Schwed RaccontaSu e giù per la tastiera |
C'ERA UNA VOLTA MONTALCINO
JIGA MELIK E IL SIG. SCHWED
Jiga Melik è l'alter ego intermittente dello scrittore Alessandro Schwed. Il signor Melik nasce nel 1978 nella prima e provvisoria redazione del Male, un ex odoroso caseificio in via dei Magazzini Generali a Roma. Essendo un falso sembiante di Alessandro Schwed, Jiga Melik si specializza con grande naturalezza nella produzione di falsi e scritti di fatti verosimili. A ciò vanno aggiunti happening con Donato Sannini, come la consegna dei 16 Comandamenti sul Monte dei Cocci; la fondazione dell'Spa, Socialista partito aristocratico o Società per azioni, e la formidabile trombatura dello Spa, felicemente non ammesso alle regionali Lazio 1981; alcuni spettacoli nel teatro Off romano, tra cui "Chi ha paura di Jiga Melik?", con Donato Sannini e "Cinque piccoli musical" con le musiche di Arturo Annecchino; la partecipazione autoriale a programmi radio e Tv, tra cui la serie satirica "Teste di Gomma" a Tmc. Dopo vari anni di collaborazione coi Quotidiani Locali del Gruppo Espresso, Jiga Melik finalmente torna a casa, al Male di Vauro e Vincino. Il signor Schwed non si ritiene in alcun modo responsabile delle particolari iniziative del signor Melik.
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Quello che su Genesi non c'è (Il Foglio, 12 gennaio 2013)
di Alessandro Schwed Voglio dirvi come ho cominciato a pensare al giovane Adamo. Ero in pensiero per lui. Mi riferisco a prima di Eva, al tempo di cui non si parla come se se quel tempo non ci sia stato. Il tempo dell’adolescenza, quando essere solo fu la realtà a cui prima non aveva fatto caso. Tra turbamenti., quando dovette domandarsi dove erano finiti suo padre e sua madre. Perché era l’unico uomo. Adamo, nudo in tutto. Così ho iniziato a preoccuparmi per quel ragazzo come se fosse qui, ora, e avesse bisogno di noi. Di compagnia, di baci, di qualche dritta. Non ero in pensiero per il progenitore, ma per questo nostro figlio, disperso in un primordiale presente parallelo, da soccorrere immediatamente con una spedizione nel trapassato remoto. E succede tutto un giorno, quando mi comincio a chiedere: dove sei, Adamo, figlio nostro?
Adamo è qui. A neanche quattrocentomila anni. Lo vedo distintamente: ha un piede nell’infanzia. Avrà tredici anni. Il velo dorato che incornicia il volto arrossato dalla vita all’aria aperta, è la sua barba. Una peluria anch’essa dorata gli scende sul petto come minuto fogliame, e si sparge sul corpo nudo. Non stupisce che lui sia nudo, ma che sia non bello: basso e tozzo. Rincagnato. Siccome qui è autunno, lì è autunno. Il giovane Adamo ha un brivido, e non sa che cosa sia un brivido, da che derivi. E’ ignaro di tutto. Non sa che sarebbe meglio non tuffarsi in mare da uno strapiombo, che non deve esporsi troppo al sole, che quando lo scirocco diventa più fresco e la pelle si contrae, è un brivido di freddo, così un’altra stagione è passata e bisogna rifugiarsi coi grandi animali pelosi nei buchi dentro la collina, accovacciarsi al buio, nutrirsi dai favi di miele. E dopo dormire fino alla prima brezza di fiori. Ma ora che è autunno, il giovane Adamo incassa i brividi come se non lo riguardassero. Lui non è a conoscenza di niente. Nel giardino non esistono vecchi che insegnano: c’è il giovane Adamo. Né esistono scritti sulle consuetudini umane, o un alfabeto. Non esiste memoria da cui afferrare sapienza e devozione. Non c’è il passato, è appena nato il presente. La specie umana è Adamo. E secondo quello che si dice e che fu detto ancora tempo prima, quando si era appena cominciato a usare la bocca per parlare oltre a masticare, in quello chiamato il tempo del Giovane Adamo, il Giovane Adamo non ha visto davanti ai suoi passi nessuno che non è aquila, volpe, germano, orso, pesce. Nel frattempo che è giovane, gioca con le creature che arrivano dai tre fiumi, che sbucano dal bosco, girano nel cielo. Si è saputo da chi c’era stato e aveva visto che allora non esisteva la caccia, la pesca, e si mangiano i frutti della terra. A Eden, nessuno teme nessuno. Si è insieme come un corpo unico che è bue, pioppo, tasso, tigre, insetto, ulivo. Il Giovane Adamo gioca: rincorre volpi, leoni, cavalli, ed è rincorso. La notte ascolta la quercia e il platano che scricchiolano, corre da loro e loro gettano