza ed una sudditanza assoluti nei confronti del maschio guerreggiante, sempre pronto alla "pugna". Del resto, in onore di questa teoria che sa ben stimolare le menti, cosa viene mostrato con maggiore enfasi nelle immagini che ci giungono dalle guerriglie civili del medio oriente?: donne-madri armate di mitra che sparano contro...E se lo fanno loro, deve per forza essere giusto così!. E dunque, data questa "assenza", gli uomini, padri, figli, nipoti, nonni...si arrovellano a tracciare i confini che serviranno a preservare identità costituite e di là dal muro c'è ovviamente l'Altro, al quale a stento si riconosce il titolo di essere umano. La loro costruzione è dovuta alla paura (spesso motivata), alla voglia di protezione (perché l'altro, per definizione è cattivo), alla necessità di sentirsi protetti, spesso alla superstizione. Ed è comunque sempre e solo il sangue a cementarli. Ma i muri sono eretti soprattutto per impedire alle coscienze di espandersi grazie al loro lisergico naturale: l'idea dell'infinito. In preda a questa fantastica droga il consorzio umano apparirebbe in una luce inedita. Non più servi ubbidienti di un solo agguerrito padrone o gregge spaventato ma accudito, condotto dal pastore che poi macellerà quelle pecore e nemmeno fratelli se fratellanza significa rinunciare all'unicità dell'elezione. Nell'infinito l'umanità diventerebbe una comunità di figli unici generati da una stessa madre. Come farneticava San Paolo: né giudeo né gentile, né maschio né femmina, né schiavo né signore. Al pari del diametro e della circonferenza della sfera su cui abbiamo ragionato, all'infinito anche il palestinese e l'israeliano, l'afghano e l'americano coinciderebbero. Non è forse proprio questa medesimezza, questa tragica solidarietà di destini, ciò che, di fronte a tanta comune sventura, percepisce un occhio non ideologicamente accecato?...come il mio che vede scorrere sangue e gemere moribondi e parla al cuore della sventura di essere uomini e non solo semplici, umili e pacifici animali intelligenti.... Che brutto affare la guerra! La guerra che ci fa scoprire che un Dio, sicuro e non esattamente allegro, alla fine, ce l'abbiamo e per difendercene dobbiamo inventarcene altri, incazzati e nevrotici, ma sempre migliori di quello vero che appartiene all'uomo: Solitudine. Dio Solitudine!. L'immensa solitudine che appartiene all'uomo. Ecco perché l'uomo ha bisogno di creare stadi, oratori, Centri ricreativi, circoli...per socializzare? No, per sfuggire alla solitudine che ognuno cerca e venera nei momenti di massimo sconforto. E' quello il momento in cui tutti preghiamo davvero. Il momento in cui qualcuno si rivolge al Dio cristiano, a Buddha, ad Allah, a Maometto a Vishnu...e sta invece parlando col dio di ognuno...Solitudine! Noi siamo soli, profondamente soli ed in serbo per noi c'è sempre uno stato di solitudine che se non arriva ci procuriamo con l'isolamento. Questo, sia ben chiaro, non deve far pensare concettualmente alla tristezza. Essere soli non significa essere tristi o infelici! Giusto per chiarire! Una persona a me cara una volta, in un suo raro ma anche breve momento di pausa, ha detto:"Forse sono un animale solitario!"...e non è un'infelice. Non ne avrebbe il tempo! A mio avviso, nella sua semplicità, è andata molto vicina alla percezione della divinità. Infatti lei ha la furbizia di non fermarsi mai veramente. La sua giornata è piena di cose da fare...molte palesemente inutili che vengono però rese volutamente indispensabili, affinché anche se non dovesse aver voglia...un momento di pigrizia...deve farle...le circostanze che essa stessa ha creato, lo impongono e la sua giostra così continua a girare...senza tregua e senza fine, finché giunge la sera...in cui più che addormentarsi...sviene sul letto per la stanchezza accumulata, senza nemmeno avere il tempo di dirsi "buonanotte"...senza poter pensare a nulla nemmeno in quel momento...il momento della "piccola morte" in cui di solito molti fanno una sintesi della giornata appena trascorsa! Così lei tira avanti, secondo me, in definitiva, molto meglio di tanti altri che vivono amori appassionati ed esclusivi, si abbandonano a voli pindarici della fantasia finendo per precipitare da altezze vertiginose facendosi molto male,intraprendono rapporti assoluti,amicizie gelose.In fondo l'unica volta che questa persona è stata costretta a fermarsi (a causa di una gravidanza) si è ammalata!Quando ha ripreso,pian pianino,il suo pieno ritmo...beh, non era difficile immaginarlo...mica scema!...Ha ricominciato a girare come una trottola e ancora va avanti senza sosta!Forse non accontenta mai veramente nessuno,a volte credo nemmeno se stessa (almeno nei rari momenti in cui deve fermarsi perché magari, nella frenesia del fare, ha esaurito troppo presto gli impegni e quindi è costretta ad una breve pausa) forse i più la considerano(senza sbagliare secondo la logica comune ma non per questo assolutamente giusta...non certo nel suo caso, per esempio) una persona superficiale e sfuggente...ma intanto lei riesce ad andare avanti, è molto benvoluta per la sua disponibilità(utile tanto a lei che agli altri...è un altro modo per scovare impegni, in fondo) riesce a prendersi soddisfazioni che probabilmente non sarebbero tali quasi per nessuno, o solo per pochi, ma lei riesce a viverle come tali (basta non pensare troppo alla loro vera consistenza!) ed è in grado di sopportare condizioni di vita reali "non facili" e persino di riservarsi piccoli spazi per se stessa. In quanti, onestamente, riescono in un'impresa del genere? Non sto dicendo che questo sia il miglior modo per vivere la vita, intendiamoci anche perchè io quale sia questo modo(migliore) non lo so, altrimenti sarei il primo a praticarlo.E' chiaro che nello specifico, si può obiettare, a ragione, che un'esistenza così manca di spessore, d'intensità, non genera ricordi validi, forse è in sé una sorta di parodia della vita stessa...ma ne siamo sicuri? Io non lo darei per scontato.Di certo so che questa persona tira avanti egregiamente e con un numero di cose da fare, esorbitante e sembra abbastanza appagata. Da dove le tira fuori tutte queste cose? Non lo so. Dappertutto, ma qualcosa da fare lo trova sempre! Anche questa è un'abilità che non tutti hanno! E a modo suo, senza grandi intoppi e forse senza nemmeno tanti rimpianti...procede per la sua strada senza nemmeno porsi,forse,il problema se la sua vita sia bella o brutta o,peggio ancora, se potrebbe essere migliore...perché qui sorgerebbero i primi inghippi, se non esistenziali, almeno filosofici. E la filosofia, si sa, è l'anticamera degli approfondimenti! Lei va avanti così...riuscendo persino a dare un certo valore a qualche lusinga ad una foto o ad un complimento per un abito o a quel che è...al poco, insomma, e prosegue il suo cammino senza mai fermarsi veramente o forse giusto soffermandosi lo stretto necessario. Certo si può dire che così attraversa l'esistenza senza infamia e senza lode...ma...attenzione, senza farsi nemmeno tanto male! Che già non è una cattiva cosa! O No? Beh è logico che nel merito ognuno avrà,come è giusto, la propria opinione! Più che in altre circostanze, qui posso dire che io ho riportato un "caso"(simile a tantissimi altri, non certo unico nel suo genere), mi sono limitato a lanciare il sasso! Nessuno cerchi mie opinioni in proposito, perché la mia la tengo per me! Ma ognuno -è un consiglio- provi a farsi la sua. Se vuole può anche dirla! Caspita se può! Più ne arrivano e più impariamo! Del resto questo è il mio obiettivo: cerco e stimolo l'approfondimento attraverso il confronto! Ma poi,a ben pensarci, questa benedetta solitudine in fondo non dovrebbe stupirci, per sorprendente che possa essere farne l'esperienza. Puoi cercare di tirar fuori tutto quello che hai dentro, ma allora non sarai che questo: vuoto e solo invece che pieno e solo. Stupida, stupida guerra: come se far saltare in aria dei mercati, degli uomini, delle case...servisse a qualcosa. Sei solo se ci sono delle case e sei solo se non ci sono. Sei solo se hai degli amici e se non ne hai. Sei ancora più solo se ti fai dei nemici perché in tal caso devi andare in giro a stanarli ed ucciderli per riafferrare la tua solitudine interrotta da chi cerca te per farti fuori. Come puoi protestare contro la solitudine? Tutte le campagne contro gli attentati della storia non l'hanno nemmeno scalfita...e la storia è lunga! Il più letale degli esplosivi fatti dall'uomo non l'ha distrutta. Al più l'ha toccata, l'ha scoperta. Perché lei è là che ti aspetta. Lei è Dio! Qualcuno dirà:"Ma cosa sta dicendo questo? Io non mi sento assolutamente solo! Anzi...!"(certo sarebbe anche giusto che si chiedesse quante volte nella sua vita ha pensato o detto:"Per favore. Lasciatemi un momento da solo!". Il punto non sta nel "sentirsi" solo ma nel "bisogno" di esserlo in certi momenti!). Ma comunque in generale ha ragione...infatti solo non lo è. E' in compagnia. Ne gode di quella compagnia che ottunde il senso della solitudine...perché poi finalmente verrà il momento in cui, ogni giorno di ogni mese di ogni anno della sua vita...mentre è pronto ad abbandonarsi al sonno...entrerà nel suo solitario paradiso che precede il sonno stesso. E anche lì, mentre dorme, per esorcizzare Dio solitudine, quel luogo della mente...lo riempirà di immagini...di sogni! Stupida, inutile guerra!! Come fai a non capire che stai cercando ciò che ognuno ha già? Ciò che è stato già creato -la Solitudine- e fa parte del nostro quotidiano? Come fai a non capire che la ricerca di questa creazione di ciò che è già creato ti porterà a non finire mai? Sei come il padre distratto che cerca tra la folla il bambino che tiene per mano. Si stordirà di dolore inutilmente e quando, molto dopo, alla fine, si accorgerà dell'idiozia che sta facendo...avrà giusto il tempo per una isterica risata liberatoria dopo lunghi momenti da incubo...inutili, che però avranno lasciato segni profondi ed indelebili nel suo animo! Stupida, maledetta guerra...tu lasci morti e vuoti incolmabili, che nessuna risata isterica e liberatoria riempirà mai più, sulla tua inutile strada senza fine!

