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Questo è davvero interessante, e va conservato.
Dal Corriere della Sera, rilanciato su Dagospia.
«Salutavano a pugno chiuso, ma nella vita privata agivano a occhi bene aperti. Più che scegliere la sinistra, è stata la sinistra a scegliere loro; che si sono trovati a proprio agio. Tranne De Gregori, i cantautori italiani erano e sono rossi immaginari. Talora con qualche vigliaccheria. Quando gli autonomi contestarono De Gregori, lui non cantò più per dieci anni. Quando fu contestato Venditti, al teatro Diana di Napoli, lui rispose che stava suonando gratis; chi guadagnava era il produttore. Io. Quella notte rischiai l’incolumità fisica. Poi, come ogni sera della tournée, sotto la porta dell’albergo trovai la ricevuta della cena per due con champagne di Antonello, che non solo era ovviamente pagato, ma pure rimborsato a pie’ di lista».
David Zard, 63 anni, il più importante produttore italiano, l’uomo dei concerti di Madonna, Dylan e Rolling Stones, parla dei suoi artisti con sincerità, ma anche con simpatia. Pure di Venditti. «Mi ha chiesto scusa mille volte per quell’episodio. Si era preso paura, lo capisco. Resta un dato di fatto: la scelta a sinistra di molti artisti italiani è legata a un momento storico di impazzimento generale, gli Anni Settanta, in cui la pressione della piazza era fortissima, e l’ignoranza politica al massimo livello. Gli estremisti pretendevano di entrare ai concerti senza pagare, i giornali "borghesi" badavano a non contraddirli, la polizia non li fermava, anzi: a lungo, sino agli anni più sanguinosi delle Br, in Italia si sono usati anche gli autoriduttori per creare tensione. Gli artisti si sono adeguati, hanno cavalcato l’onda, in bilico tra l’urto degli extraparlamentari e la forza del Pci. Tutto il mondo dell’arte e della creatività è stato cooptato; e a chi ne faceva parte è andata bene così, anche se le idee e il ragionamento li conducevano altrove. Da qui le rendite di posizione, gli appoggi che durano ancora adesso, i condizionamenti: quante volte mi sono sentito dire che quel cantante andava preso perché "è dei nostri". A De Gregori non ho mai sentito dire: "Io sono comunista". Essere, per lui e per me, è comportarsi».
Ne ha conosciuti tanti, quasi tutti, italiani e stranieri. Qualcuno l’ha lanciato. «Branduardi, ad esempio. Una bandiera che va dove va il vento. È un complimento: Angelo è uno di centro, uno che ragiona, può condividere quel che fa la sinistra o quel che fa la destra. Baglioni è un grande artista che non si è mai perdonato di aver scritto "Questo piccolo grande amore": avrebbe voluto essere De Gregori, in cambio avrebbe rinunciato a una parte di successo e di denaro. Invece al denaro, col tempo, ci si affeziona; infatti con Claudio siamo andati in causa. Cocciante è apolitico. Ma la politica non era la cifra neppure di De André, che le preferiva la letteratura e le religioni, aveva una vasta cultura anche dell’ebraismo. Vasco Rossi è un extraterrestre, un fenomeno unico al mondo, ma con la politica non c’entra: ha vissuto la sua giovinezza nei bar dell’Emilia in cui l’unico giornale era l’Unità , ma è una persona aperta, non si identifica con una parte. Jovanotti è un gradino sotto: è molto bravo ed è un ragazzo di cuore; certo che il debito del Terzo mondo è un cavallo su cui sono saliti un po’ in troppi. Quando Bob Geldof mi chiese una mano per il primo Live Aid, gli artisti si defilarono tutti: uno fece rispondere all’agente che aveva una serata allo stadio di Cosenza, l’altro che il disco non era ancora pronto».
