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Salviamo la patata

Post n°338 pubblicato il 06 Febbraio 2007 da k.blackwell
 

La patata è buona e fa bene - soprattutto quando non subisce alterazioni - quindi anche noi maschietti sosteniamo la giornata mondiale contro le mutilazioni genitali femminili.

Battutacce a parte, ecco il racconto di Barbara, che è stata parecchio tempo in Somalia e ne ha riportato una testimonianza più che eloquente:

Le donne, naturalmente, sono infibulate. Tutte. Di solito le statistiche riportano percentuali inferiori, ma solo perché includono anche le donne appartenenti alla nutrita comunità araba, le quali non subiscono l’infibulazione, bensì la “sunna”, consistente in una incisione rituale del clitoride per far uscire sette gocce di sangue: pratica indubbiamente dolorosissima, assurda e inaccettabile, ma comunque non mutilante. Le mutilazioni genitali femminili, va detto, sono tutte di origine preislamica e non sono ordinate dal Corano, che però ne parla e non le proibisce, limitandosi a suggerire, se non ricordo male, di “non tagliare troppo” e dunque, di fatto, le autorizza. Sono praticate, in alcune zone, anche sulle donne cristiane ed ebree; ignoro però se ebrei e cristiani le praticassero anche prima che le terre da loro abitate venissero arabizzate e islamizzate. L’infibulazione è fra tutte la più radicale, consistendo nell’escissione di tutto quello che c’è (clitoride, piccole labbra e parte delle grandi labbra), vale a dire di tutto ciò che provoca secrezioni: ciò significa che i rapporti sessuali avvengono praticamente “a secco”, trasformandosi in qualcosa di molto più simile alla tortura che al piacere. Ma non è tutto. Dopo che tutto il tagliabile è stato tagliato, i due monconi rimasti delle grandi labbra vengono cuciti insieme, ancora sanguinanti, in modo da saldarsi insieme formando un unico blocco, lasciando solo un minuscolo foro. Quindi le gambe vengono strettamente fasciate per facilitare una “corretta” cicatrizzazione. Dopo otto giorni le bende vengono tolte e sulla cicatrice viene fatto scorrere un chicco di mais: se si ferma sul foro lasciato, significa che questo è troppo grande, e allora bisogna tagliare e ricucire di nuovo. Tale foro, di pochi millimetri di diametro, è chiaramente insufficiente a far defluire completamente urina e sangue, che ristagnano all’interno provocando mostruose infezioni. Nel novanta per cento delle donne, mi ha spiegato una dottoressa italiana, la vagina è tutta un’unica piaga purulenta. Al momento del matrimonio il marito ha otto giorni per riuscire ad aprirsi un varco: nel caso non dovesse riuscirci, diventerebbe una sorta di non-uomo, praticamente una morte sociale. Chiaro quindi che ci deve riuscire. Alcuni usano coltelli, lamette, forbici, bastoni: sono i più misericordiosi. Altri hanno invece la presunzione di riuscirci con i “mezzi propri”. E dopo otto giorni di torture finiscono anch’essi, inevitabilmente, per ricorrere a qualche strumento. Il marito, comunque, apre solo lo spazio a lui necessario: al resto provvederà la testa del primo figlio. Impresa tutt’altro che facile, e infatti la fase espulsiva, che nelle donne aperte non arriva a durare mezz’ora, nelle donne infibulate dura almeno due ore, provocando la morte di un gran numero di primipare e di primogeniti. Dopo il parto, almeno le prime due o tre volte, generalmente le donne si ricuciono, da sole o con l’aiuto di un’amica. In alcune zone, mi è stato riferito da donne che ne provenivano, immediatamente dopo il parto la vagina lacera e sanguinante viene cosparsa di sale per far contrarre i tessuti, in modo che il piacere del marito non abbia a risentire della diminuita tonicità dell’organo.

Il post integrale lo trovate QUI, con alcune interessanti osservazioni sui "cooperanti" italiani in Somalia (per la serie: italiani brava gente).


 
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