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« I nipoti di PrometeoComplicate »

Il lavoro

Post n°374 pubblicato il 16 Ottobre 2014 da meninasallospecchio

L'ho presa molto alla lontana nel mio post precedente perché volevo parlare del lavoro. Non del job's act, non dell'inutile articolo 18, ma dell'idea stessa del lavoro e di quello che rappresenta per noi nipoti di Prometeo. Anche se, a onor del vero, quando mio figlio mi ha chiesto che cosa significa che l'Italia è una repubblica fondata sul lavoro, non sono stata in grado di spiegarglielo. Voi lo sareste? A me sembra una frase retorica dai contenuti incerti o divenuti incomprensibili per la lontananza culturale. Eppure fondata sul lavoro è tutta la nostra civiltà. Ha senso ribadirlo per un singolo stato, come se fosse una scoperta dei padri costituenti? Di che lavoro parlavano? Di quello della classe operaia o, come intendo io, del fuoco dell'ingegno e dell'agire umano? Mah... spero che a mio figlio lo spieghi qualcuno con le idee più chiare delle mie.

Ma tornando a noi, avete mai provato a restare senza lavoro? Mi scuso in anticipo se questo discorso sembrerà snob a chi ha preoccupazioni economiche più serie e immediate delle mie, ma vorrei affrontare l'argomento da un punto di vista esistenziale, lasciando per un attimo da parte gli aspetti pratici. Del resto questa è l'esperienza mia e di parecchie persone che conosco, alle quali è capitato in questi anni di restare temporaneamente o definitivamente disoccupati. In molti casi il pensiero di arrivare a fine mese non c'era, non a breve termine almeno. Alcuni sono stati lasciati a casa con una buonuscita; i dirigenti vengono licenziati con due annualità di stipendio; i più fortunati sono stati pre-pensionati. Verrebbe da pensare che in questo caso possa persino far piacere ritrovare la libertà dalla costrizione di un impegno quotidiano, avere più tempo per sé, per la famiglia, per i propri hobby.

Eppure non funziona. Non avrei mai creduto. Onestamente faccio un lavoro di cui non dovrei lamentarmi, ma verso il quale non nutro nessuna passione, anche se non fa figo dirlo. A ben vedere ho avuto, come molti della mia generazione, una parabola professionale in declino: il mio lavoro attuale è parecchio al di sotto delle mie capacità e anche di quello che facevo in passato. Ma non mi lagno, è quasi completamente per causa mia. Ad un certo punto, lo scorso anno, sono rimasta improvvisamente senza lavoro. Sono una partita IVA più o meno vera, quindi dallo 0 al 100% di occupazione (che neanche vorrei) ci sono tante gradazioni: ma in quel caso era 0. Era luglio, c'era il sole, stavo in cima al bricco. Economicamente, sebbene non ricca, sono tranquilla. Chissenefrega, mi sono detta, mi godo l'estate, poi qualcosa succederà.

E così è stato. Ma, passata l'estate, non è cambiato nulla. Non è che io non abbia niente da fare, tutt'altro. E sono piena di interessi, cose che mi piacciono molto di più del mio lavoro, incluso stare qui a scrivere il blog. Però non c'è storia: neppure la persona più ricca di interessi sfugge alla sensazione di inutilità che ti deriva dall'essere disoccupato. Non importa quanto di merda sia il tuo lavoro: basta l'idea che il tuo tempo sia retribuito, anche poco; basta pensare che stai dando il tuo microscopico contributo al mondo. Certo, il contributo puoi darlo ugualmente facendo altro: ma non è la stessa cosa.

Eppure finché ci sei dentro quasi non te ne rendi conto. Ti racconti che va bene così e intanto sprofondi in una lieve depressione e in un'apatia che ti porta a fare sempre meno, accompagnata da una vaga sfiducia nelle tue capacità. L'ho visto capitare a tanti, amici, parenti, colleghi: e sempre ho visto le persone passare da un iniziale stato di relax e benessere alla noia, alla pigrizia, alla sfiducia. Finché un giorno non passa di nuovo il treno (ma qualche volta si finisce per non essere capaci di prenderlo). Allora risali sulla giostra di Prometeo e ti rendi conto di quanto stai meglio. Non avresti mai creduto di tenere così tanto a 'sto cazzo di lavoro. Fanculo a Prometeo.

 
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