E gli stranieri? «Jagger è una macchina promozionale, il manager di se stesso. Questo condiziona gran parte della sua volontà. Essere un rocker lo costringe a vivere dentro l’immagine del cattivo. Fa molto per gli altri, nonostante quel che gli costano i divorzi, ma di nascosto. Madonna è una costruzione. Una bella costruzione, certo. All’inizio era un fenomeno, ora è un’artista. Come donna però resta irrimediabilmente cheap ; non bastano i vestiti su misura di Dolce&Gabbana per fare una signora. Michael Jackson invece è un eterno bambino. Gli hanno rubato l’infanzia, a sei anni lavorava già con i fratelli nel gruppo Jackson Five, facevano tre concerti al giorno in tre città diverse, "purché non distassero tra loro più di cento miglia"; e quando obiettai che era pazzesco, l’organizzatore rispose che in fondo erano stati schiavi sino a qualche anno prima. Per questo non credo all’accusa di pedofilia: i suoi erano i giochi che fanno tutti i bambini. Colpevoli sono semmai le famiglie dei ragazzi, che seguivano in tournée Michael e i loro figli con carte di credito illimitate in dotazione. Dylan è il più vicino ai cantautori italiani, li conosce e li segue, quando nell’84 gli presentai De Gregori non capivo chi tra i due fosse più emozionato. Così come stima Lucio Dalla, grande artista e uomo con una sua profonda moralità». Di Dalla Zard ripropone ora la Tosca, agli Arcimboldi di Milano. La prossima produzione però sta per partire al Gran Teatro di Roma, il Dracula, «la più costosa della mia vita».
Ma lei, Zard, come la pensa? «Non sono mai stato di destra. Come poteva esserlo un ebreo in Italia? Però quando passavo davanti alle Botteghe Oscure avvertivo come un timore, un presagio triste, un senso d’oppressione. Erano le stanze in cui arrivavano le istruzioni da Mosca per il Pci, mi appariva davvero un luogo oscuro. Oggi resto turbato di fronte a Bertinotti, Cossutta, Diliberto che ancora esaltano una figura come quella di Arafat. A sinistra molti sono antisemiti. Possono nascondersi dietro l’ideologia, ma il loro è puro antisionismo e antisemitismo. Eppure il sionismo è la più avanzata forma di socialismo, l’unica che non nega la libertà. Vorrebbero dare la terra a chi lavora, purché non sia ebreo. Per me, che negli Anni ’70 ho conosciuto l’antisemitismo della destra, è stata una sorpresa vedere che alcuni di quella generazione hanno letto, sono maturati, talora simpatizzano per Israele. Di Gasparri si sente spesso parlare male. Però a Gerusalemme lui c’è andato, non una, ma sette volte. Berlusconi? Preferisco Casini».
David Zard è italiano e israeliano, libico e biondo con gli occhi azzurri. Parla ebraico e arabo oltre alla nostra lingua, che pronuncia lentamente con un indefinibile accento esotico. Indefinibile è l’origine del suo nome: «Gli ebrei arrivarono a Tripoli in età preromana. La mia famiglia viene dall’Italia, credo; e comunque dopo il 1911 siamo diventati tutti italiani». A Tripoli avevano una tipografia dove vendevano anche libri e giornali. «Ogni dieci giorni, quando arrivava la nave "Argentina", avevo il compito di aprire i pacchi. La collana Medusa della Mondadori: verdi i romanzi, arancioni i classici. Ricordo l’assalto quando uscì Lolita di Nabokov. I libri Einaudi erano oggetti magnifici, ma per pochi. Poi cominciai a commerciare in francobolli e a organizzare feste e concerti. Registravo le canzoni di Sanremo alla radio e le facevo imparare ai nostri gruppi musicali, che la settimana dopo erano pronti per replicare il festival sul lungomare di Tripoli. Portai Peppino Di Capri, Ricky Gianco, Little Tony; Celentano invece aveva paura dell’aereo. In Israele invitai tutti, ma non venne nessuno».
«Da Tripoli sono fuggito nel 1967, due giorni prima che scoppiasse la guerra dei sei giorni. Ero un ribelle, rifiutavo la sottomissione agli arabi, che covavano rancore e invidia per la nostra posizione economica. I vecchi si comportavano da amici ma erano pieni d’odio; i giovani erano arroganti, siccome le loro donne non uscivano disturbavano le ragazze ebree e italiane. Giocavo a pallacanestro nel Maccabi di Tripoli, gli arabi mi aspettavano negli spogliatoi per picchiarmi. Di fronte a casa c’era il posteggio delle carrozzelle, io giocavo a dama con i cocchieri. Una sera, alla vigilia della guerra, avemmo una discussione: loro mi dissero che Nasser avrebbe ributtato a mare gli ebrei, io non stetti zitto. Mio zio si preoccupò: "Qui tutti dicono che hai insultato Nasser, ti sei messo nei guai, devi partire subito". In Italia avevo già due sorelle, le raggiunsi, forzando il blocco grazie a un telegramma falso. Il pogrom iniziò 48 ore dopo».
