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Post n°20 pubblicato il 02 Settembre 2013 da Thamyris
Domenica mattina ho letto con gusto l'articolo di apertura del domenicale del Sole 24 Ore (01/09/2013) scritto da Carlo Rovelli sulle prefazioni. Ho trovato lo scritto arguto e pienamente rispondente alla domanda incipitaria "A cosa servono le prefazioni?". Di solito, dice Rovelli, una prefazione serve a contestualizzare quanto si sta per leggere, dando quelle coordinate utili affinché il lettore possa fornirsi degli strumenti necessari all'interpretazione del testo. Poi però, aggiunge, ci sono prefazioni ironicamente dal Rovelli amate: "quelle che si sbracciano per cercare di dire che il libro non dice quello che dice". Una contraddizione in termini che tradisce la "missione" del prefatore, di solito altro luminare del campo o scrittore autorevolmente affermato. Rovelli le trova pericolose perché, ovviamente, travisano il senso profondo del testo, deviando il lettore che magari si avvicina, ingenuus, al contenuto. Non mi dilungo nella sintensi dell'articolo, che a seguire spazia fino ad arrivare all'approccio hegeliano-crociano dello studio made in Italy della letteraratura, ma la lettura mi ha spinto a riflettere su una breve storia della prefazione andando indietro ai miei studi universitari. (In foto: la prefazione di Giuseppe Garibaldi al suo romanzo "Clelia") |
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