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«No al razzismo», duecentomila in piazza

Post n°548 pubblicato il 18 Ottobre 2009 da manonsolospine

«Noi 'volliamo' permesso di soggiorno», intonano. In italiano, tamburellato, scandito con ritmo africano, come una litania infinita. Lo scandiscono da anni. «Casa, lavoro, libertà di culto e soggiorno per tutti, non solo per chi pulisce le case e cambia i pannoloni». E poi: «No al razzismo, no al reato di clandestinità». Sono cento, duecentomila. Una fiumana, che, partita alle 14.30, puntuale, a sera ancora continua a scorrere per le vie di Roma, da piazza Venezia alla Bocca della Verità mentre dal palco una donna minuta, Edda Pando, grida: «Abbiamo riempito questa città, abbiamo dimostrato che questo paese ha un memoria, noi siamo la sua memoria e siamo anche il suo futuro, siamo la società che vuole cambiare questa Italia». Visi neri, occhi scuri stanno ad ascoltarla. È la loro voce quella che dal palco arringa, interroga, accusa, incalza.

Questo paese che «ha conosciuto la tragedia collettiva dei migranti, come mai tira fuori tutto questo accanimento nei confronti dei migranti, nei confronti dei gay, nei confronti dei musulmani, come mai milioni di noi vengono discriminati e non commettono reato come sarebbe il falso in bilancio o corrompere i giudici per poi coprirsi con il lodo, questo degrado culturale è il cancro del paese, è la malattia, non la soluzione», pungola memoria e coscienza un ragazzo venuto dalla Costa d'Avorio, Aboubakar Soumahor, che fa l'operaio ma parla da leader a un movimento che sente alle spalle l'America di Obama («Negli anni cinquanta i neri dovevano cedere il posto ai bianchi sull'autobus, oggi salgono non solo sul pullman ma anche alla Casa Bianca»), e anche in Italia conta già vent'anni di storia. E anche i suoi eroi. «Jerry Essan Maslo 1959-1989» e «Abba 1989-2009», recitano i cartelli con le foto di due giovani africani uccisi a vent'anni di distanza. Li portano per le vie di Roma altri ragazzi, venuti dal Ghana, dalla Costa d'Avorio, dall'Eritrea, dalla Somalia, dal Bangladesh. E arrivati da troppo poco tempo in Italia per sapere chi sono. Che importa? «Sono fratelli».

Fratelli, simboli di un movimento che prende nome dalla manifestazione di oggi («Comitato 17 ottobre», si sono voluti chiamare gli organizzatori). E che oggi, per le vie di Roma, mentre scorreva vastissimo dal Colosseo all'Altare della Patria, si è scoperto moralmente più forte anche della paura. «Abbiamo sfilato per le strade di questa città? Avete avuto paura? Avete temuto per la vostra sicurezza?», chiede Edda. La domanda che la folla dei duecentomila consegna al paese. Insieme ad una verità che dovrebbe essere semplice: «La vita di un essere umano non equivale a un permesso di soggiorno».

«Si alla regolarizzazione di tutti e tutte». «No al razzismo, al reato di clandestinità e al pacchetto sicurezza». La piattaforma è tutta lì sugli striscioni che aprono un corteo dove sventolano le bandiere dell'Arci, della Cgil, dei Cobas, dell'Arcigay, ma di cui i migranti vogliono essere protagonisti.

«I politici devono stare dietro, di vetrine voi ne avete già tante», corrono a riprendere il segretario del Pd, Dario Franceschini, che, all'altezza del Colosseo, a sorpresa, si unisce al corteo, raggiungendo Jean Leonard Touadì. «Questa per i diritti degli immigrati è una nostra battaglia, culturale prima ancora che politica, accoglienza, rispetto delle differenze, il popolo italiano non può perdere questi valori», spiega la sua adesione. «Perché allora il Pd non ha aderito alla piattaforma?», lo insegue un «giovane comunista». «Lo scorso sabato ho partecipato a una manifestazione della Cisl per gli immigrati, in tutti i luoghi dove si manifesta contro il razzismo noi ci siamo», risponde Franceschini. Un immigrato gli domanda: «Possiamo fare un lodo per gli immigrati? O la sinistra sta con gli immigrati o che sinistra è?». Il segretario di Rifondazione Paolo Ferrero gli va incontro: «Ciao segretario». «Ci sono alcune battaglie che continuiamo a condividere», spiega Franceschini a chi gli domanda se quella stretta di mano è preludio a future alleanze. «Con Rifondazione siamo alleati in quasi tutti i comuni italiani», si schermisce.

