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Un blog creato da Jiga0 il 21/11/2010

Schwed Racconta

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JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED

 

Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.

 

 

 

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I SUONI DELLA MEMORIA

Post n°10 pubblicato il 09 Dicembre 2010 da Jiga0

stella gialla

 

 Per il giorno della Shoah devi fare "il calcolo di quanto valga al chilo essere ebrei". Con una musica che sembri un muggito

Sono un ebreo del mondo, sono uno in mezzo al popolo d'Israele; sono uno attendato nella patria ovunque dei Rotoli. Uno della Nazione d'Aria. E vengo a dirvi che la memoria è un organismo vivente; non la globalità dei ricordi, ma una rete di trasmissioni, disturbata dalle continue interferenze del presente.


Sulla soglia del giorno in cui il popolo d'Israele ripensa la Shoah insieme all'Israele sparso nel mondo, sale il ricordo; e anzi, assale. E dice cosa succeda nell'intimo del popolo ebraico, in queste date poste a lasciare un segno che non sia cancellabile. La Sciagura ebraica ora sta appoggiata sulle spalle della seconda generazione della Shoah; su noi, che abbiamo conosciuto i salvati e diviso con loro la vita che è seguita - una stagione di ombre. E questo quindici maggio è un tremito, un altro giorno di ricostruzione delle emozioni; dato che la Storia non sarebbe una immensa topografia, dove ognuno colloca le proprie variabili, ma l'indirizzo esatto di quello che fu sentito. Il frangente in cui le generazioni finalmente si collegano, e l'ultima censisce l'eredità. Il quindici maggio o il ventisette di gennaio sono un improvviso ritorno alla percezione completa della realtà. Il passato svela di non essere lontano: vive nascosto in noi. Piomba sulla vita, si sovrappone come una coperta - e regna. I giorni prima ha luogo una tortuosa battaglia, e il campo di scontro è in noi stessi; agli assalti della memoria, rispondono i contrattacchi di una paura grigia e io provo a non ricordare. Ma a un tratto sono collegato a un rombo assordante. Voci dicono oioi, dicono Yankele, Moishele. I vagoni passano sotto all'arco di ferro con la scritta che il lavoro rende liberi, e ogni volta mi prendo il volto tra le mani e faccio uno di loro, uno d'Israele - e lo sapevo che sarebbe successo. Per giorni i rumori di fuori giungono sfocati: la televisione biascica il repertorio dei volti al filo spinato visti l'anno prima, e quello prima ancora, come se a morire fossero sempre gli stessi; davanti alle lapidi i sindaci hanno mani dietro la schiena. In Italia la sera del 27 gennaio c'è una fiction, altri ebrei vengono salvati da una brava persona, e l'Europa pullula di brave persone e mi domando come mai morimmo tutti. E' in quei giorni intorno alla fine di gennaio che sono in giro e porto nelle scuole il mio romanzo che parla della memoria colpita a morte; del fatto che la Storia svanisce con le parole e i nomi, e che un mostro sta partorendo l'Astoria. Vado in giro e parlo dello strazio del popolo ebraico; la mia voce è stentorea, e là fuori, nella remota realtà, ci sono io che galleggio davanti a un microfono - e dentro un urlo che non è decente.