 
 
 

FACCIAMO CHIAREZZA SUL SUICIDIO...SERENAMENTE! (1)

Post n°34 pubblicato il 13 Ottobre 2012 da carmarry

Si discute molto di disturbi di personalità e una delle preoccupazioni più ricorrenti, in termini di possibili effetti secondari di queste problematiche è sicuramente il suicidio. Ora chiariamo anche una cosa che non è che vada detta per tranquillizzare ma perché è un fatto reale: la psichiatria ha affrontato con grande impegno questo grave effetto collaterale delle malattie psichiatriche ed è riuscita a ridurlo davvero moltissimo. La sempre migliore qualità dei farmaci, l'affinamento delle tecniche psicoterapiche e la sempre più spiccata attenzione e preparazione degli psichiatri, insieme con la consapevolezza che in questa branca della medicina questo evento è sempre molto presente, ha permesso di ridurre di parecchio il numero dei suicidi. Siamo ancora lontani dal ritenere che la soluzione sia a portata di mano ma siamo anche consapevoli che una depressione che si cronicizza, se si è vigili e non si perde mai di vista la "realtà" del soggetto, può essere portata avanti senza problemi con una buona qualità della vita del paziente e senza correre grossi rischi. E' evidente che in questo caso il compito dello psichiatra non è solo quello di fare da terapeuta, ma anche da "sentinella", chiedendo la collaborazione attiva e seria di tutte le persone che direttamente o indirettamente possono accedere alla vita di quel paziente, nei periodi in cui maggiormente si acuisce la patologia. E comunque anche qui, lo psichiatra, oltre che attento deve essere anche molto empatico con il malato per essere in grado di cogliere quei segni che possono essere prodromici o addirittura indicativi di una decisione presa in tal senso dal paziente. Perché poi non va dimenticato che il suicidio ha anch'esso dei suoi significati intrinseci ed una sua liturgia che possono prescindere dalla malattia stessa. Per maggiore onestà intellettuale, va però anche detto che non è assolutamente vero che, come molti vorrebbero far credere, il suicidio sia presente solo nei soggetti con disturbi della personalità. Il discorso su questo evento drammatico in realtà è molto più complesso, articolato e ricco di variabili. Nei limiti del possibile,cerchiamo dunque di fare almeno un po' di chiarezza con serenità e senza drammatizzare eccessivamente,perché questo sarebbe il tipico approccio mentale che non porterebbe da nessuna parte. Dunque, cominciamo col dire la cosa più usuale: il suicidio è considerato un atto violento verso se stessi: un auto-omicidio. Nella sua lapalissiana evidenza questa frase sembra spiegare tutto e quindi potremmo dire che l'argomento è chiuso, chiarito e possiamo fermarci qui. Ma (e c'è sempre un "ma") siamo proprio sicuri che si possa definire violento e basta, un gesto che libera da una condizione di totale inadeguatezza e di angoscia paralizzante? Per chi lo compie, il suicidio ha le caratteristiche di una liberazione. Per chi lo attua non è mai una violenza. Egli ha bisogno di morte. A differenza del tentato suicidio, in cui l'identico gesto ha il senso di una richiesta d'amore: è un quasi suicidio, un grido disperato di aiuto e domanda d'attenzione, d'un bisogno di vivere che, paradossalmente, si lancia rischiando di morire. Una scena da teatro per conquistare un pubblico disattento, come se nessuno si muovesse sul palcoscenico. Come un bambino che per richiamare l'attenzione della madre la picchia; come un adolescente che per mettersi in mostra fa l'eroe e,volendo primeggiare, rischia la vita. Allora forse quella frase è solo una definizione generica che non spiega nulla se non l'atto materiale. Meglio scendere più in profondità a questo punto per evitare il rischio dell'approssimazione. C'è bisogno di esistere in questo mondo affollato che corre per affermarsi, per un successo, comunque; in una società fatta di tante piccole platee che bisogna indirizzare a sé. E' come se si fosse spenta la vita dentro il singolo, ma ognuno la ricevesse dagli altri: una carica che viene dall'esterno. Nel gioco delle interpretazioni ci sono i suicidi malati e quelli geniali, i suicidi del popolo e quelli dei grandi, i suicidi da ricordare e quelli da dimenticare. E forse ogni suicidio è una storia irripetibile. Suicidi violenti, suicidi poetici, suicidi di libertà, suicidi di oppressione, suicidi gioiosi e suicidi tristi. Gabriel Deshaies riconosce sei processi che definirebbero sei tipi di suicidio. Probabilmente ha compiuto un buon lavoro, ma secondo me, anche inutile, perché forse è più giusto dire che ogni suicidio riconosce un processo da ricercare nella storia personale dell'individuo, ma con un sottofondo che li unisce tutti pur nella diversificazione che viene dalla stessa metodologia di vita. Le varie, diverse e variegate personalità. Mi vengono in mente Pavese, Van Gogh, Levi, Gerstel, Andigò, Majakowskij, Blok, Pier della Vigna , Lucano, Erlandson, Seneca, Hitler, Goring, Robespierre, Althasser, Crevel, Catone, Ganivet, Parmeggiani, Caccioppoli, Morselli, Hemingway, Luigi Tenco. Nomino questi pochi personaggi più o meno famosi per celebrare, attraverso loro, il ricordo di tutti gli altri, sconosciuti, impossibili da ricordare. Forse è solo più utile distinguere i due possibili suicidi: quello rapido e quello lento. Il primo viene ottenuto con un gesto di efficacia immediata, il secondo si realizza progressivamente. Di sicuro c'è che l'uomo è l'unico essere vivente in grado di uccidersi con un gesto attivo. Tra gli uomini c'è chi lo compie con un cappio al collo per malinconia e chi con una carica di esplosivo per danneggiare il nemico politico. Nel primo caso è un gesto inutile, nel secondo eroico. Vi sono suicidi razionali e quelli passionali alla Romeo e ancora suicidi di colpa, come Giuda. Ma non sempre la fenomenologia esprime i vissuti: un suicidio "freddo" potrebbe avere motivazioni affettive inespresse o inconsapevoli e uno passionale potrebbe derivare da un'analisi lucida della realtà. Ci si suicida di solito, prima nello spazio mentale, dove si esegue con precisione e ripetutamente l'operazione che poi, spostandosi nello spazio fisico, porterà alla morte. La freddezza dell'esecuzione è proprio frutto dell'abitudine maturata nei continui suicidi fantastici; il gesto progressivamente si automatizza, perde di emotività, come se morire fosse ormai familiare. La sua iterazione nello spazio mentale può dargli addirittura un effetto piacevole. In questo gioco di morte, insensibilmente, il gesto si sposta dal teatro del tempo e la corda non è più solo di fantasia, ma di canapa; circonda il collo mentre si è in piedi su una sedia che poi, buttata via, lascia appesi, con il dolore non di morire, ma di non poter più continuare a suicidarsi (è il motivo per cui ogni psichiatra sa che chi ha tentato il suicidio, morirà suicida. Lo 0,3% sceglie la vita!). In alcuni casi il suicidio mentale dura diverso tempo ed ha inizio proprio con le idee di morte. Un modo per cominciare a familiarizzare con questa essenza. E' per questo che il malinconico è già potenzialmente un suicida. Finisce per essere più affascinato dalla morte che non conosce che dalla vita che non sopporta. Così vive la morte, la pensa, la immagina e la visita sempre più spesso, fino ad occupare tutto lo spazio immaginario. Da qui, automaticamente, passerà sul piano della realtà per morire definitivamente. Si tende a dare molto rilievo al legame fra depressione e suicidio, ed è giusto ma non del tutto vero. Sono moltissimi, infatti, i depressi che non si suicidano e moltissimi i suicidi non-depressi. E più che mai questo può essere chiaro dopo il discorso che abbiamo affrontato a proposito dei disturbi della personalità, E poi, i santi, per esempio, hanno desiderio di morte per congiungersi a Dio. Il misticismo, in fondo, è una continua esperienza di morte. Il suicidio, dunque, può essere anche una festa d'amore, tra il singolo e la morte.