Da Roma Zard passò in Israele. «Alla visita militare mi scoprirono una pleurite perforante umida e mi mandarono in sanatorio a Sfad. Un posto bellissimo, tra il Golan e il lago di Tiberiade. Un giorno terroristi arabi fecero saltare due scuolabus. Cinquanta morti. Bambini sfigurati. Mi ci volle parecchio tempo per recuperare la ragione».
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Non c'è persona più noiosa di una persona annoiata; questo è un fatto.
E una persona annoiata non è semplicemente una persona che non ha (più, o provvisoriamente) interessi. È di più. È una persona in distonia col mondo. Per tante ragioni possibili, una o alcune delle quali diventano fattuali.
L'età, circostanze, cicli che si chiudono...
La persona annoiata non ha cose da dire, e non vede nemmeno cose su cui dire qualcosa. Non vede nemmeno le cose, a dirla tutta.
Non ha niente da dire alle persone, vede ogni colloquio diventare sempre più sterile, a volte avvitarsi su se stesso, e il rendersi conto di questo, cercando di ravvivarlo, peggiora le cose, proprio perché mette ancor di più di fronte il niente che si ha dentro...
Io... non ho niente da dire. Tutto qui.
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Ho iniziato ad amare Harry Potter la prima volta che ho sentito nominare il Binario 9¾, all’istante. Semplicemente per aver sentito un luogo del genere. Mi prese come una specie di nodo in gola, e non direi che mi sia mai passato. Anzi.
E poi… poi scoprii Diagon Alley, e Hogwarts… luoghi magici, certo, ma nel senso profondo di luoghi “altri”, dunque luoghi dello spirito: luoghi che sono l’altrove assoluto, al tempo stesso inarrivabile ma perfettamente immaginabile.
Ecco, io credo che il fascino di Harry Potter stia proprio in questo: nel dare forma e orizzonte al desiderio di altrove che, è evidente, moltissimi di noi portano dentro.
Letteratura di evasione dunque? Beh, io non so, e davvero non mi interessa, se Harry Potter sia letteratura “alta”: certamente non arriva a Tolkien, ad esempio, quantunque credo abbia un fascino persino superiore. Perché più vicino a noi, alla nostra esperienza diretta, probabilmente. Ma il punto non è questo.
La buona letteratura è quella che ci racconta qualcosa di noi: qualcosa che sappiamo, ma a cui non siamo in grado di dare ordine e senso; ma anche qualcosa che non sappiamo di sapere. Qualcosa che abbiamo dentro, che avvertiamo, ma che non identifichiamo per quel che è, e per quel che significa, con tutta l’importanza che conseguentemente ha.
In questo senso sì, Harry Potter è buona letteratura.
Non mi interessa il suo successo mondiale, la Pottermania e tutto il resto. Mi interessa il fatto che mi costringe ad interrogarmi, ad esplorare orizzonti di me di cui intuivo, e spesso avvertivo, l’esistenza, ma che per l’appunto mancavano di forma, di espressione.
E poi, ci sono le mille piccole invenzioni narrative, alcune delle quali davvero splendide: dal cielo stellato della Sala Grande, illuminato da mille candele sospese a mezz’aria, ai ritratti animati, con i personaggi raffigurati che si spostano da un ritratto all’altro (“non puoi mica pretendere che se ne rimanga lì tutto il giorno”), come mondo fantastico nel mondo fantastico; il Quidditch e le Caramelle Tutti i Gusti Più Uno (le Bertie Bott’s Every Flavours Beans); la stupidaggine dei Babbani (Muggles) e lo Specchio delle Brame, che mostra i desideri di chi vi si riflette, ancora una volta, la parte più nascosta di noi, e che quindi è la più compiuta metafora di tutta l’opera.
Come metafore sono il Binario 9¾, e il Paiolo Magico, luoghi che sono lì, ma invisibili, protetti ma al tempo stesso accessibili a chi sappia vederli e interpretarli, accettandone le regole. Soglie, appunto, metafore di ciò che è il mondo narrativo – ogni mondo narrativo: come ci ha insegnato Coleridge con la sospensione dell’incredulità, leggere è credere. Ma non in senso fideistico: piuttosto, come “leggi, e lasciati trasportare”.