profumo sulla sua testa. Il linguaggio del giardino è un’arpa di vibrazioni dalle cui corde parla ognuno, e lui vibra assieme alla natura che vibra, o che inizia a vibrare se lui ha vibrato. Se lo stomaco vibra, vibra l’odore del fico e Adamo va sotto al fico, mangia i frutti caduti ed è saziato; se lui è su un pianoro sconosciuto e vibra l’arsura della sete, il ruscello vibra, allora Adamo va al ruscello, beve, e nel corpo cessa la sete. Se con il buio, l’energia affievolisce la vibrazione, è il riposo che dice di riposare, ed è così che si esce dalla legge del giorno e si entra in quella della notte, quando il giovane Adamo ha sonno e cade al suolo come un tronco. Allora chiude gli occhi, lascia che la quiete entri, e il giorno dopo la forza è rinnovata. Si chiama dormire. Che lui appoggia la schiena alla schiena di un albero, si corica sull’erba, sul fianco del cavallo, della gazzella, dorme con la volpe che dorme sul suo petto. Tutto riposa e Adamo sta nella quiete. Lui non ha paura di giacere in qualsiasi posto davanti al mare, in cima ad albero, sulle erbe della piana. Nel giardino, niente lo ha mai turbato - a parte la solitudine. Non sa ancora che dietro al semplice freddo, a un tuffo nello strapiombo sul mare, una corsa nella tempesta per acchiappare i fulmini, si nasconde la morte - non sa che ci sia la morte. E secondo quello che si dice che si diceva che fu detto ancora tempo prima, in quel tempo della giovinezza, senza Eva accanto a lui, senza i figli che solo poi verranno, il giovane Adamo ignorava l’esistenza della sospensione senza appello, la morte. Non sapeva di malattie come la vecchiaia, la polmonite, la tubercolosi, la scabbia. Del resto, secondo quello che si dice, che si diceva, che fu detto da chi vide, all’inizio la morte non allignava nel giardino. In quel tempo di prima della morte, i corpi sospendono la vita ma non si deteriorano. Non diventano ossame. E prima della morte, a Eden le foglie non cadono. E dai primi che videro padre Adamo ormai molto vecchio, da lui stesso fu sentito raccontare così: “Figli miei, a Eden, prima che finisce il fantastico tempo della concordia generale, al tempo di prima della morte, quando niente si decompone e dal corpo dei non vivi non esce l’ossame e visceri corrotti; al tempo prima che le foglie cadono, al tempo prima che per un’immane sciagura nel Giardino c’è la morte, prima che tutto inizia a marcire, questo vostro Adamo ha visto che le foglie non cadono e le creature non muoiono ma si addormentano. Che sembra che pensano e invece non ci sono”. E un’altra volta, che Adamo è vecchio e sente che ormai è fiacco, lui dice ai discendenti intorno al fuoco catturato con audacia da un albero colpito da fulmine, che lui ricorda quando la morte non era che sonno. Che lui era nel Giardino e incontra la cerva amica che sta dormendo in mezzo ai fiori rossi e anche se grida “Ohh!”, lei non si sveglia. La cerva era coricata per sempre su un fianco. Dura come uno di questi sassi. E la videro anche i figli di Adamo prima di fuggire, a quel tempo che erano bambini. Dopo molte stagioni di sonno impietrito, la cerva era sdraiata in mezzo ai fiori rossi, sempre giovane, la carne non corrotta. In quel tempo la morte non era nel Giardino, e lo stesso fatto vide il giovane Adamo con il gorilla che donava le noci e le ghiande, a cui grattava le spalle e il gorilla sospirava. Che una volta il giovane Adamo va e trova il gorilla sdraiato sotto al baobab, con gli occhi aperti ma senza il fiato. E il domani di quel giorno, il ragazzo va a trovarlo per vedere se si sveglia, ma quello non si sveglia, e dagli occhi di Adamo escono lacrime e tutto il volto è bagnato come se piovesse, e il ragazzo scopre le lacrime. E quella non è la morte, ma un sonno senza appello, ma è inutile provare a svegliare il gorilla, ma il gorilla dorme, ma il giovane Adamo sa che i corpi di quelli che non si svegliano più, odorano della natura buona. Non come dopo, quando scappammo dal giardino, che a un tratto la morte non perdona più e i corpi dei dormienti mandano un odore fetente. Mentre prima nel Giardino la morte era un sonno gentile. E nel giardino si vedevano molte creature ormai vuote della vita: Adamo transita, si ricorda di loro e le saluta. E basta. A Eden il ragazzo non ha la casa: ovunque per lui è casa. La casa è tutta la terra che percorre