 
 
 

SUICIDIO (2) - (...continua) UOMO CONTRO

Post n°33 pubblicato il 13 Ottobre 2012 da carmarry

E' drammatica la sofferenza di chi si ritrova in vita dopo essersi dato la morte. Il: "ma perché mi avete salvato?" esprime la dolorosa consapevolezza di ritrovarsi ancora nel mondo e in un mondo che ora cercherà di togliergli anche la libertà di morire, dopo avergli tolto quella di vivere. Sarà controllato a vista o legato con una camicia di forza farmacologia che gli lascerà le mani libere, ma la mente alterata, amputata al punto da non riuscire più a desiderare il suo unico desiderio: la morte. Tutto questo proprio perché la morte, per il suicida,non è un'astrazione, ma una realtà ricca di "oggetti" che attirano con la forza della nostalgia. Nello spazio della morte, ci sono i trapassati, coloro che, morti da tempo, sono stati abbelliti nel ricordo e li si vuole vicini, nel silenzio, in silenzio; vicini mentre nel mondo tutto si allontana. La morte è lo spazio nostalgico della disperazione: ricordare nella miseria è atroce. Il suicida non è solo, senza legami: è invece innamorato, immerso in una relazione intensa che diventa nostalgia e per questo soffre la solitudine; il proprio amore ha un corpo lontano, vive nella morte, là dove si vuole andare a vivere. Se poi uno carica quello spazio di schiere angeliche e di dei, finisce per risplendere ancora di più e la sua perfezione lo rende irresistibile. Per il cristiano la terra è un piccolo inferno della tentazione, luogo di lotta e di sconfitta, a meno del dono della grazia. Una visione che declama il trionfo della morte, una premessa per la rinuncia ai piaceri della terra con un gesto suicida, che a questo punto dovrebbe rappresentare il più sublime atto terrestre d'amore per il Signore. E invece suicidarsi è peccato grave, via certa di dannazione. Una conclusione che va contro la logica e il desiderio di chi, innamorato di Dio, lo vuol godere pienamente. Già Agostino condannava il suicidio senza mezzi termini. Ma la religione cristiana, storicamente, vive di queste contraddizioni: amare è un dono, ma fare sesso, naturale componente di questo sentimento così complesso ed articolato, è peccato a meno che non si ragioni in termini di procreazione (come se si potesse vivere un sentimento con razionalità. E' un antitesi globale. Ciò che entra nel mondo del razionale non può essere sentimentale); essere giusti è un dovere, ma giudicare è peccato (come si misura il proprio essere giusti o ingiusti senza poter giudicare?). E questi sono solo una parte infinitesimale dei numerosi esempi che si possono fare in proposito. In altre religioni il suicidio può avere un significato positivo. In Giappone alla morte dell'imperatore, i sudditi più fedeli si toglievano la vita per poter continuare a vivere con lui. Questo comportamento è stato ritualizzato sostituendo le persone con gli haniwa, statuette di terracotta. Ma anche nel mondo occidentale persiste questo concetto. In molte società patriarcali, tra cui quelle del bacino del Mediterraneo, ancora oggi, la vedova veste di nero, in perpetuo lutto, con enormi limitazioni alla vita di relazione: è la rappresentazione di una morte sociale. Il suicidio rientra pertanto tra le espressioni della cultura ed è influenzato, in particolare, dalla concezione della morte. Esso si colloca anche nell'ambito della invenzione fantastica ed esprime una ribellione, una trasgressione all'imperativo biologico della continuazione dell'esistenza a tutti i costi e comunque sia (pensiamo agli ultimi e numerosi suicidi di imprenditori, lavoratori e pensionati che riempiono ormai le nostre cronache giornaliere. Questo dover vivere a "tutti i costi" e senza alternative dignitose ha creato una ribellione tanto forte da manifestarla con un atto estremo). Del resto se la vita è imposta da un Dio creatore, l'uomo, uccidendosi, si ribella e toglie significato a quella stessa potenza divina che l'ha creato. E se anche Dio non c'è e il mondo è nulla, allora tutto è nulla, anche la morte. Si riapre così, in tema di significati, quello della morte, del nulla che può condurre al nichilismo. "Mi chiamo Arkadij Nikolaevic Kirsanov", disse Arkadij, "e non mi occupo di niente". E' la famosa frase tratta da " Padri e figli" di Turgenev, con cui si fa nascere il nichilismo, almeno quello dell'ottocento. C'è un nichilismo del tempo presente, che incontriamo per strada, in un relativismo esasperato, dove tutto si erge sospeso, senza un perché. Come l'uomo di Ungaretti: "attaccato nel vuoto / al suo filo di ragno". Un nichilismo riempito di oggetti, tra oggetti posseduti e immediatamente distrutti, consumati. La morte, in questo scenario, è morta a sua volta, diventata esperienza di un attimo, e allora ci si suicida senza bisogno di una filosofia dell'esistenza, senza una sindrome depressiva o una colpa che generi angoscia. La morte, sconosciuta, si fa gioco, e si muore senza saperlo e senza sapere che cosa significhi morire. E' un nichilismo della frammentazione del tempo: ogni attimo ha la propria logica e i propri desideri. Così è facile uccidersi ed uccidere. Il nichilista suicida muore inconsapevole, come un robot che ha le batterie scariche o le ha buttate via perché ingombranti. Ma si suicida anche il vecchio, chi è già vicino alla morte ma non vuole saperne di aspettare. Nella società progredita si creano sempre più giovani ormai vecchi e il vecchio si suicida perché non serve a nulla: è anzi ingombrante come un sacco di immondizia. A Bali, in Indonesia, ho assistito ad una cerimonia di primavera: il vecchio del villaggio raccontava la storia del mondo, mentre le danze la rappresentavano. Così era rivissuta ed il vecchio, l'attore-demiurgo, rigenerava la vita. Anche nelle società contadine fino all'inizio di questo secolo, il vecchio era un punto di riferimento, un maestro di esperienza, di scienza e spesso anche di pratiche religioso-magiche, che nel loro complesso, garantivano il raccolto e la sopravvivenza. Era una specie di contadino-sacerdote, e forse anche un mago, per chi ci credeva. La saggezza del vecchio era il suo titolo al dominio: spettava a lui recitare le preghiere e ringraziare il Signore prima di sedere a tavola, come il sacerdote che sa trattare con gli dei, da cui dipende il dono dei raccolti. La casa richiamava monasteri e chiostri. Anche qui il vecchio era il priore. Non si guardava al suo stato di salute mentale, alla sua lucidità; era l'autorità perché era vecchio. Matusalemme, il più vecchio nell'Antico Testamento, dunque in un'epoca in cui la vita media non superava i 35 anni, ha raggiunto i 90 anni (il numero 969 anni, riportato nelle scritture, indica "anni lunari" e, dunque, mesi). Oggi nel mondo occidentale la vita media per i maschi è di 78 anni, per le donne di 82. Le terapie antibiotiche, le migliori condizioni alimentari e igieniche hanno moltiplicato i vecchi: attualmente rappresentano circa il 20% della popolazione. Una tale inflazione ha tolto ogni carattere di eccezionalità alla vecchiaia. Prima era un dono degli dei o degli antenati, ora è il risultato dello sviluppo delle tecnologie moderne che non hanno nulla di soprannaturale, misterioso o magico. E così, mentre la famiglia da allargata, si è fatta nucleare, la senilità è diventata un problema sociale. D'altra parte, oggi, il sapere è trasmesso dalla scuola, dalla televisione e il vecchio può solo tacere, legato com'è ad un passato che non conserva nulla di necessario per il presente, ombra di una storia inutile. In un miniappartamento non c'è posto per il vecchio. Non serve nemmeno come baby-sitter. Insomma è inutile, è solo come se fosse rimasto orfano dei figli e dei nipoti, chiuso in una "casa di riposo", fra estranei che, seppur giustamente, violano continuamente anche la propria intimità, e non fa altro che aspettare la morte. Se questa tarda a presentarsi,il più delle volte, spontaneamente,la anticipa. Presso altri popoli il suicidio è davvero sempre il destino dei vecchi. Ricordo la figura di Asiak, nel libro "Il paese delle ombre lunghe". Vecchia, stanca di vivere e di vedere i giovani guardarla ogni giorno con sempre maggior disappunto, si inoltrò sul nastro di ghiaccio (siamo in Alaska) e si lasciò andare verso l'acqua. Senza paura, perché sapeva che la morte non poteva essere peggiore della vita e delle disgrazie terrene. Due donne che la scorsero andare alla deriva, con grande serenità, tipica di una cultura consolidata, si dissero:"Asiak va alla sua morte". Del resto, come dicevamo, l'uomo che si suicida è un uomo "solo". Qui però il concetto va chiarito bene. La solitudine non va mai intesa come l'essere fisicamente privi di alcuna compagnia. In tal caso si deve parlare di isolamento, come quello che avviene in carcere, in talune prigionie ecc. La solitudine è qualcosa di molto più profondo, interno, lacerante. E' un sentimento, per intenderci. Si può essere anche isolati e stare bene. In qualche caso è una scelta. Ma si può essere al "centro della scena", fra amici, estimatori, fans oppure nemici o oppositori, senza vedere nessuno e sentirsi irrimediabilmente soli. In realtà la solitudine a cui mi riferisco è barricata "dentro" di noi. E' una mancanza di quel "sé" all'interno, nella psiche, quando questa diventa irascibile, vendicativa, cattiva, incapace di collaborare. Spesso si decide di "ucciderla" e dunque lei non ci parla più. Ed è per questo che nella solitudine si incontra solo la colpa, quasi si trattasse di una pena per espiarla. Immagine del rimorso. Ombra dell'impotenza. Nostalgia di scelte sbagliate o, peggio, non fatte. Il tempo scorre disperato e ogni attimo si fa eterno, lugubre, diviene paura. Una vita che si vorrebbe spenta eppure continua inesorabile come un cero tremulo. E il vento, un solo soffio per spegnerlo, non arriva e la forza di soffiare si è fatta immobile di paura. Finchè non arriva qualche soffio forse inatteso,ma decisivo... dai MONTI.  Si sopravvive così alla propria morte in attesa della morte. Ogni "uomo solo" si è già suicidato nel desiderio e si è spento con l'ultimo vento di tramontana. Il vento della colpa, tra la disperazione di un mondo che latra rabbioso. Così si attende la sera, in silenzio, per sentire il suo abbraccio freddo ma amico. Forse è un Dio misericordioso, forse semplice metafora del nulla, che si riveste d'ombra. Importante è morire, seppure della "piccola morte" che è il sonno. Anche questo si farà desiderare, ma arriverà, si farà implorare, ma giungerà. Ogni sera di ogni giorno si compirà la piccola morte, perché l'importante è lasciare la terra che è ormai troppo grande per la propria solitudine e troppo chiassosa per i propri silenzi. La colpa di cui parlo, inusitatamente, si inserisce così nel percorso di una storia naturale, come tappa obbligata per l'acquisizione della specificazione etica. Si situa nello scarto tra essere e dover-essere che può portare alla redenzione come conquista del dover-essere oppure alla disperazione come impossibilità di raggiungere quell'imperativo: allora il dover-essere è, allo stesso tempo, un angosciante, distruttivo, colpevole non-poter-essere. Così l'uomo sta riducendo la sua vita e quella che sta preparando ai propri figli...