Paolo Ferrero (Prc), Nichi Vendola (Sl), Marco Ferrando (Pcl), Guglielmo Epifani (Cgil), sfilano attenti a non primeggiare. «Il governo vuole alimentare una guerra tra poveri», denuncia Ferrero. «In Italia – dice Vendola – c'è un clima che fa paura, un clima di crescente inciviltà che, d'altronde, ha accompagnato l'ascesa al governo delle destre ed un lessico ispirato ad un certo degrado culturale». «Troppo razzismo nei sotterranei della società», denuncia Epifani, e poca «consapevolezza dei rischi che corre una società che ha paura e fobia del diverso».

È l'opposizione che fuori e dentro il parlamento prova a dare una risposta a quello che sta succedendo nel paese. Ma nel corteo, è un'altra forma di rappresentanza, senza mediazione, senza mediatori, che irrompe. Quella delle migliaia di comitati, associazioni, coordinamenti di immigrati, che cominciano ad avere voce e leader.

Bridget, nigeriana, 35 anni, da venti in Italia. Qui ha studiato, qui lavora. Fa l'assistente sociale. «Io sono clandestina», ha scritto sulla maglietta rossa. Anche se clandestina non lo è più. Dal 2003 è diventata cittadina italiana. E ora lotta per gli altri. Con l'associazione delle donne nigeriane, con la diaspora africana, sull'onda di Obama «per modificare l'immagine del nero e dell'immigrato». Per lei nell'Italia degli anni '90 non è stato facile ma ora è peggio. «Vent'anni fa c'era almeno la possibilità nel tempo di inserirsi, adesso no, non riesci nemmeno a rinnovare il permesso di soggiorno». L'Italia – dice - è peggiorata perché si è messa a discriminare tra i diritti degli altri e quelli degli immigrati, che sono tagliati fuori dal welfare, «non hai diritto alla casa, non hai diritto a niente, se perdi il lavoro diventi clandestino».

«E adesso denuncia anche me», in corteo sfilano tante, tantissime magliette disegnate da Staino per l'Unità. Elisa, diciannove anni, capelli biondi, occhi azzurri, ha fatto in tempo a comprarla allo stand di piazza della Repubblica prima che il corteo partisse. «Bella vero?», la mostra. «Sono qui perché ci tengo», dice. A cosa? «Alla libertà», risponde. «In Italia non ci sono leggi che tutelano i diritti di tutti, loro, gli immigrati, fuggono dai loro paesi e se li rimandiamo indietro respingiamo la loro aspirazione alla libertà».

Ci sono anche quelli che l'italiano ancora non lo parlano. Come Collins, 23 anni, scuro come l'ebano, viene dal Ghana. È partito questa mattina da Castelvolturno come gli altri ragazzi con cui sfila in corteo. Vive in Italia da un anno. Abbastanza per capire che per lui non sarà facile. Ha chiesto asilo. Glielo hanno negato. «Questo è il mio problema, niente asilo, niente permesso di soggiorno, niente lavoro». In Ghana ha studiato ingegneria. Lavoro? «Solo in nero, in campagna, a raccogliere pomodori», risponde Robert , 35 anni, 3 figli, del Ghana, anche lui partito da Castelvolurno: «Sono qui – dice – perché lo stato italiano non mi ha riconosciuto, ho chiesto asilo non me l'hanno dato, permesso di soggiorno nemmeno, c'è solo lavoro in nero per noi».

«Ho quattordici anni, sono una seconda generazione ma soprattutto sono africana e sono orgogliosa», grida Fatima, una cascata di treccine nerissime e una grande rabbia per il paese dove i suoi sono venuti a vivere vent'anni fa e dove lei è nata. «Ma in queste condizioni - dice -, in un paese così, sentirsi italiana non è facile...».

«Casa lavoro libertà di culto e soggiorno per tutti», recitano i tazebao volanti appesi al collo. «Noi venuti qui in Italia, pulire loro casa, cambiare pannoloni, ma noi possiamo fare anche altri lavori, ma non è per questo che siamo venuti qua e non è democrazia dare permesso di soggiorno solo a chi pulisce casa e cambia i pannoloni agli italiani, questo è uno schifo di legge», spiega al megafono Goni, che viene dal Bangladesh, 29 anni, un figlio, da 6 anni in Italia, da due anni senza più permesso di soggiorno.

«Perché solo le badanti? Perché non gli edili o gli operai? Questo è razzismo», scandisce un ragazzo che parla un italiano perfetto ma ha i tratti magrebini. «Sono venuto in Italia a due anni, ne ho ventidue, sono italiano, vorrei esserlo anche per lo Stato». In tasca per ora ha un permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Con quello studia, storia a Venezia, e lavora per mantenersi. Ma non è la stessa cosa che avere la cittadinanza italiana. Quella non ce l'hanno né lui che il 25 aprile era in piazza con i partigiani a leggere le lettere dei condannati a morte della resistenza italiana né suo padre che lavora alla Fincantieri, né sua madre. «E' un paradosso, io in questo paese non posso nemmeno votare».

 
 
 
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