LA VITA COS'E'???
Una felicità che finora l'uomo non ha mai conosciuto: la felicità di un dio colmo di potenza e d'amore, di lacrime e di riso, una felicità che, come il sole alla sera, non si stanca di effondere doni della sua ricchezza inestinguibile e li sparge nel mare, e come il sole, soltanto allora si sente assolutamente ricca, quando anche il più povero pescatore rema con un remo d'oro! Questo sentimento divino si chiamerebbe, allora -umanità!
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Stato-mafia, il "pentitificio" è la chiave di tutto FINO ALLA MORTE NO ALLA MAFIALunedì, 16 luglio 2012 - 08:39:00 Di Tiziana Maiolo Fra tre giorni sarà l'anniversario della strage di Capaci e dell'assassinio di Paolo Borsellino a opera della mafia. Sono passati vent'anni esatti e la storia pare infinita, rinverdita oggi - dopo le indagini fallimentari "condotte" dal pentito imbroglione Scarantino - dall'inchiesta della Procura della repubblica di Palermo sulla famosa "trattativa" tra lo stato e la mafia nel 1992. Il che mi riporta alla mente prima di tutto le mie ispezioni parlamentari nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara dove, proprio in quel periodo, negli anni 1992 e 1993, erano detenuti gli imputati di fatti di criminalità organizzata. Ho visto come vivevano, ho parlato con molti di loro. Così come non si può dimenticare, quando si parla dell'articolo 41-bis dell'ordinamento penitenziario, che cosa ha significato concretamente nelle carceri italiane la sua applicazione. In teoria consisteva nel potere, affidato al ministro di giustizia, di sospendere, nei confronti dei condannati per reati di criminalità organizzata, le prerogative previste dalla legge Gozzini, la riforma del 1986 che aveva umanizzato il carcere e posto fine alle rivolte. Ma nei fatti il 41 bis in quegli anni, soprattutto nelle carceri speciali di Pianosa e Asinara, fu semplicemente una nuova forma di tortura legalizzata. Ho visto detenuti cui non era consentito di bere acqua potabile né di lavarsi, né di avere dei veri pasti, né l'ora d'aria né i colloqui con i parenti. Ho saputo di Totò Riina cui veniva tenuta accesa la luce in cella giorno e notte e dei tanti che "cadevano dalle scale", che venivano tenuti segregati e che non potevano parlare neppure con il proprio legale. Anche gli avvocati subivano angherie e venivano trattati come "mafiosi". E quei pochi parlamentari che, come me, osavano affacciarsi a quei lager, venivano ostacolati in ogni modo. Occorre ricordare che molti di quei detenuti erano in attesa di giudizio, fatto di cui pareva non importare a nessuno. Il dottor Nicolò Amato, direttore del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, cercava di tenere in equilibrio una situazione difficile, se non disperata. E' vero, come lui stesso ha lamentato nell'intervista di qualche giorno fa, che è stato in seguito allontanato da quel ruolo per far spazio all'ingresso del dottor Francesco Di Maggio, ma non per le ragioni che lui ritiene, e cioè per un passaggio dalla linea dura a quella morbida della "trattativa" con la mafia. Le cose non andarono proprio così. Prima di tutto perché Amato fa torto a se stesso definendosi come una sorta di "aguzzino", essendo invece lui sempre stato un riformatore ( benché alcune nostre discussione siano state piuttosto accese ). Ma soprattutto perché Di Maggio è stato il grande protagonista non della "trattativa", ma dei famosi "colloqui investigativi", quelli previsti dall'art. 18bis della legge del 1991 che consentivano a una serie di investigatori di avere colloqui personali con detenuti "al fine di acquisire informazioni utili per la prevenzione e repressione dei delitti di criminalità organizzata". Il famoso "pentitificio", questo è la chiave di tutto: prendi un detenuto, lo pieghi nel corpo e nello spirito con l'applicazione del 41-bis, poi arriva il colloquio personale con un investigatore che ha il compito di trasformarlo in "pentito", un pentito, a quel punto, disponibile a dire le sue verità insieme alle sue falsità. Proprio come Scarantino, che ha mandato in galera per quasi vent'anni gli innocenti che non avevano ucciso affatto Borsellino. Perché lo stato ( o una sua parte ) aveva bisogno dei "responsabili" di quel delitto. |
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