Da questo punto di vista Harry Potter si rivela anche una formidabile macchina narrativa, che esplorando e raccontando un mondo attraverso gli occhi di un ragazzino, guida alla sua scoperta coinvolgendo il lettore in modo progressivo e inesorabile. Con un curiosa analogia: anche la cosmologia di Tolkien ha avuto inizio con un racconto per ragazzi, crescendo su se stessa sino a diventare letteratura adulta.
Harry Potter lo fa seguendo la crescita dei suoi protagonisti, così che il mondo che racconta si colora di inquietudini e angosce che riportano il lettore adulto alla sua crescita, alle sue paure. L’ultimo episodio non a caso si chiude con note di malinconia, di angoscia, con l’obbligo di “scegliere”, che paiono proprio il preludio alla vita “adulta”. Mettendo così il lettore che accetta di esserne coinvolto in qualche modo, di fronte alla “sua” storia, e alla fine del mondo incantato della giovinezza, viste dall’altro capo della vita.
Ma è a quel mondo magico che alla fine torno sempre, anche se ora con un senso di smarrimento, di perdita, che mi appartengono in quanto adulto ma ai quali non sono rassegnato, cercando nei dormitori dei Grifondoro, nei corridoi e nelle aule di Hogwarts, nei pomeriggi ad Hogsmeade e ai Tre Manici di Scopa, nelle visite ad Hagrid, tracce di ciò che ho perduto, di ciò che è stato e non è stato abbastanza: gli anni della formazione, gli ambienti protetti e rassicuranti, la scoperta delle amicizie che ti tiri dietro per tutta la vita, colorati di meraviglioso; “già e non ancora”.
E l’inestinguibile desiderio di esser sempre lì, pronto a salire, ogni volta che l’Espresso per Hogwarts delle 11 fischia e sbuffa prima di partire.
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La Metafisica, ogni Metafisica, è il mortale nemico della Poesia, e perciò è fonte di grande sofferenza per il genere umano.
Un bel post, da leggere.
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Appunti sparsi.
Un'altra, che si ricollega alla prima, è quella di un ritorno... La terza storia è quella di una ricerca. Possiamo vedere in essa una variante della forma precedente...
Ma le storie sono sempre intrecciate tra loro. Salvate il soldato Ryan è la storia del sacrificio di un dio (il capitano Miller), ma è anche la storia di una ricerca, e se vogliamo inizia come la storia di un assedio (lo sbarco in Normandia).
Sentieri selvaggi è la storia di una ricerca ("ma Ethan Edwards va alla ricerca di se stesso più che della nipotina Debbie", Morandini), ma anche di un impossibile ritorno a casa, cioè alla purezza originaria.
Anche L'uomo che uccise Liberty Valance è la storia tanto di un assedio - quello di Liberty che cerca Ramson Stoddard per ucciderlo - quanto del sacrificio di Tom Doniphon, che rinuncia alla fama e alla donna che ama.
E Un uomo tranquillo è la storia di un ritorno a casa, quello di Sean Thornton, e dell'assedio che deve stringere attorno al cognato Red Will per avere ciò che gli spetta, assedio spezzato dall'epico scontro pugilistico finale.
In Titanic poi le storie ci sono tutte e quattro: la ricerca (del gioiello, che fa da cornice alla vicenda); l'assedio (al cuore di Rose, perché le storie d'amore sono strutturalmente storie di assedi e di conflitti, altrimenti non sarebbero storie...); il ritorno a casa (al Titanic, dove Jack attende Rose); e su tutte, naturalmente, il sacrificio di Jack.
Jerome Bruner ha osservato che sono i generi narrativi a generare (nomen omen) le storie, e che quindi "i generi sono dei modi specializzati di concepire e di comunicare la condizione umana". In altre parole, è la realtà a imitare la letteratura, semplicemente perché ciò che chiamiamo realtà è il modo in cui diamo senso agli eventi.
Già, "quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane continueremo a narrarle, trasformate"...