Cosa devo dire, può darsi che il mondo sappia. Per lo più la gente ha da fare: ricordarsi di pagare il telefono, i bambini da portare a chitarra; la giornata è un catino e dentro al catino stagna una materia informe. E' la Shoah. E io lo sapevo che sarebbe successo. C'è il rispetto, e l'educazione, come quando passa un funerale e la gente si toglie il cappello, poi il funerale è passato e uno si rimette le mani in tasca. Scocca la prima ora e alcuni dicono subito che ci sono stati anche altri genocidi. In un bar uno sbuffa che non ne può più di questa Shoah, e lo sapevo che sarebbe successo. Qualcuno ha letto Primo Levi, ma c'è la folla debordante: nelle strade, in una sala d'aspetto, al mare sotto l'ombrellone; e non sa cosa sia stata questa Shoah, e nemmeno chi siano gli ebrei. E una signora che aiutava la mamma, ero piccolo, mi faceva il bagno, smise di strusciarmi la schiena e mi chiese come mai non avessi la coda. Qualcuno chiede perché gli ebrei abbiano ucciso Rabin - sale a galla questa domanda e mi trovo in un giorno qualsiasi degli ultimi duemila anni, e il suono è lo stesso della domanda del perché gli ebrei non vogliono stare con gli altri, perché sono così ricchi - perché hanno ucciso Gesù. E finisce che si sente bene il rumore dell'avversione antica. Il rumore delle parole dei nostri padri, il controcanto della scrittura di Kafka, l'anello del Bolero di Ravel. E io lo sapevo che sarebbe successo. Ma nelle scuole è bello parlare della Shoah - dato che la giovinezza è una città aperta, e se ti colleghi alle emozioni universali, se fai apparire la vita, i ragazzi ascoltano. Tengono gli occhi a terra, vedono il fondo del male. A volte dopo ci abbracciamo, sconosciuti con sconosciuto, e mescoliamo lacrime.

Circa la memoria e circa la solennità, ho appreso tutto da mio padre. Per le cene di Pessach, lui non poteva fare a meno di ricordare. Sedevamo a tavola, e nell'intervallo del racconto della fuga dall'Egitto, mio padre piegava la testa e raccontava; e io imparavo che azione fosse il ricordare. La guerra appena finita era un tempo remoto. Un altare omicida, immenso e inspiegabile come il monolito di "Odissea nello spazio". E su questo altare, l'intero mondo - i nomi della nostra famiglia, l'amore e l'amicizia di gente sconosciuta; ogni età della vita, le giovinezze e l'infanzia promettente - tutto era stato sacrificato da uomini venuti a portarci via, con gli stivali e gli elmetti segmentati. Esseri che dicevano ja, dicevano juden. Ringhiavano. La notte entravano nelle case, strappavano i bambini dalle braccia delle madri, li tiravano per aria, sparavano con il mitra - e la nostra carne era cacciagione. La cacciagione veniva colpita e allora i bambini smettevano di volare. Quelle sere di Pessach ormai erano passati quindici, venti anni, tutto era lontano e tutto era appena successo; e anche adesso, tutto è appena successo e la Storia è una normale sequela di giorni più impolverati del solito. Ma sono in mezzo al popolo d'Israele, e quel giorno di gennaio, o in altri improvvisi giorni, tutto questo è in me; mi aspetta in fondo a una cantina a cui è possibile accedere scendendo da certe scale buie. Succede perché lo dice il calendario; perché vedo una foto; perché siedo in poltrona davanti a mio figlio e penso a mio padre in poltrona davanti a me. O viene la notte e devo sognare che buttano giù una porta, gridano raus, e le mie gambe sono immobili. Perciò il quindici maggio, o il ventisette di gennaio, sono i giorni in cui non vorrei esserci, ma poi succede che ci sono - e io lo sapevo che sarebbe successo.

Un altro giorno della Memoria - capisco un'altra volta che il bene è una parentesi; una cosa ignota; un pensiero un poco stupido dell'infanzia. E anche se sei preparato che il lupo della memoria ti entra in casa, e non lo fai entrare, e lo scacci, quando poi viene coi denti aguzzi dei ricordi, hai paura - sapevi che il lupo sarebbe venuto un'altra volta, e non hai saputo prepararti. Sei di nuovo caduto nella trappola di giocare a una vita normale. Non c'è ebreo che non abbia ricevuto il morso iniziatico dei ricordi. Come se chi non lo riceve non sia davvero ebreo - ma uno spazio umano preso in affitto da qualcuno. Perciò quando si avvicinano le date della Memoria, comincio a sbuffare, a girarmi da un'altra parte. Non voglio vestirmi di nuovo da errante, fare quei sogni; vivere nella fatica delle altre generazioni; passare il terrore a mio figlio. Ma un uomo che non si colleghi con le proprie emozioni, è come un bicchiere bucato: è inutile. Perciò mi collegherò di nuovo ai ricordi e lo farò per mio figlio - perché il mondo si calmi; perché niente vada perduto e si voglia bene a Israele. Ma sale quell'urlo forsennato, il sangue si gela. La vita è friabile come un biscotto; una colossale menzogna che pronunci ogni giorno, quando dici che tutto va bene. Devi fare un'altra volta il calcolo di quanto venga al chilo essere ebrei; quanto pesa nei giorni e quanto pesò alle persone che hai amato e non ci sono più, e non ti possono dire: a me pesò così e così. Oddio, sospiri, e ricominci a vivere quei giorni come se fossero ora - e io lo sapevo che sarebbe successo.