e che ogni giorno si allarga. La casa va dagli alberi che incontra agli stagni con le fiere che devono; va dalla grande acqua che non ha fine sino a tutta la pianura che ha esplorato solo con gli occhi perché è lunga. Ovunque è casa sua, sua personale eredità. Le stanze sono le spiagge dove Adamo si sveglia al mattino, l’erba morbida dei campi il pavimento, le cime dei palmizi le finestre da cui guardare il mondo. Il giovane Adamo è festoso. Il giovane Adamo poi capisce - anche se non sa quanto è prezioso che lui può capire, anche se non sa quanto ancora deve capire. E capisce che gli stati della natura, come il giorno e la notte, corrispondono a stati dentro Adamo. E quando sente che dentro di sé si forma qualcosa di molto simile alla notte, lui sa che è la malinconia che arriva come una sassata e che ciò dipende dalla solitudine, e sa che un offuscamento lo interroga e lui dovrà capire. E ha una sapienza: quando dentro di lui si forma il buio, lui lascia che succeda perché sa che niente si ferma per sempre. Che il giorno è bello ma viene la notte e poi anche la notte se ne va. Tutto scorre e non permane. Non permane il pericolo, non la sicurezza: entrambe se ne vanno. Non permangono la felicità e la tristezza: se ne vanno entrambe. Le creature giocano con lui, e se ne vanno. Piove e la pioggia finisce. Così col vento, così con l’allegria. Tutto fluisce e tutto cambia: si tratta di assecondare, ma il suo umore non è di assecondare sempre come fanno le creature che sono ignare. Lui vuole determinare personalmente quanto succede: vuole decidere. La questione è che il giovane Adamo è diverso. E’ l’unico che va su due piedi e non su quattro, che non è curvo come il gorilla, che non si sposta in gruppi come cervi, cavalli, fagiani e i pesci innumerevoli nelle acque. La sua voce è diversa: non ruggisce come quelli che ruggiscono. Non latra come quelli che latrano. Né sibila come chi si attorciglia fra l’erba e fa sssss. Può imitare l’acqua che scroscia, le fronde che scricchiolano, il lupo che ulula, la rondine che garrisce e la pecora che bela, ma di imitare lo fanno anche certi uccelli colorati. Adamo però, oltre a rifare i suoni di Eden, fa i suoni dei sentimenti. Lascia andare la voce. Canta. C’è il canto del gioco coi puledri, del mare mosso, del sole che sorge e di quando è solo. Adamo canta, allora gli animali vengono da lui e assistono curiosi, catturati. Solo lui sa fare il canto, e gli animali cadono addormentati. Poi c’è l’altra voce, la Voce che sorge ovunque, al di sopra il bosco e dentro il cuore. Voce non-si-sa-da-dove, che forse abita sulle nubi o nelle scie di fuoco che la notte attraversano il cosmo. Voce profonda o leggera. Solenne o confidenziale. Come la brezza e anche come il tuono. Che arriva quando l’aspetti da mesi e quando non te l’aspetti. Che la puoi chiamare per giorni e giorni, e non viene. Che ti ignora e che è sorda, e che poi viene e fa come se fosse giunta immediatamente, e dice: “Che vuoi dunque?”. Viene perché il ragazzo ha desiderio che la pioggia finisca, che il freddo si ritiri, la leonessa torni a giocare. Altre volte la Voce viene prima che il ragazzo la cerchi. Viene, e gli insegna. Viene, e lo riempie. E questo è quello che si dice di essere successo nel tempo in cui il Giovane Adamo era nel giardino e da dentro di sé dialoga con la Voce e la Voce risponde. Il primo ricordo della Voce è presso un albero. Lui era un piccolo di uomo, a suo confronto gli alberi sono alti fin E la Voce viene e gli impartisce: “Mangia quel frutto e quello: ma non quello, Adamo. E mi raccomando, abbi ricordo di non farlo!”. Adamo era un piccolo e la Voce lo istruiva. Lui aveva fame e la Voce lo istruiva come nutrirsi. Lui mangia i frutti che sono a terra ed è saziato. Un’altra volta è cresciuto e la Voce dice al ragazzo che lui è della specie dell’uomo, è stato fatto con la terra e che lo ha chiamato Adamo perché lo ha tirato fuori dalla terra, che si dice adamà. Nei giorni in cui nel cuore del ragazzo c’è buio perché gli uccelli e gli animali del bosco hanno il branco e lui di simile ha solo la propria ombra, il giovane Adamo siede su un sasso vicino allo stagno. Ha la testa tra le mani, è così triste. Allora viene la Voce e dice al ragazzo di dare un nome alle creature e dopo il nome delle creature rimane per sempre perché a dare il nome