 
 
 

SUICIDIO (3) - (...fine) SEQUESTRATI

Post n°32 pubblicato il 13 Ottobre 2012 da carmarry

"Forse perché della fatal quiete tu sei l'imago / a me sì cara vieni, o sera" dirà Foscolo. "Bella morte pietosa / non tardar più, t'inchina / a disusati pregi, / chiudi alla luce ormai / questi occhi tristi, / o dell'età reina / ...null'altro in alcun tempo / sperar se non te sola". Leopardi è uno che ha banchettato con l'dea della morte ogni giorno ed ha usato la vita come scusa per amarla, riuscendovi peraltro. Nei "Pensieri" dirà che "la morte non è male: perché libera l'uomo da tutti i mali, e insieme coi beni gli toglie i desideri. La vecchiezza è male sommo: perché priva l'uomo di tutti i piaceri, lasciandogliene gli appetiti; e porta seco tutti i dolori. Nondimeno gli uomini temono la morte e desiderano la vecchiezza". Del resto è intuibile che nella paura anche la morte può far paura, col suo mistero, il suo fascino che però trascina nel dubbio della fine. E' forse giusto quello che Shakespeare fa dire ad Amleto: "...sennonché il timore di qualche cosa dopo la morte, il paese non ancora scoperto dal cui confine nessun viaggiatore ritorna, confonde la volontà, e ci fa piuttosto sopportare i mali che abbiamo, che non volare verso altri che non conosciamo. Così la coscienza ci fa tutti sempre più soli e vili ". Ritorna il concetto che rapina la vita e la voglia di viverla dell'uomo: la solitudine. Dentro di sé. Solitudine violenta, come quella di un sequestrato in Barbagia o in Aspromonte. E in fondo anche col sequestro fisico l'uomo non fa altro che ripetere la storia già scritta di una società miserabile che ripete all'infinito i suoi errori fino a renderli riti accettabili. Una condizione di sequestro esistenziale che l'uomo sperimenta nella solitudine, un sequestro in mezzo alla gente. Soli, in una grotta di indifferenza, scavata dall'egoismo di una società attenta solo a ciò che aumenta il narcisismo o il successo. Si può essere sequestrati su una panchina di un parco: un uomo che aspetta il riscatto della morte. Come un rapito egli sente il silenzio attorno a sé, attento a percepire il rumore della liberazione, che è solo il rumore sempre tradito del desiderio. Talvolta il rapito muore nella tana del sequestro, quando nessuno è disposto a pagare un riscatto e tutti fanno finta di cercarlo per non trovarlo. Riscattare la solitudine che la morte psichica induce, richiede un prezzo troppo alto, perché significa rinunciare a se stessi, diventare un altro. Impossibile! La solitudine psichica è sempre un sequestro disperato o una follia irreversibile, la madre di tutti i suicidi non eroici. E' per questo che l'uomo ha paura della solitudine fisica, immagine di quella del sé, e tende sempre ad appoggiarsi almeno alla paura di un altro, per sopportare la propria. Ci sono bambini rapiti fin dalla nascita, poiché hanno visto subito il volto dell'abbandono. Al loro pianto rispondeva il silenzio. Lo stesso che, inevitabilmente scende dentro di sé. La solitudine "dell'anima" è il dramma di un uomo soffocato dalla gente che non lo vede. La solitudine è piangere tra chi non sa cosa sia una lacrima; è gridare senza voce. Come in una grotta dell'Aspromonte, quando ogni espressione umana si fa pietra disanimata. Una lacrima evapora al calore, senza nemmeno bagnare il volto. Ho conosciuto persone che vivono sepolte nella propria stanza fatta di mura tanto solide da non lasciarsi più attraversare da nulla, all'interno di case abitate dall'indifferenza della frenesia di questo vivere correndo anche quando si potrebbe passeggiare. Ma pure di questo si è perso il gusto...perché non è utile o almeno non indispensabile. Ho conosciuto persone che hanno tutto il coraggio o la forza per uccidersi, ma gli manca la voglia di farlo, come gli manca quella di vivere: sequestrate dalla propria psiche, dalla propria morte e dalla propria vita! Questa solitudine è la condizione di un suicida privato degli arti che gli sono indispensabili per morire. Un'attesa incommensurabile fatta di attimi che si consumano lenti come tanti infiniti dentro un solo esistere. Succede che si muoia perché è meglio per gli altri ma anche che si viva per lo stesso motivo. Credo che ogni uomo porta dentro di sé un piccolo Aspromonte, un pezzo di Barbagia ed ha una tana dove nascondersi o forse gettarsi per la disperazione e la paura. Un utero di morte. Ma in alcune di queste prigioni non c'è nemmeno un carceriere, nessuna richiesta di riscatto, poiché non si ha prezzo, si è fuori mercato. Un uomo senza valore, senza senso. Solo, senza che nessuno lo sappia. Non un poliziotto, un carabiniere che lo cerchi. Non è nemmeno un numero, l'astrazione più tragica dell'uomo. Ognuno nella solitudine diventa tomba di se stesso, coperto da una pietra sepolcrale senza il ricordo di un fiore appassito che racconti di un lontano profumo. Il riscatto a volte avviene e talora è un semplice sorriso, talora una parola che faccia sentire vibrare l'aria, uno sguardo che dicano:" Ti capisco. Condivido". E "condivido" è una parola che può diventare magica se è "vera". Ma il più delle volte da questi incontri con persone che non dimenticherò mai, sono uscito sconfitto ma forse anche rafforzato. Non mi sarebbe possibile spiegare né l'una né l'altra cosa. So solo che è accaduta e va bene così. Qualcun altro si è accorto della propria esistenza nella sofferenza e della propria sofferenza nell'esistere. Ma raramente è andata così. Il suicidio del resto -definiamolo finalmente- è l'ultimo grido disperato di un sequestrato abbandonato in una caverna del sentimento. E' la paura attonita di essere già morto, la storia triste di un rapito dentro una città dove si svolge incessantemente il rito della lotta senza sosta per arrivare primi, non importa dove, magari solo alla fermata del tram: dovunque c'è un frammento di Barbagia e una tana d'Aspromonte. E solo una personalità sana o risanata resisterà alla voglia di diventare pietra tra le pietre. Ecco perché mi piacerebbe non dover mai più sentire quella frase che dopo un po' lacera le cellule di un cervello che sa di già dove verosimilmente porterà chi la dice: "sono fatto così". Solo per qualcuno, pochi: "Sono fatto così... purtroppo"! Ed ancora più difficile è dover constatare che in una espressione così triste, perché piena di una insondabile rassegnazione - "purtroppo" - si può cogliere una speranza,seppur vaga...ma possibile,di lavoro, di un percorso da effettuare insieme perché in un apparentemente banale "purtroppo", c'è una consapevolezza e la consapevolezza può diventare la possibile speranza di una vita che vuole continuare a dispetto di una morte che preme per prenderne il posto. Ma che sia brutta o bella, l'espressione di riferimento, l'importante è coglierla e questo è compito dello psichiatra: cogliere quel barlume di speranza in una mente senza più riverberi di luci, che vive nel nero più marcio che una mente sana possa immaginare. Del resto, senza essere tale, ma esprimendo una tanto impareggiabile quanto nota sensibilità, quel grande poeta prestato alla musica che è stato Fabrizio De Andrè, molto profondamente, nella strofa di una sua canzone, diceva: "...dai diamanti non nasce niente... dal letame nascono i fiori...". Eppure... "signori benpensanti",  sarebbe tutto ancora così facile e possibile, perché anche se nessuno lo ammette, tutti lo desiderano in fondo...ritornare ad essere "uomini tra gli uomini", regalare un sorriso, emozionarsi per un tramonto, soffrire per un amore, godere della risata fresca di un bambino, aiutare un vecchio ad attraversare la strada e poter ascoltare qualche suo ricordo espresso in poche frasi, ammirare un arcobaleno...far volare un aquilone!