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Ed eccolo, questo testo che mi è molto caro:
"Quattro sono le storie. Una, la più antica, è quella di una forte città assediata e difesa da uomini coraggiosi. I difensori sanno che la città sarà consegnata al ferro e al fuoco e che la loro battaglia è inutile; il più famoso degli aggressori, Achille, sa che il suo destino è di morire prima della vittoria. I secoli aggiunsero elementi di magia. Si disse che Elena di Troia, per la quale gli eserciti morirono, era una bella nuvola, un'ombra; si disse che il grande cavallo vuoto nel quale si nascosero i greci era anch'esso un'apparenza. Omero non sarà stato il primo poeta che raccolse la favola; qualcuno, nel quattordicesimo secolo, lasciò questa riga che vaga nella mia memoria: The borgh brittened and brent to brondes and askes. Dante Gabriel Rossetti avrebbe poi immaginato che la sorte di Troia fosse stata segnata nell'istante in cui Paride brucia d'amore per Elena; Yeats doveva scegliere l’istante in cui si confondono Leda e il cigno ch'era un dio.
Un'altra, che si ricollega alla prima, è quella di un ritorno. Quello di Ulisse, che, dopo avere errato dieci anni per mari pericolosi, dopo essersi fermato su isole incantate, ritorna alla sua Itaca; quello delle divinità del Nord che, una volta distrutta la terra la vedono sorgere dal mare, verde e lucida, e trovano abbandonati sull'erba i pezzi degli scacchi con cui stavano prima giocando.
La terza storia è quella di una ricerca. Possiamo vedere in essa una variante della forma precedente. Giasone e il Vello; i trenta uccelli del persiano che attraversano montagne e mari e vedono la faccia del loro Dio, il Simurg, che è ognuno di loro e tutti loro. Nel passato ogni impresa era fortunata. Qualcuno rubava, alla fine, le proibite mele d'oro; qualcuno, alla fine meritava la conquista del Graal. Adesso, la ricerca è condannata all'insuccesso. Il capitano Ahab trova la balena e la balena lo fa a pezzi; gli eroi di James o di Kafka possono aspettarsi soltanto la sconfitta. Siamo così poveri di coraggio e di fede che il lieto fine ormai altro non è che una lusinga industriale. Non possiamo credere al cielo, ma all'inferno sì.
L'ultima storia è quella del sacrificio di un dio. Atis, in Frigia, si mutila e si uccide; Odino, sacrificato a Odino, Egli stesso a Se stesso, pende dall'albero nove notti intere ed è ferito da lancia; Cristo è crocifisso dai romani.
Quattro sono le storie. Per tutto il tempo che ci rimane continueremo a narrarle, trasformate."
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Quando leggo che gli esponenti di una parte politica, religiosa o culturale molto caratterizzata esaltano (o al contrario condannano) un'opera, divento subito sospettoso.
Nel suo blog, Sandali racconta dei dubbi circa i significati più o meno reconditi di "Narnia", almeno relativi al film, che peraltro non ho (ancora) visto, mentre ho iniziato da (troppo) poco la lettura del primo dei romanzi.
Il punto non è comunque la pertinenza delle osservazioni, quanto una questione di merito generale. Trovo che quello di trovare significati simbolici diretti, allegorie esplicite, rimandi e richiami immediati, ad un'opera narrativa non sia un buon metodo.
Intanto perché, anche ammesso che l'autore abbia voluto creare un'opera a forte contenuto ideologico, il valore di essa - e la sua durata nel tempo, particolare non secondario - lo trascende, aprendosi e concedendosi a interpretazioni diverse, sfumate, contradditorie, perciò fertili, proficue. Il grande romanzo è quello sul quale c'è sempre qualcosa da dire, e che ha qualcosa da dire da tutti. Senza contare il fatto che di norma si può leggere anche il Mein kampf senza diventare automaticamente nazisti. L'intelligenza del lettore è sempre migliore di quella dei critici unilaterali, è un fatto. Altrimenti, non esisterebbe una cosa chiamata letteratura.
Poi, certo, se i neocons esaltano il film, qualche motivo l'avranno, ma volendo si fa sempre abbastanza presto a far diventare una qualsiasi cosa qualunque altra. E di norma, più la lettura è unilaterale, diretta, univoca e priva di sfumature, meno vale.
E le interpretazioni dei neocons, francamente...
Ma poi c'è la faccenda dei quattro cicli, elaborata da Borges, la quale ci insegnato che "quattro sono le storie": la storia di un forte città assediata - Troia, che diventa paradigma di ogni conflitto; la storia di un ritorno a casa - Ulisse; la storia di una ricerca - il Graal; e la storia del sacrificio di un Dio - Cristo.