è lui, a cui il giardino è affidato. Adamo è lieto e inizia a svolgere il compito. Nomina le creature: la lepre veloce è lepre, la volpe che gioca è volpe, il merlo spiritoso è merlo. E così per il leone, la lince, lo scoiattolo. Il giovane Adamo li osserva sempre e pensa: ha visto nascere i figli delle creature e nessuno è uscito dal bosco o dal cielo, ma da ventre profondo o da uovo. Tu guarda la pecora: i figli della pecora spuntano dal ventre di questa pecora. La pecora li lecca, socchiudono gli occhi e sono nella gioia. Un giorno diventano pecore meno piccole, poi vere e proprie pecore. Anche lui era piccolo e poi meno piccolo. E il giovane Adamo si chiede: come mai io sono cresciuto come i figli di volpe, di tasso, pantera, e la Voce dice che non sono venuto da ventre di uomo, ma dal ventre della terra? La terra non è calda, non è accogliente. E’ scura. Non lecca, non allatta. E’ senza voce, non canta. Adamo non capisce perché lui è nato dall’abisso tremendo. E un’altra cosa non capisce: come è fatto questo Adamo che è lui? Il cerbiatto è una delizia, lo vedi saltellare. La lepre è aggraziata e veloce. Il pavone un grande fiore che si apre e si chiude. Ma come è fatto Adamo davanti, e come dietro? Adamo vede sempre uno dentro allo stagno, ignora che lui nell’acqua è un suo riflesso. Adamo vede l’immagine nello stagno e crede che lo stia guardando una creatura che abita sotto l’acqua e non ne esce. Che non grida e non fa rumore. L’immagine guarda Adamo che lo guarda, sbatte gli occhi quando li sbatte Adamo. Se Adamo grida, l’immagine apre la bocca come se gridasse. Se Adamo fruga l’acqua con un ramo, l’immagine sparisce un cerchio dentro l’altro. Peccato che l’immagine non esca mai dall’acqua: sarebbe la creatura più affine, anche se la più sfuggente, la più invitante anche se la più restia. L’immagine potrebbero essere un suo, ma Adamo non ha ancora determinato la parola “amico”. Il ragazzo poi sente di non essere stato sempre uno solo. La sera, prima che la coscienza svanisca fino al mattino, il ragazzo pensa: “All’inizio ero con qualcuno come nel sonno della notte”. Ma nel sonno della notte si formano cose che non esistono, sono aspirazioni. In quel mondo della notte, una notte appare una scimmia uguale all’immagine che lo fissa dall’acqua, ma più grande e meno bella – perché l’immagine nell’acqua è più bella. La scimmia che vede nel sonno non cammina, dondola e grugnisce. Ma apre la bocca per sorridere. Chi è dunque quella scimmia, è forse uno che c’è che poi ha camminato lontano? Una sera, il giovane Adamo è davanti a una radura mai vista. In fondo alla radura, c’è una montagna che sparisce nel cielo, un giorno lui ci andrà. Il ragazzo mangia un fungo odoroso e si addormenta nei pressi di un albero. Giace su scomodo terreno, un sasso aguzzo gli molesta il petto. E ora un’immagine cammina nella radura senza dondolare, è in piedi come lui. Forse che l’immagine è uscita dall’acqua? Ma non è l’immagine dell’acqua: ecco, è più bassa, più minuta. Chi è stavolta? Il giovane Adamo non sa se sta dormendo. Tutto accade verosimilmente, ma lento. L’immagine si avvicina, è meglio fingere di dormire - stavolta ha paura. Lui spia l’immagine da dentro le ciglia, questa immagine si china su lui, lo annusa. Questa immagine non ha peli e viene buon odore. Questa immagine tocca il suo braccio con dita gentili. Il ragazzo apre gli occhi. Questa immagine esiste proprio: ha capelli, mani, con la bocca fa come quando lui è lieto: scopre i denti. Che sia finalmente qualcuno che giunge e gioca con lui? Che cammina con lui? Che è sempre con lui? Un secondo lui, ma non lui? Come per il cervo c’è la cerva, per il leone la leonessa? Adamo gioisce: da dove viene una simile pienezza? Si alza, il petto duole: mentre dormiva le sue costole sono state molestate da quel sasso. Nella notte, la Voce ha detto: “Non è bene che Adamo sia solo. Ti farò un aiuto adatto”. La Voce deve aver preso quel sasso aguzzo, tagliato il suo petto, poi ha tratto l’immagine che viveva dentro le sue costole, l’ha messa nel mondo e l’ha fatta arrivare fino a lui. E’ lì dentro che lei abitava. L’immagine adesso è davanti a lui. Respira con quel respiro uguale al suo. Questa volta non è immagine. E’ osso delle sue ossa. La chiamerà Eva. Alessandro Schwed
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