 
 
 

INNAMORAMENTO E AMORE...continua

Post n°30 pubblicato il 27 Settembre 2012 da carmarry

Proviamo a guardarlo un po' dall'interno, l'innamoramento adolescenziale. Vi troviamo il desiderio di avvicinarsi all'altro sesso, di scoprirlo, ma anche molta paura di farlo: come sarà questo estraneo, cosa penserà, quali saranno le sue reazioni, potrò fidarmi o no...? Vi troviamo un impellente bisogno di sperimentare nuovi modi di essere e di sentire. E anche la necessità, per crescere, di spostare i bisogni di vicinanza, di appartenenza, di dipendenza su qualcuno che non sia la madre o il padre e di coinvolgersi in un legame amoroso con qualcuno che non sia più il genitore dell'altro sesso, come era accaduto negli anni dell'infanzia. Ma vi troviamo soprattutto un grande bisogno di colmare il vuoto lasciato dalla presa di distanza dai genitori attraverso un rapporto intenso, totale, quasi di fusione con un'altra persona; fusione che dovrebbe annullare, appunto, il sentimento di dolore e talora di depressione che accompagna la consapevolezza di essere separati, soli, confusi persino rispetto ai propri confini, sostituendolo con l'intenso eccitamento che si accompagna al sentirsi tutt'uno con l'altro. D'altro canto, però, tutto questo può suscitare anche paura. Forse è per questa ragione che l'innamoramento è sorretto soprattutto da una forma di pensiero primitivo, magico, irrazionale, contraddistinto da modalità di vivere ed interpretare la realtà utilizzate negli anni dell'infanzia. Si coglie dell'altro un qualche segnale, una qualche caratteristica che si presta a proiettarci sopra, proprio come una pellicola su uno schermo, tutto un complesso di immagini già pronte dentro di sé ed ecco che l'altro non è più un estraneo, è uno che pensa, sente, vede come se si fosse un'unica persona. E' stato trasformato in un essere dotato proprio di quelle caratteristiche ideali che venivano cercate. Una specie di distorsione percettiva, insomma. Dice una poesia orientale: "Era così grande il mio desiderio di primavera che ho scambiato gli ultimi fiocchi di neve per fiori di pruno..." Ecco, fintanto che l'illusione tiene, ci si può sentire presi, fusi e confusi senza più alcun timore. Quel che più conta, è che in tal modo non ci si sente più soli, smarriti, staccati dai più antichi oggetti d'amore: si è con "l'altro". E questo, come già detto, può sorreggere l'adolescente nel progressivo doloroso abbandono del suo corpo infantile, del suo modo di sentire e vedere infantile, delle sue relazioni infantili. Quando poi l'esame della realtà prenderà il sopravvento, l'illusoria costruzione con tutti i violenti turbamenti che l'hanno colorata di tinte tanto passionali probabilmente svanirà come una bolla di sapone. Può darsi che si cerchi e si trovi subito un'altra persona che prenda il posto di chi è appena "andato", e poi un'altra ancora... Fino a che l'adolescente non sarà pronto per una scelta amorosa più duratura che potrà anche portarlo a fondare una famiglia. A quel punto l'innamoramento non sarà più una bolla di sapone, ma anche l'innamorato non sarà più un adolescente. Ancora una volta, oltre alle circostanze attuali più o meno favorevoli, saranno la forza e la qualità dei suoi attaccamenti, l'efficacia delle relazioni che l'adolescente è in grado di stabilire con se stesso e con gli altri, il grado di tenuta dei suoi sentimenti di fiducia e sicurezza, la sua capacità o meno di tollerare le inevitabili dolorose disillusioni che segneranno il percorso di marcia verso questo obiettivo. Nel frattempo, come abbiamo visto, i ragazzini si impegnano in sperimentazioni di sé e dell'altro che permetteranno loro di definirsi meglio anche nella loro identità sessuale e va detto che nell'innamoramento l'aspetto sessuale non gioca in genere un ruolo di spicco. Ci possono essere innamoramenti appassionati e del tutto platonici, così come si può provare una forte attrazione sessuale senza essere per nulla innamorati. Vi sono adolescenti che fantasticano avventure sessuali di ogni tipo e cercano in tal modo sia di gestire impulsi e desideri sia di osservarsi alle prese con la propria e altrui sessualità ben protetti dalla consapevolezza che tanto si tratta solo di fantasie. Fantasie che tuttavia possono a volte divenire così intense ed intollerabili da spaventarlo. Vi sono però anche adolescenti, come il ragazzo di Chiara, che, al contrario, di fantasie non ne fanno proprio. Si buttano nell'atto sessuale con sentimenti tipo "tolto il dente, tolto il dolore... è fatta, sono grande... funziono bene... non c'è più motivo di essere spaventati...". Come può essere eccessivo e poco stimolante per la crescita il prolungarsi negli anni di avventure solo in fantasia e basta, di amori solo platonici e basta o addirittura l'assenza anche di tutto questo, così è eccessivo che l'adolescente passi da un rapporto sessuale all'altro, da un partner sessuale all'altro. Può essere espressione di una fuga nell'azione per non affrontare un problema, per non pensare, per non sentire dolore. Anche questo non va nella direzione della crescita. Le componenti emotive del rapporto con se stesso e l'altro non compaiono o restano inascoltate, il corpo corre troppo e la mente non riesce a tenergli dietro. L'adolescente può non riuscire ad utilizzare questo eccesso di esperienze per progredire nel percorso di separazione-individuazione di cui abbiamo parlato. Forse può soltanto, al momento, sentire un po' meno il dolore di crescere. E i genitori? Quando dicevo prima che il processo di separazione-individuazione si propone e ripropone come compito evolutivo lungo tutta la nostra vita intendevo includervi anche quello che devono affrontare i genitori degli adolescenti. Vediamoli un po' più da vicino. I genitori rappresentano innanzitutto una "coppia di adulti". Allora cerchiamo di capire le dinamiche che riguardano anche questi 2 personaggi che genericamente chiamiamo "genitori",ma che non sono oggetti inanimati per cui più correttamente dovremmo definirli:coppia. Due persone che hanno già fatto(bene o male è tutto da vedere) lo stesso percorso che vedono compiere ai propri figli. E cominciamo a ragionare su un fatto semplice ma non per questo sempre chiaro a tutti: la formazione della coppia ha motivazioni diverse, ma tutte riconducibili all'atavico bisogno di sicurezza che accompagna l'uomo fino alla morte, che ha radici nella vita fetale e nei primi anni di vita e la sua origine nel rapporto simbiotico con la madre. Pertanto, all'altra metà si affida il compito di riprodurre la condizione originaria detta fusione, allo scopo di 'ripeterla' se essa è stata soddisfacente oppure di 'ripararla' se non lo è stata. Abbiamo detto che nell'amore adolescenziale il sesso non riveste un ruolo primario. Non dimentichiamo che così non è nell'amore in età adulta. Anzi è fondamentale che sia così altrimenti l'uomo verrebbe meno allo scopo principale della "naturalità",ovvero la procreazione, indispensabile alla natura per la conservazione della specie,e,allargando il principio in termini più ampi..."delle" specie. Nel caso dell'uomo, nel concetto di sessualità finiscono per convergere tante altre componenti, tra le quali una importante ma anche molto insidiosa, che è la passione. Non è facile gestire questo aspetto e molto dipende proprio da come si è sviluppato il sentimento "amore" nell'arco che va dalla prima infanzia a tutta l'adolescenza, ma soprattutto come, proprio nel corso dell'adolescenza, è stato vissuto, gestito e metabolizzato questo elemento (insomma come sono state elaborate le prime spinte passionali). Siamo di fronte ad una forza oscura ed irrazionale che se non è stata "imparata" attraverso una serie di esperienze che ne hanno creato una buona conoscenza, unico segreto per saperla gestire in età adulta, diventa un problema perché ha dentro di sé il germe del dubbio ed induce all'angoscia anche quando il sentimento è corrisposto, alla disperazione più desolata se non ne riceve che un pallido riflesso. Mentre l'amore maturo(cioè "maturato" correttamente attraverso le esperienze adolescenziali) comporta reciprocità di conoscenza e di affetto, riconoscimento e superamento delle differenze, la passione non elaborata, implica la sopravvalutazione dell'altro e la svalutazione di sé, la proiezione di fantasie su un oggetto solo parzialmente conosciuto e, pertanto, idealizzato, la ricerca ossessiva di un rapporto simbiotico e totalizzante, in cui si effettua la distorsione della realtà e l'alienamento delle inibizioni, con la conseguente perdita del controllo emotivo. Il concetto occidentale di amore romantico è strettamente legato proprio a quello di passione ed è stato modellato sulla scia della produzione letteraria di tutti i tempi: Saffo lo descriveva come una brama travolgente della persona amata, della sua presenza, della sua approvazione, del suo desiderio, mentre Shakespeare come 'cieco', poiché così scaturiva da una sua esperienza personale. Una persona che senta di non avere ricevuto amore in modo soddisfacente nei primi anni di vita, non può capire come si amano gli altri e può spingersi a sopprimere totalmente il suo desiderio d'amore oppure dedicare il suo attaccamento a chi non scoprirà mai la sua vulnerabilità, un amante-fantasma, immaginario ed irraggiungibile. L'attaccamento romantico ansioso ed il distacco sono dunque due immagini riflesse, ciascuna protesa verso l'altra. Infatti, un certo grado di attaccamento è essenziale in un rapporto amoroso maturo ed impegnato e l'esclusione di sentimenti e di pensieri romantici non può offrire alcuna garanzia di reciprocità. I genitori di Chiara infatti, evidentemente giunti ad un tacito appagamento della