Un tempo mi divertivo a ritrovare le concordanze in ogni film che vedevo, e in ogni storia che leggevo. E le ho trovate sempre, a partire da Titanic e dal Soldato Ryan (il sacrificio di due dèi...).
Messa così, anche la storia di Narnia pare avere un altro colore, no?
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Ogni mondo fantastico ha una soglia attraverso cui vi si può accedere. Che i mondi fantastici esistano è indubitabile, così come è indubbio che essi interagiscono col mondo di tutti i giorni anche più di quanto chi ne ammette senza difficoltà l’esistenza possa credere. Dopotutto, senza mondi fantastici non saremmo le stesse persone che siamo, giacché è anche (principalmente?) attraverso il confronto con i nostri mondi fantastici che impariamo molte cose sul mondo reale che ci circonda. Ciascuno di noi ha i suoi eroi e i suoi miti, e costoro hanno residenza in mondi che potremmo più correttamente definire immateriali, siano pure la Trieste del primo ‘900 in cui si muove Zeno Cosini, o la Russia ottocentesca dei Karamazov – luoghi e realtà geografiche ricreate e raccontate nelle parole degli autori: perciò costrutti culturali e non entità positive. Del resto, che la realtà si qualifichi come materialità positiva, hic et nunc, è una presupposizione metafisica – anzi, la principale delle presupposizioni metafisiche, del quale il concetto stesso di mondo possibile e la sua immaterialità così ineludibile nelle sue conseguenze sui nostri atti e le nostre convinzioni, paiono incaricarsi di smentire l’efficacia e il senso ultimo. È per questo che quello di soglia è uno dei concetti più affascinanti che io conosca. Davanti alla soglia si ristà, e al tempo stesso si è spinti, chiamati in avanti. La soglia racchiude, preserva e garantisce, mostra e permette il passaggio, ma a determinate condizioni, che vanno accettate e rispettate scrupolosamente: quelle regole e condizioni che per l’appunto sono ciò che ci rendono diversi, ma in un senso sempre più profondo, ricco, consapevole. La più comune delle soglie è la copertina di un libro: finché resta chiusa, il magico mondo evocato nelle pagine resta chiuso, inaccessibile e protetto. Quando la copertina viene scostata, il mondo si rende accessibile, ma a condizioni molto precise e severe; tra tutte, la prima e fondamentale è quella che Coleridge chiamava sospensione dell’incredulità, ovvero la regola per cui credo a ciò che leggo. Ai mondi fantastici, o si crede, o si lascia perdere. Solo che, con buona pace dei metafisici della presenza, le regole che distinguono il reale dal verosimile e il verosimile dal fantastico, sono molto incerte, e somigliano più a sabbie mobili che ad un terreno solido e saldo su cui costruire incrollabili certezze. È per questo che il concetto di soglia si colora di connotazioni magico-rituali: a quale altra dimensione appartiene dopotutto il concetto di trasfigurazione? Ed è un concetto che dunque appartiene completamente anche all’atto della lettura: nel leggere, mi stacco dal qui ed ora, per entrare in dimensioni che mi sono largamente ignote, sconosciute, e che tuttavia entrano a far parte della mia dimensione esistenziale, così da non saper più dire se sono io che entro in quel mondo, evocato nelle pagine, o quel mondo che si fa, attraverso di me, reale. Così, è sempre attraverso una soglia che si può accedere ad un mondo fantastico. Il Binario 9 e ¾ e il “Paiolo Magico” permettono di accedere a Diagon Alley e al mondo magico; è attraverso un armadio che si accede a Narnia, ed è attraverso uno specchio che si accede al Paese delle Meraviglie. È attraverso un tunnel che si entra in Cartoonia, mentre il mondo fantastico di Paperopoli e Topolinia hanno il loro punto di passaggio all’incirca nei rispettivi aeroporti delle due città… E si potrebbe continuare. Perché ognuno di noi ha il suo personale Binario 9 e ¾ sul quale sta, in attesa, l’Espresso per Hogwarts…
È naturale che sia così: qualunque sia lo status ontologico dei mondi fantastici – e in generale, quelli che Umberto Eco chiama mondi possibili – è chiaro che essi devono in primis la loro esistenza alla separazione rispetto a quello che siamo usi definire “mondo reale”, qualunque cosa questa locuzione a sua volta significhi.