Il 27 gennaio di quest'anno, dovevo andare in un istituto tecnico agrario di Grosseto, dove insegna un mio caro amico. Claudio. Mia moglie mi ha accompagnato alla stazione. Ho fatto il biglietto, è arrivato il treno e mentre salivo ho dato un pugno nell'aria. Erina è sapiente, e ha detto ma no, poi sarai contento. Mi sono fidato e sono partito. Però mentre i binari cominciavano a correre con gli alberi, e la collina si allontanava, io sentivo male. Ma ecco che alla stazione di Grosseto, sul marciapiede, c'è un mio amico che per l'appunto fa lo scrittore, si chiama Luigi. E' lì a prendere dei suoi amici olandesi; scendo e lo chiamo, Luigi!, con gratitudine, come se mi fossi trovato sulla Muraglia Cinese e mentre ero in cima a quei chilometrici spalti, dall'altra parte del mondo, mi fossi trovato davanti al portone amichevole di casa mia - per dire come mi sentivo lontano finché non ho trovato Luigi, forse per caso, sul marciapiede della stazione di Grosseto. Gli ho detto che dovevo fare, mi ha guardato e voleva portami in giro; ma ci siamo seduti a bere un tè nella domesticità della piccola stazione. Poi l'ho salutato, ho detto ciao, e ciao aveva un buon sapore di tranquillità. Fuori dalla stazione c'era Claudio, e a quanto pare il mio viaggio era oliato a dovere, come un meccanismo che non può che fare la sua corsa, e la corsa era partita bene; c'erano amici che si davano il cambio per prendermi alla stazione, e i miei vecchi lassù stavano facendo un gran lavoro. Claudio mi ha detto: senti, prima di tutto andiamo a comprare la frutta. Mi ha fatto salire in auto e sono rientrato nella deliziosa vita. Questo posto della frutta era un negozio grande, i soffitti alti, con barricate di cassette di arance. Un caveau di tarocchi, verza, e amichevoli patate; a volte anche la frutta e la verdura ti vengono a prendere alla stazione e ti danno una pacca sulle spalle. Lì al negozio c'erano due a servire, amici di Claudio. Due fratelli. Ora hanno questo negozio, ma prima facevano il mercato. Aspetta, fa uno di loro, senti qui, e mi passa un'arancia. A quell'ora della sera il negozio era belle e vuoto. Lui mi passa l'arancia, l'addento, è così dolce - eppure è materia di questo mondo. Claudio dice che il giorno dopo vado a scuola sua a parlare per il ventisette; che sono ebreo. Uno dei fratelli mi guarda a dritto, come dire: allora te ne intendi. E comincia a raccontato della Pasqua del 1943, del bombardamento di Grosseto; che la gente andava in giro con le carriole e dentro le viscere dei figli. L'ortolano racconta, ha la barba lunga di fine giornata, e la voce maremmana si spacca in due. Dopo siamo andati via con la spesa, e sulla porta, il fratello che era stato zitto, invece di dire buona sera come di solito nei negozi, mi ha stretto un braccio.