loro passionalità, probabilmente per un maggiore legame alla più "sicura" quotidianità e piuttosto lontani dai ricordi del loro vissuto adolescenziale, sono frastornati, spaventati, non sanno più che pesci prendere. Se le impediscono di uscire con Antonio, sta in casa ma non studia e si aggira con l'aria di un fantasma; se la lasciano uscire sono terrorizzati dai rischi che può correre. Il loro potere di convincimento, i metodi che avevano utilizzato con lei fino ad allora non fanno più alcuna presa su di lei. Sono anche visibilmente arrabbiati. Per la prima volta in molti anni Chiara si rifiuta di andare al tennis con il padre, che si sente abbandonato e tradito. E adesso con chi giocherà? Sua moglie è pigra e troppo vecchia per queste cose (ha la sua stessa età...). Come madre è stanca; aveva creduto di potersi dedicare di più al lavoro, con la figlia ormai grande, e invece le tocca impegnarsi con lei come quando era piccola e anche peggio. Credo che questo basti per esemplificare quanto il cambiamento di un adolescente possa richiedere un cambiamento nelle dinamiche familiari e quanto l'adulto abbia necessità di recuperare il ricordo delle sue fasi adolescenziali evitando di dare tutto come "scontato": se non lo era stato per lui,perché dovrebbe esserlo per i propri figli? L'adolescente, innamorato o no, mette in crisi il ruolo dei genitori, che devono passare dall'essere e sentirsi genitori di un bambino ad essere e sentirsi genitori di un ragazzino e poi di un quasi adulto. Ma mette in crisi i genitori anche più profondamente, nella loro stessa identità di persone che avanzano verso un nuovo stadio della loro vita. Si impongono dei cambiamenti nel loro mondo interno oltre che nella famiglia. Anch'essi devono separarsi, oltre che da un figlio che diviene fisicamente sempre meno presente e dipendente, da rappresentazioni ormai superate di se stessi, del figlio, delle reciproche relazioni per trovarne di nuove, più corrispondenti alla realtà del momento, e anche questa separazione può essere causa di molto dolore. Può anche indurre a cercare di frenare, talora in modo brusco e rischioso. Per mantenere la giusta distanza generazionale si impone infatti che essi stessi facciano nuovi passi maturativi: da giovani genitori di bambini, occorre che imparino a vedersi un po' meno giovani genitori di ragazzi che ormai possono essere alti quanto loro o di più, belli quanto loro o di più, intelligenti quanto loro o di più...E che sono pure capaci di innamorarsi e di far innamorare di sé! Anche i genitori, pertanto, possono sentirsi confusi, vuoti, soli. E lungo la via che li condurrà ad una ridefinizione della loro identità di genitori e di persone possono a loro volta provare momenti di disequilibrio prima di trovare nuovi adattamenti. Può accadere, per esempio, che l'innamoramento di un figlio risvegli le tracce non degli insegnamenti ma degli amori adolescenziali dei genitori stessi, con tutta la costellazione emotiva che li aveva accompagnati. I genitori possono in tal modo identificarsi con il figlio comprendendo meglio i suoi vissuti, ma possono anche confondersi con lui vivendo il suo innamoramento come fosse il proprio, o innamorandosi a loro volta. Certo prendere le giuste distanze è difficile. E' difficile anche accettare che il figlio o la figlia siano tanto più giovani, più vitali, più attraenti. Può venire la tentazione di competere con loro, vestirsi come loro, condividere quel loro mondo che fa sentire vecchi tutti quelli che ne sono esclusi. Questo potrebbe rimandare a un dopo il dolore della separazione e crescita, ma creerebbe ancor più confusione: una mamma troppo amica o un padre troppo compagnone rischiano di essere troppo poco genitori. Se i genitori non mostrano ai figli che è possibile tollerare il dolore per l'abbandono della propria giovinezza, dimostrando però di averne ricordo, non insegnano ai figli ad abbandonare la loro infanzia. Se non mostrano loro che è possibile modificarsi pur rimanendo sostanzialmente coerenti con se stessi ed il proprio ruolo di genitori non li aiutano a trovare a loro volta nuovi adattamenti e questo confonde ed altera, fino a problematizzarli, i comportamenti dei figli adolescenti creando quell'ampia casistica che colma 2 estremi molto distanti tra loro:dal timido/imbranato allo sfrontato/arrogante. In realtà non si finirebbe mai di discutere su questo argomento,tante sono le implicazioni che lo caratterizzano. Mi viene in mente -e la prendo a prestito- una storiella ebraica di J. Sandler, professore di psicoanalisi all'Università di Londra, con la quale, introducendo la sua relazione "Brevi note sull'amore", egli vuole illustrare proprio la difficoltà a parlare dell'argomento. La storiella racconta di un giovane che, desideroso di sposarsi ma troppo timido, si rivolge ad un sensale di matrimoni, il quale gli combina un incontro al ristorante con una possibile sposa. Il giovane, spaventatissimo, gli domanda di che potrà mai parlare e riceve il consiglio di parlare soprattutto d'amore, avvicinandosi però all'argomento con gradualità: avrebbe prima potuto parlare di cibo, poi di famiglia, e infine d'amore. Forte di questo consiglio il giovane affronta l'incontro con la potenziale sposa e facendo appello a tutto il suo coraggio le domanda: "Le piace la minestra di pollo?". "Si, mi piace" risponde lei. Questo per il cibo, pensa lui. Ora la famiglia: "Ha qualche fratello o sorella?". "Ho un fratello", dice lei. A quel punto era giunto il momento della spinosa questione dell'amore. Cosa dire mai? Con repentina ispirazione il giovane chiede: "Suo fratello ama la minestra di pollo?"...In fondo il giovane, la scaletta consigliatagli,l'ha portata avanti disciplinatamente. Alla fine ha trattato tutti e 3 gli argomenti, compreso l'amore...ma ne è venuta fuori solo una "brutta minestra" . Nel nostro mondo è così che funziona: quello occidentale industrializzato e iper-tecnologico intendo e così funzionava già qualche secolo fa. Lo dicevo prima: questo atteggiamento tipico nell'innamoramento, le problematiche degli adolescenti e dei genitori stessi,sono nient'altro che la naturale conseguenza della nostra cultura. Ma già qualcuno come la grande psicologa, Melain Klain, agli inizi del 1900 ormai ragionava diversamente grazie alla sua personale osservazione,fatta sul posto, del comportamento di alcuni indigeni di zone africane, all'epoca ancora molto primitive ed aveva ragione. Io stesso, che le sue teorizzazioni le avevo studiate sui libri, ho avuto la fortunata possibilità di constatare quanto attenta e puntuale fosse stata l'osservazione di questa grande ricercatrice, avendo viaggiato molto sia per lavoro che per diletto; mi sono, per così dire, allontanato da questa nostra civiltà occidentale malata tutte le volte che ho potuto o ho dovuto ed ho curiosato molto tra le popolazioni dei luoghi che ho visitato. Ebbene, posso testimoniare che fin dai miei primissimi viaggi, al di là dei paesaggi naturali, delle atmosfere, dei costumi e delle usanze, quello che sempre mi ha sorpreso è la relazione forte, viva ed intensa tra il mondo dei bambini e quello degli adulti: non ho mai visto un bambino africano, indonesiano, brasiliano (delle favelas), o delle ormai rare comunità aborigene australiane, piangere senza un vero motivo; non ho mai visto uno di questi bambini fare i capricci; non ho mai visto un adulto di quelle terre arrabbiarsi, né tanto meno picchiare il proprio figlio; non ho mai visto un tuareg ignorare, svalutare o ironizzare le richieste del proprio piccolo. Il rispetto e la serietà con cui i bisogni dei bambini vengono accolti in queste civiltà mi ha sempre provocato un contrastante insieme di sgomento, di stupore e di gioia pura. Questi bambini, come i loro padri, le loro madri, attraversavano le varie fasi della loro crescita,con la stessa serena e "seria" convivenza insieme con gli adulti, in maniera naturale, senza traumi e distorsioni. Vorrei essere stato allevato così... e così avrei voluto essere nelle condizioni, -che però la società occidentale mi nega-, di allevare i miei figli. Ma evidentemente così non è stato per me né lo sarà per loro e, per ciò che mi riguarda personalmente, quali che siano l'equilibrio e la maturità cui io sono pervenuto, posso affermare con certezza di averli pagati un prezzo molto più elevato del loro reale valore. Forse sarà proprio per questo, ma mi piacerebbe che questa meravigliosa, primitiva usanza potesse un giorno essere ripresa e trasformata in una moderna realtà. Sono davvero convinto che, già da sola, potrebbe, almeno parzialmente, sanare la nostra umanità. Ne sono convinto al punto che se, in un contraddittorio, dovessi sostenere questa mia visione che devo definire, purtroppo e con sincero rammarico, utopica, non sceglierei chissà quali argute argomentazioni iperpsicologiche, né citazioni e metodi di comunicazione raffinati, ma semplicemente sfiderei i miei interlocutori ad abbandonare la scrivania e spostarsi sul campo, e direi loro: "Andiamo insieme in un qualche lontano e primitivo paese del terzo mondo, tra bambini scalzi e svestiti, che giocano fra le pietre e le capanne e che magari portano, senza lamentarsene, i loro animali al pascolo e noi, che di questo siamo (o almeno ci riteniamo) esperti, guardiamo in profondità i loro sguardi. Troveremo una pace insospettata. La risposta a molti dei nostri laceranti problemi si trova in quegli occhi umidi di cerbiatto, dolci, sereni, allegri o supplicanti, ma mai domi e privi di qualunque dubbio rispetto a quelle che per noi -i civili d'occidente-, sono le inimmaginabili forze d'amore che hanno generato quella pace". Quella che piacerebbe avere anche a noi.