Al tempo stesso la soglia separa e mette in comunicazione. La soglia trasfigura: al di qua si è una persona, oltre se ne diventa un’altra: fosse pure la semplice soglia di casa, e non è lo stesso se la casa è la mia o quella del mio ospite.
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La sottile linea rossa. Un film antimetafisico: che mostra, non illustra; che non descrive, non racconta, e nemmeno lascia intuire: espone, illumina.
Un film non contro la guerra: oltre la guerra.
Antimetafisico perché non dà risposte, perché non costruisce una narrazione, ponendo invece domande alle quali non c'è risposta prevista. Di fronte alle quali non c'è consolazione metafisica possibile.
Un film "difficile" perché non dà la garanzia di un senso; e tuttavia "facile", una volta che si accetti, antimetafisicamente, l'origine non spiegabile del tutto, e del senso dell'uomo e dei suoi atti in particolare.
Un film "difficile" per quanto la metafisica è "facile", poiché essa garantisce risposte, fornisce garanzie, costruisce certezze a tavolino e su di esse ordisce trame di significati.
Un film sulla natura non naturale della natura: sull'origine metafisica del suo senso, sulla sua funzione consolatoria. Perché il concetto occidentale di natura è quanto di meno naturale possa darsi, giacché quel che perde è proprio l'esser parte dell'uomo della physis, e della comune origine e appartenenza ad essa di ogni suo senso possibile e del senso del tutto. Un senso che resta nascosto e indicibile, e che preserva l'irriducibile alterità del Divino.
Un film profondamente religioso, colmo di rispetto per il Sacro, e che recupera miracolosamente il senso vero, originario, del Natale: la manifestazione del Divino che si fa senso e significato, senz'altra origine spiegabile, comprensibile e razionale, che non sia il suo semplice darsi.
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Certo che ormai Grillo è diventato il Ruini laico: c'è veramente un sacco di gente che lo sta a sentire per sapere cosa deve pensare.
Lasciamo pure stare Dario Fo, e anche Paolini (li posso capire, vivono di questo...).
E lasciamo anche perdere Travaglio, il personaggio più antipatico comparso sulle scene politiche nell'ultimo quarto di secolo; altro che Giovanardi o Schifani, o Bondi. Uno che come lo sento, so da che parte devo stare: l'opposto della sua. E ho pure rischiato di avere un suo libro con dedica autografa, eheheh...
Grillo dicevo. Ecco, lui è proprio è il perfetto contraltare di Ruini: sa come predicare ai convertiti, rendendoli abili e arruolandoli alla "causa". Non gli spiega nulla: gli fa balenare delle immagini; evoca. Blandisce e sferza. Non spiega nulla, non insegna, non analizza veramente, pur facendo credere di farlo. Le conclusioni tanto sono già scritte. Dice alla "sua" gente quel che essa vuol sentirsi dire. Non fa analisi, lascia che i suoi seguaci tirino delle conclusioni, in modo che essi credano di essere attenti, e partecipi. Non c'è nulla che essi non sappiano già: vogliono solo una conferma, purchessia; vogliono sentirsi dire di essere nel giusto; vogliono una parola d'ordine, un indirizzo, un richiamo di identità. Non ha nessuna importanza su chi o su cosa, basta che la "causa" sia sentita come giusta, sia una bandiera da impugnare, e fa niente se sono cause di poco o nessun conto, marginali, perché tanto tutto, nel messianesimo Ruino-Grillesco, diventa facilmente simbolo di tutto.
Le "cause", poi, già. Questo paese è incorreggibile. Curva Nord contro Curva Sud, e questo è tutto. Il messianesimo Ruino-Grillesco (ma quello berlusconiano è uguale) si nutre di odio: chi non è con me, è mio Nemico. Egli non ha ragioni: solo interessi.
Il Nemico è dipinto sempre come subdolo, tentatore, ingannatore. Il Nemico ordisce complotti, agisce nell'Ombra e nel Silenzio, e la parola del Messia diventa sempre, immancabilmente "parola di Verità e di Luce" (la ridicola Operazione Verità di Forza Italia, come il Blog di Grillo...) perché il Nemico vuole ridurci al Silenzio.
E dunque col Nemico non si dialoga, lo si smaschera. Dal Nemico ci si deve solo difendere: il confronto con esso serve solo a farne risaltare le contraddizioni.