E siamo andati a casa di Claudio. Lui vive da solo alla penultima rampa di una palazzina di qualche piano. A casa sua c'è sempre una fila di amici di passaggio che vanno al nord e al sud dato che Grosseto è una tappa intermedia. Canoisti, frati, pellegrini per Santiago, uomini della Croce Rossa con cui è andato in Iraq. Studenti che sono stati a scuola con lui e gli vogliono bene. Stavolta c'ero io. Siamo andati sul terrazzo perché doveva ritirare i panni. Aveva un fagotto sotto il braccio. L'ha aperto, era un grande corno di bue. Questo qui, mi fa, stava in una fattoria in mezzo a dei mucchi d'ossa. L'ho fatto svuotare, mi fa, e adesso lo so suonare. Senti, mi fa. Era buio, saranno state le sette e mezza di sera. Si è avvicinato alla ringhiera del terrazzo e ha portato il corno alla bocca. C'era uno scirocco anormale per gennaio, dolce. Questo mio amico ha gonfiato le gote, ed è venuto su un muggito lungo, tranquillo. A guardare in fondo e lontano, si vedevano le luci dell'Amiata. Allora, gli ho detto, domani portalo a scuola che lo suoniamo - come se fosse possibile suonare un corno in due; ma era un suggerimento arrivato da posti dove il vento è un amico, le arance fanno le carezze e il corno si suona insieme. Il mattino dopo, Claudio mi mostra come è fatta la scuola. Le aule sono piene, le lezioni in corso; nei corridoi girano ragazzi con la faccia allegra e il mio sollievo è grande. L'istituto è un vasto anello quadrato percorso da un corridoio: ai lati esterni del corridoio girano le aule, a quelli interni le vetrate. Cammini e oltre i vetri, dall'altra parte dell'anello, ci sono porte spalancate; si vedono aule, i ragazzi a lezione, e si alzano mani a salutare Claudio. C'è sempre del buono in una scuola.

L'aula magna è deserta, ho un'ora per raccogliere i pensieri. E' il ventisette gennaio 2007; ho una moglie e un figlio su una collina della provincia di Siena; mio padre e mia madre sono sepolti a Haifa. I miei fratelli e i miei nipoti vivono sparsi in Israele. Io sono qui, dall'altra parte del mare, in una scuola. Sto per collegarmi all'essenza di cosa sia successo sessant'anni fa alla vita ebraica; sentire sul serio che accadeva quando fummo buttati sui vagoni-merci: i milioni di allora, noi di adesso che ricordiamo e le generazioni di poi, che ricorderanno dalle nostre bocche le vite dei nostri padri. Intanto però, sento i respiri asmatici di quei giorni e lo sapevo che sarebbe successo. Tra poco arriveranno i ragazzi, parlerò del romanzo, della Shoah che intossica il presente della quarta generazione ebraica. Allora vado alla lavagna e scrivo: "Di padre in figlio".

L'aula magna è piena. La mia bocca parla tutta la mattina. Ci sono poche domande. Hanno bisogno di ascoltare. Poi è la fine, c'è un applauso. Lo fermo. Il battito delle mani si gela. Grazie ragazzi, ma questa è una giornata di un lutto immenso. Il popolo ebraico, dico, è nello strazio. Vorrei fare una cosa con voi. Se volete. Fanno di sì con la faccia, come i bimbi. Dunque si alzano senza un gemito di sedia. Claudio, faccio. Claudio viene alla cattedra; ha il corno sotto braccio. Adesso il corno di quella mucca maremmana è diventato shofar, l'antico corno sacerdotale. Dico che stiamo per ricordare i sei milioni di ebrei scomparsi, questi padri e queste madri, questi nostri bambini che non sono cresciuti. Questo intero popolo della cui presenza siamo stati rapinati. Per il primo milione di ebrei, dico. Claudio gonfia le gote. Un lungo suono buca da parte a parte la stanza, esce e buca Grosseto e la marina, e l'anno 2007 appena cominciato; e torna a quei giorni - e quei giorni tornano accanto a noi. Il mio cuore è immobile, forse sono morto, e forse la scuola mi tiene dentro alla vita. Una parte di me continua a pensare - a Sandor, a Eliezer, a Shlomo, a Lea, come a una ignota parte di me stesso rimasta nuda e da rivestire, come anomali figli più anziani del padre; penso a mio padre salvato e sommerso lo stesso. Ai nomi che non ricordo, se non li scrivo. Per il secondo milione di ebrei, dico. Il suono parte ancora, un lungo sospiro. Per il terzo milione, dico - e questa volta la voce si spezza. I ragazzi guardano a terra. Per il quarto milione, per il quinto. Per il sesto. Siamo arrivati ad Auschwiz. L'aula magna si svuota in silenzio.

Alessandro Schwed

il Foglio,14 aprile 2007

 
 
 
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