 
 
 

INTRODUZIONE

Post n°28 pubblicato il 03 Settembre 2012 da carmarry

Prendo spunto come sempre dal maggior numero di vostre richieste per ragionare intorno ad un profilo abbastanza frequente sia nella casistica ambulatoriale presentata da terze persone, sia nell'ambito legale. Piuttosto rari, purtroppo, i casi di autocoscienza sull'argomento ed è un peccato perché un'acquisizione del genere, permetterebbe, proprio grazie alla presa di coscienza personale, una guarigione completa ed un rientro nella realtà oggettiva e civile, del tutto normali. Si tratta di quei quadri caratterizzati da bugia patologica. Ebbene sì, esiste proprio come malattia, non è facile da affrontare dal punto di vista terapeutico a causa delle resistenze del soggetto ed il più delle volte vede il paziente rinunciare alla terapia in quanto, per evidenti motivi, essa risulta destabilizzante per lui, il percorso terapeutico lo mette a confronto con le sue diverse anime...e questo è difficile da affrontare. Si tratta in genere (ma non sempre) di personaggi che hanno una certa instabilità relazionale semplice o in tutti gli ambiti della vita e fanno ricorso all'alterazione totale o parziale dei fatti, delle circostanze e degli eventi in maniera abituale o ricorrente. La bugia patologica è da intendersi non come bugia sgradevole per chi la subisce (genitori, partner etc), piuttosto come tendenza a raccontare fatti inverosimili, gonfiare in maniera chiaramente incredibile le circostanze e gli eventi, fino a falsificare documenti o prove dei fatti stessi che si vogliono sostenere e negare l'evidenza di ciò che gli altri scoprono o contestano. Il tutto però quasi sempre, avviene senza che vi sia una strategia generale, spesso nemmeno pensata, organizzata e studiata...il più delle volte anzi, letteralmente improvvisata per cui il risultato quasi del tutto inevitabile, è quello di portare a conflitti, guai giudiziari, o disastri relazionali. Il bugiardo patologico in altri termini non sa mentire, ed ha fortuna solo all'inizio, quando chi lo conosce gli dà fiducia come la darebbe a qualunque persona con cui entra in confidenza. Per questo le figure più colpite sono i genitori ed i partners, ma non di rado anche i datori di lavoro o i soci. Il bugiardo patologico, nonostante tutto, non ha un fine pratico, concreto (come il truffatore) ma ha come fine solo quello di provocare reazioni di ammirazione e stupore negli altri, o anche di compassione e rispetto per racconti di torti o ingiustizie subite (questa versione è più spesso femminile), o ammirazione ed invidia per imprese e prestazioni grandiose (questa versione è più spesso maschile). Non generalizziamo. Ho chiarito che si tratta di versioni "più spesso" non assolutamente, maschili o femminili. Anche questo è fondamentale che sia chiaro, perché sono proprio le generalizzazioni a complicare la possibilità di porre una diagnosi corretta. I bugiardi patologici in definitiva sanno mentire solo in virtù di un loro stato "dissociato" in cui cioè non avvertono l'imbarazzo, il disagio o il fa stidio di recitare il falso. Questa mancanza di vergogna ed imbarazzo, producono anche l'eccesso patologico rispetto alla bugia stessa, per cui il più delle volte, la rendono eccessiva, inverosimile, ridicola e tale da far apparire chi la dice, solo come un personaggio in cerca di attenzioni ed incapace di stabilire un rapporto sincero e semplice con gli altri. Lo sostituisce quindi con millanterie varie,sparate e invenzioni.  L'incapacità di ammettere la bugia è anch'essa sostenuta dalla mancanza di vergogna, per cui il bugiardo patologico negherà il falso cercando di convincere chi lo ascolta di essere sincero. Questo stato euforico e dissociato è una delle manifestazioni "possibili" di una malattia psichiatrica che può essere di una certa rilevanza se non subito e ben identificata ed opportunamente trattata, nelle sue fasi maniacali: il disturbo bipolare. Spesso è la base per casi giudiziari di false accuse, confessioni di crimini inesistenti, accuse e chiamate in correità infondate e situazioni simili. In realtà esiste in psichiatria una vasta gamma di atteggiamenti patologici riferibili a questa alterazione della personalità e ovviamente varie gradualità d'importanza e dunque di severità del problema stesso. Anzi, più correttamente, direi, che la gamma è talmente vasta che solo impropriamente, il più delle volte, si dà ad un certo agire la definizione di "bugia patologica" e spesso il compito dello psichiatra è davvero arduo nell'inserire questo atteggiamento relazionale alterato, all'interno di un contesto patologico ben individuabile. Solo alcuni di questi stati dissociativi e di queste alterazioni comportamentali , infatti, sono abbastanza frequenti e ripetitivi nel loro svolgersi e quindi hanno permesso di poter definire con un preciso termine di riferimento la patologia. Ad uno accennavo prima(la fase maniacale del "disturbo bipolare"). Un altro, molto più noto al grande pubblico, anche per l'uso che ne è stato fatto sia a livello filmografico che giornalistico è la "sindrome di Munchausen" o pseudologia fantastica. E' forse uno dei casi più comuni che osservano i medici in quanto è una forma di bugia patologica molto orientata ad un certo tipo di lesionismo o, più frequentemente, auto-lesionismo sanitario. Quindi praticato sia su di sé, sia su persone che sono sotto il proprio controllo (pazienti, figli, anziani). Ma di questo parleremo nel prossimo post dove intendo approfondire il discorso concentrandolo proprio su quei casi più specifici ed anche più seri, spesso drammatici, e soprattutto non così rari come si pensa, riguardanti i rapporti genitore-bambino in cui può essere presente questa sindrome. In realtà è un tipo di patologia che meriterebbe maggiore divulgazione e più conoscenze da parte di tutti. Alla prossima!!!

