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Lettore, ti presento il libro

Post n°20 pubblicato il 02 Settembre 2013 da Thamyris
Foto di Thamyris

 Domenica mattina ho letto con gusto l'articolo di apertura del domenicale del Sole 24 Ore (01/09/2013) scritto da Carlo Rovelli sulle prefazioni. Ho trovato lo scritto arguto e pienamente rispondente alla domanda incipitaria "A cosa servono le prefazioni?". Di solito, dice Rovelli, una prefazione serve a contestualizzare quanto si sta per leggere, dando quelle coordinate utili affinché il lettore possa fornirsi degli strumenti necessari all'interpretazione del testo. Poi però, aggiunge, ci sono prefazioni ironicamente dal Rovelli amate: "quelle che si sbracciano per cercare di dire che il libro non dice quello che dice". Una contraddizione in termini che tradisce la "missione" del prefatore, di solito altro luminare del campo o scrittore autorevolmente affermato. Rovelli le trova pericolose perché, ovviamente, travisano il senso profondo del testo, deviando il lettore che magari si avvicina, ingenuus, al contenuto. Non mi dilungo nella sintensi dell'articolo, che a seguire spazia fino ad arrivare all'approccio hegeliano-crociano dello studio made in Italy della letteraratura, ma la lettura mi ha spinto a riflettere su una breve storia della prefazione andando indietro ai miei studi universitari.
Nei testi universitari le prefazioni erano da noi studenti considerate fondamentali, spesso alcuni esami vertevano proprio su di esse, alcuni professori, invece, le bandivano imponendoci di saltarle a pié pari per arrivare il prima possibile al contenuto letterario (mi è capitato con le Great Expectations di Dickens). In un modo o nell'altro, effettivamente, le prefazioni erano sempre tra i piedi. 
Affrontando lo studio successivo della fortuna dei classici, mi sono imbattuto su quella che è stata l'origine di questa forma di paraletteratura. Nel medioevo, quando gran parte della scienza antica era ormai perduta, un testo classico lo si avvicinava soltanto dopo la lettura di un ponderoso "accessus" (introduzione, appunto) che presentava l'autore e l'opera contenuta nel volume. Non siamo ancora nella fase negatoria della prefazione, poiché se un autore veniva corredato da un accessus era implicito che fosse degno di essere letto. Coloro i quali non rientravano nel canone della buona lettratura semplicemente erano ignorati o, nel peggiore dei casi, dimenticati. A seguire l'epoca di mezzo, le introduzioni diventarono la sede preferita per i dibattiti. Gli umanisti spendevano fiumi di inchiostro per giustificare la lettura dell'opera in questione o per leggerla con determinate lenti. Ed ogni opera altrui editata era pretesto per prefazioni spesso capolavori di erudizione. Il prefatore iniziava a diventare importante quasi quanto l'autore presentato. Così fino in epoca vicina alla nostra ed ho compreso bene il perché una prefazione "d'autore" riesce ad avere il peso di una autorevole pubblicità. Ecco, infatti, che partono le gare al prefatore più illustre o al meno severo.
Mi verrebbe da inserire nella categoria anche i blurp pubblicitari che fasciano i romanzi freschi di stampa. Blurp di solito firmati da grandissimi scrittori (roba del tipo: "Il mio autore preferito nella giovinezza", S. King etc etc).
Una prefazione può essere determinante, ecco perché, come mi consigliava il mio professore di Letteratura inglese o come ha consigliato Rovelli, la salto a pié pari e ci torno "a cena finita". 

(In foto: la prefazione di Giuseppe Garibaldi al suo romanzo "Clelia")

 
 
 
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