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Dopo l'accorato video-appello di Piergiorgio Welby al Presidente della Repubblica sono esplose, come prevedibile, le solite polemiche all'italiana.
In particolare, molti politici di area cattolica - appartenenti a entrambi gli schieramenti - hanno addirittura escluso che in Italia si possa "parlare" di eutanasia, mentre hanno lasciato aperto uno spiraglio per l'eventuale adozione anche in Italia del cosiddetto "testamento biologico".
In parallelo, molti giornalisti hanno confezionato articoli o servizi televisivi tesi a far prevalere la tesi secondo cui "la vita va vissuta comunque, in qualunque condizione", oppure quella a favore della cosiddetta "dolce morte".
Mi sembrano due approcci sbagliati, e forse anche un tantino in malafede, alla questione.
Da una parte i politici sanno (o dovrebbero sapere) benissimo che eutanasia e testamento biologico sono due cose diversissime: col testamento biologico una persona chiede che, nel caso si ritrovasse impossibilitata in seguito (causa malattia, incidente o altro) a esprimere la propria volontà in proposito, venga messa agli atti "preventivamente" la sua volontà di non subire il cosiddetto "accanimento terapeutico" (cure mediche portate oltre il limite del ragionevole e prive di reale, effettiva utilità per il paziente); nel caso dell'eutanasia abbiamo di fronte invece una persona ancora in possesso delle proprie facoltà e ancora in grado di comunicare la propria volontà (autonomamente o con l'ausilio di supporti tecnologici, come nel caso di Welby) che chiede di non continuare a vivere una vita che non ritiene più degna di essere vissuta, anzi una vita che non ritiene più essere tale, anche se "tecnicamente" resa ancora possibile dall'utilizzo di macchine medicali o di terapie farmacologiche.
E' chiaro quindi che l'introduzione del testamento biologico non può esaurire tutte le casistiche, e che la legalizzazione del suicidio medicalmente assistito (eutanasia) ne è il naturale complemento.
I giornalisti, dal canto loro, anziché informare i cittadini riguardo ai termini della questione, spesso informano i cittadini circa la loro posizione in proposito: i favorevoli portando a esempio il caso di Welby, i contrari andando a scovare un malato da usare come "testimonial" per sostenere la tesi opposta.
Peccato che il problema non sia quello di stabilire se, come, quando e a che condizioni la vita valga la pena di essere vissuta, per poi adottare questo novello criterio generale per valutare i singoli casi: il problema, molto semplicemente, è un problema di libertà dell'individuo.
In una ottica di stampo liberale, non confessionale, è evidente che è l'individuo l'unico che ha titolo per decidere se e quando, secondo il suo personale sentire, è arrivato il momento di staccare la spina: in un campo come quello della vita e della morte - della propria vita o della propria morte - ogni ingerenza da parte di attori esterni, specialmente se "pubblici" per definizione come lo Stato, andrebbe categoricamente esclusa.
Anche le critiche dei politici (più o meno) cattolici mi sembrano non tenere (volutamente?) conto del fatto che depenalizzare l'eutanasia non significherebbe certo imporla a chicchessia: come per il divorzio e l'aborto, i credenti sono liberissimi di non avvalersi di questa possibilità, in accordo col loro credo religioso (e questo fa loro onore); come nel caso del divorzio e dell'aborto, però, lo Stato laico e liberale non può non tenere conto di chi credente non è, e legiferare di conseguenza.
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