 
 
 

UN ESEMPIO “NARRATO” DEL 1° CASO

Post n°27 pubblicato il 03 Settembre 2012 da carmarry

Parlavo della sindrome di Münchausen  quando è espressione di un disturbo bipolare. Affrontiamolo questo argomento in maniera molto pratica. Partiamo dalla considerazione che spesso il bugiardo patologico rientrante in questo tipo di problematica psichiatrica, tende ad affiancarsi a personaggi contigui per professione ma superiori di rango per entrare in una specie di falsa amicizia in cui c'è un seme di odio e rivalsa, come se dovesse dimostrare di valere di più, prima stringendo amicizia con i più grandi, poi cercando di metterli in difficoltà o di superarli nella considerazione degli altri. Perché dicevo: affron tiamo l'argomento in maniera pratica: perché c'è stata (abbastanza recentemente) un'ottima produzione Italiana -credo trasmessa in TV- in cui questo particolare aspetto della sindrome, viene,a mio parere, espresso molto bene attraverso una storia che poi ha un epilogo drammatico. Ripercorriamola insieme. Il film in questione s'intitola Amore Criminale e racconta di un caso del genere svoltosi a Bari, che assume le tinte di uno stalking, culminato poi con un omicidio. Parliamo dunque di un caso limite: è un film. Utilizzo questa circostanza perché ci permetterà di fare delle riflessioni...che è poi quello che c'interessa. La vicenda è quella di un ragazzo di 30 anni che intreccia una relazione con una donna di 47 anni, Lei affermata professionista nel mondo del teatro, lui commesso. La relazione procede, ma lui si dimostra invadente e soprattutto imbarazzante nelle occasioni pubbliche. Con fare esuberante e confidenziale, di fronte a parenti ed amici, racconta aneddoti o esperienze inverosimili, tra cui una lotta con uno squalo nel mare da cui avrebbe riportato una grave ferita. Gli amici raccontano di come l'ascendente del ragazzo fosse determinato dal fatto di "inondare" questa donna, colta e lavorativamente appagata oltre che stimata, di atte nzioni e di interesse e di farle sentire che lui aveva un estremo bisogno di lei. Le manifestazioni di amore di lui erano, numerose e fitte, ma agli occhi degli altri stonavano per una differenza di stile (più discreto, cerebrale e con un'attenzione al gusto ed alla qualità per lei, ripetitivo e bambinesco quello di lui). Salta poi fuori una sua relazione con una ragazza più giovane, e l'uomo dimostra chiaramente di volerle portare avanti entrambe. Quest'ambiguità diviene poi intollerabile quando è l'altra che inizia a perseguitare la donna con una serie messaggi. La crisi della relazione non provoca un raffreddamento dei toni da parte di lui, che anzi esaspera le sue caratteristiche e sembra non conoscere altro linguaggio che quello dell'esuberanza e della manifestazione plateale e diretta, a volte fuoriluogo (ad esempio invadendo gli spazi ed i rapporti di lavoro di lei) e con il ricatto implicito di mostrarsi stupito ed indignato in caso lo si criticasse per questa sua "eccessività" che egli definisce "spontaneità". Più passa il tempo e più lui si "impone", ad esempio facendo di nascosto una copia delle chiavi per farsi trovare in casa al rientro della donna, con fare a metà tra la sorpresa ed il controllo. Poi, com'è prevedibile, lui reagisce decisamente male al rifiuto esplicito della donna, quando lei lo lascia a causa del proseguire del tradimento accompagnato peraltro dalla persecuzione da parte dell'altra. Così l'uomo crea un profilo su facebook fingendosi donna e le dispensa consigli a favore di se stesso, come se provenissero appunto da una fonte disinteressata (in questo si coglie ad esempio l'ingenuità ed il carattere bambinesco di questi espedienti, che poco avrebbero potuto su decisioni ormai avanzate e motivate sulla loro relazione). Apparentemente curioso, ma non del tutto in linea con le caratteristiche della patologia, è suo il comportamento poco prima del delitto. Invia un mazzo di fiori alla ragazza più giovane, che lo rifiuta, al che lui cambia il bigliettino e invia il fioraio dall'altra, in quel momento è impegnata al lavoro. Dopo di che lui cerca nello stesso giorno, senza successo, di contattare altre amiche per inviti serali. Questi rifiuti generano la reazione più violenta ed incontrollata che si possa immaginare. Infatti l'epilogo della vicenda è quello di uno stalking in grande stile, ed il finale è il peggiore pensabile. Anche nell'omicidio lui, potendolo evitare, ma senza alcuna linea di condotta ragionata, insomma senza un progetto, mette in piedi, in maniera maldestra, un tentativo di depistaggio: tramite facebook si introduce nel profilo della vittima e finge che lei abbia invitato a casa degli sconosciuti ed inscena in casa i resti di un incontro sessuale finito in violenza. Usa stoltamente il telefono con il risultato di farsi localizzare in un luogo diverso da quello che dichiarerà come alibi. Entra con le chiavi, senza simulare effrazioni. Insomma...nessuna strategia, solo una acrobazia che riuscì per poco tempo (sui giornali la "pista" dell'incontro sessuale andato male fece notizia ) ma servì solo a farsi scoprire meglio. Ecco, questo è un caso molto ben narrato, seppure ai limiti del consueto, è ovvio, in cui la Sindrome di Münchausen si presenta in un soggetto affetto da disturbo bipolare, in fase maniacale. Dicevo -e ribadisco- ai limiti dell'abituale perché va precisato che si tratta di un film e dunque le cose vengono per ovvi motivi, esasperate. E' infatti opportuno chiarire che le persone affette da disturbo bipolare non necessariamente sono"imprevedibili"e non necessariamente violente. Non faccio questa precisazione per non creare allarmismi ma solo perché è assolutamente vera. Le sindromi bipolari peraltro sono di tipo e severità molto diversi tra di loro ed in questo caso c'era correità tra bugia patologica ed abuso di alcol e droghe. Beh, comprendiamolo...diversamente il film non avrebbero potuto farlo. O ne avrebbero dovuto fare uno diverso. Ma la storia, come dicevo, ci consente di fare una serie di riflessioni. Alcuni elementi utili al nostro discorso li possiamo cogliere:  comportamenti intrusivi, fisicamente intrusivi come quello di violare l'abitazione o di irrompere sul posto di lavoro sono un elemento di all'erta in ogni realtà. Dato il carattere riverberante di queste fasi "eccitate", ogni  risposta alimenta le iniziative del partner insistente e minaccioso. Un segnale preoccupante in questo senso è quando in risposta a messaggi di "non gradimento", di "chiusura" e di rifiuto, fanno seguito immediatamente risposte di rilancio, come se niente fosse, dichiarazioni d'amore o inviti. Il fatto è che il soggetto in fase maniacale, quando riceve un rifiuto, uno stop, non riesce a concepire che esista una ragione, e vede come unica ragione un rifiuto "personale", cioè una manifestazione di ostilità: nella dimensione egocentrica della fase maniacale la persona non riesce coerentemente a vedere le ragioni per sentirsi dire un "no" e riesce ad interpretarlo solo come una sorta di contrapposizione personale ed ostile, u na provocazione ingiusta, una svalutazione immeritata e paradossale del proprio diritto ad avere, a conquistare, a consumare e ad andare avanti. Da questo nascono reazioni violente o di cambiamenti d'umore bruschi e ostili dopo insistenze infinite con modi gentili e tentativi di seduzione e persuasione. Chiuderò questo argomento nel prossimo ed ultimo Post dove affronteremo la bugia patologica nel suo aspetto più inquietante che riguarda la Sindrone di  Münchausen per procura. Brutta la definizione di questo aspetto di tale patologia e ancora più brutto l'argomento che tratta perchè qui i personaggi sono vittime di protagonisti che riescono a mostrarsi essi stessi come vittime mentre sono i veri carnefici. Alla prossima!

 
 
 
 
 

INFO


Un blog di: carmarry
Data di creazione: 21/07/2012
 

CERCA IN QUESTO BLOG

  Trova
 

ULTIME VISITE AL BLOG

nodopurpureogin52virna.bpyssy66carmarryfarfallinaincantataing.zengarininiko420maria.leonardo0pirata33fedelsa1ernestoandolinaroyrvseneh
 

CHI PUÒ SCRIVERE SUL BLOG

Solo l'autore può pubblicare messaggi in questo Blog e tutti gli utenti registrati possono pubblicare commenti.
 
RSS (Really simple syndication) Feed Atom
 
 

ANIMA MIA

 

 

 

 

 

 
 

© Italiaonline S.p.A. 2024Direzione e coordinamento di Libero Acquisition S.á r.l.P. IVA 03970540963