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di Giovanni Fornero
Come spiego nei miei lavori, che tentano di offrire un modello di analisi pluralistico, ossia rispettoso dei diversi modi di intendere la laicità, per fare ordine intorno a tale nozione risulta indispensabile distinguere due significati di fondo del termine: uno largo e uno ristretto. In senso largo la laicità allude ad una serie di atteggiamenti metodici (autonomia discorsiva, pluralismo, tolleranza, ecc.) che si riferiscono sia alla sfera teorico-conoscitiva, sia a quella pratico-politica. In virtù del suo carattere procedurale, tale forma di laicità può essere fatta propria da chiunque, cioè non solo dai non credenti, ma anche dai credenti. In senso stretto la laicità è invece propria di coloro che non si limitano a rispettare i sopraccitati criteri metodici, ma che pensano e vivono a prescindere da (qualsivoglia) Dio e da (qualsivoglia) credo religioso. Per classificare il significato largo o metodologico usiamo l’espressione «laicità debole», mentre per alludere al significato ristretto o ideologico usiamo l’espressione «laicità forte» (in questo caso debole e forte hanno una valenza descrittiva e non valutativa).
A mio avviso la laicità debole e la laicità forte risultano entrambe possibili e legittime, al punto che ogni tentativo di eliminare uno dei due significati equivale ad una manifesta forzatura del linguaggio e della realtà. Perché il significato ristretto di laicità - o del laico come non credente - pur essendo ampiamente usato nel linguaggio ordinario, dovrebbe venir «censurato» nel linguaggio colto?
Ritengo che nell’odierna congiuntura storico-culturale il dovere democratico di salvaguardare tutte le identità debba valere non solo in relazione ai credenti, ma anche in rapporto ai non credenti e che la salvaguardia dell’identità «laica» di questi ultimi debba avvenire anche sul piano linguistico. Mi spiace che questo punto saliente del mio discorso sia passato in secondo ordine o non sia stato debitamente sottolineato, quasi non fosse abbastanza evidente che precludere ai non credenti la possibilità di autocomprendersi come «laici» in senso stretto significa privarli di un termine che, nel mondo moderno, è storicamente servito loro per caratterizzare se stessi. Perché chi professa una forma di agnosticismo (o di ateismo) non dovrebbe più essere considerato «laico», ma solo «laicista», con tutti i sottintensi polemici e svalutativi che tale termine, inteso come sinonimo di una laicità «patologica» o «pseudolaica» comporta?
IL RUOLO DELLO STATO
Certo, a queste considerazioni si potrebbe opporre l’idea, divenuta ormai luogo comune, secondo cui oggigiorno non ha più senso parlare di «laici e credenti», ma solo di «laici credenti e laici non credenti». In realtà, quando parliamo di «laici credenti e di laici non credenti» intendiamo, per laicità, quella debole o procedurale. Viceversa, quando parliamo di «laici e credenti» intendiamo, per laicità, quella forte. Per cui, le due proposizioni sono entrambe fattualmente vere e l’una non esclude l’altra.
Poste queste delucidazioni di ordine linguistico e teorico, è chiaro che lo Stato, in quanto rappresentativo di un’area pubblica comune, in cui coesistono credenti, non credenti e diversamente credenti, è tenuto a farsi garante di tutte le identità e di tutte le voci e quindi ad evitare che, in nome di un’unica identità e di un’unica voce (ossia di un determinato progetto egemonico) si soffochino tutte le altre identità e le altre voci. In altri termini, se l’elemento centrale e strutturante della laicità è il pluralismo, è ovvio che la capacità (o meno) di rispettare e garantire il pluralismo rappresenta un obiettivo criterio di giudizio delle varie proposte (o dei vari modelli) di laicità.
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