Questo è il modo di ragionare oggi in Italia. Così ragiona Ruini. Così ragiona Berlusconi; così ragionano Travaglio e Grillo, con la loro aria saputa di chi la sa lunga sempre e comunque.
Così, purtroppo, ragiona la grande maggioranza degli italiani "impegnati", siano essi cattolici, di destra, o di sinistra.
A me queste cose non interessano. Io mi sono rotto le palle di tutto questo.
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I Greci avevano una divinità o un mito per ogni cosa, proprio per ciascuna, ma NON avevano nemmeno il concetto di "ambiente".
Il che dimostra in via definitiva quanto fasullo, vuoto, superfluo e dunque dannoso sia l'ambientalismo.
Il che in fondo si può dire anche di tutte le "invenzioni" culturali degli ultimi centocinquant'anni: qualunque cosa finisca in -ismo, tanto per capirci.
Prese una per una, sono anche interessanti, perché sono modi di osservare il mondo da un angolo particolare. Ma ben presto stancano, mostrando tutta la loro limitatezza: il che è ovvio, perché sono del tutto incapaci di mostrare una sola cosa sotto due luci diverse.
Così, ogni -ismo mostra tutte le cose sotto una sola luce e in una sola prospettiva.
Il che è di una limitatezza, e alla lunga di una banalità e di una noia, infinite. E del tutto inutili ad alcunché.
È come per i registratori multipista: se in ogni pista metti un strumento diverso, e sai combinare le piste con abilità e gusto, ciò che otterrai sarà profondità, vicinanza, apertura diafonica, impatto e dolcezza, e quanto di bello il suono può dare.
Pretendi invece di mettere tutti i suoni in una pista, o lo stesso suono in tutte le piste, e cosa otterrai? Un muro sonoro, piatto, ottuso, inespressivo, noioso e impenetrabile.
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Gli abitanti della Val di Susa hanno torto. Tanto per non girare intorno ai concetti.
Hanno torto perché il localismo è la mala pianta della modernità. La stessa radice dalla quale, sempre per esser chiari, fiorisce il leghismo (e non a caso la Lega offre la sua solidarietà ai manifestanti).
L'origine del localismo sta nella ricerca e la difesa strenua di una "piccola patria", vissuta come rifugio verso le contraddizioni e le difficoltà del mondo della complessità.
Se gli abitanti della Val Susa hanno ragione, nel difendere il "loro" territorio, allora hanno ragione anche i leghisti a chiedere la Secessione. (A meno che non si voglia affermare che gli uni o gli altri hanno ragione o torto a seconda delle proprie personali simpatie, il che non mi pare molto serio).
Sento, nelle parole dei dimostranti, ripetere ossessivamente il concetto che "questa non è democrazia". Beh, mi spiace, ma si ha democrazia esattamente quando il Bene Comune è il primo ispiratore di ogni scelta, mentre qui c'è solo la difesa del proprio particolare, ammantato di rivendicazioni ambientaliste (peraltro smentite dagli ecologisti d'oltralpe, oltre che dal buon senso), e antagoniste (come se la bontà di un'opera dipendesse da chi la mette in atto).
Ora, che in Italia non ci sia mai molto da fidarsi sulla realizzazione delle grandi opere sarà anche un fatto, ma la risposta dovrebbe allora essere la pretesa che l'opera venga fatta, e venga fatta secondo i canoni. Cosa che ovviamente...
Il che rivela ancora una volta l'inconsistenza delle ragioni della protesta NO-TAV.
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Trovato nel blog di un'amica, è venuta voglia di provarlo anche a me: test di affinità col sottoscritto.
A chi interessa, per gioco e per curiosità:
http://rifleman.altervista.org/friendtest/test.php?usr=BertCamemb
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... e questi sono la rivelazione dell'anno, nel mio personalissimo cartellino.
Amorphous Androgynous. Filiazione diretta - o meglio alter ego, o più precisamente diversa incarnazione - dei Future Sound of London. Tre dischi, diventati poi cinque, per la fissa dei remix e delle rielaborazioni.
Musica indescrivibile nel suo complesso, nel suo essere riconoscibile e descrivibilissima passaggio per passaggio: le radici techno del gruppo madre, con l'ossessività percussiva che si addolcisce nei toni dei Massive Attack più abbordabili (quelli della Unfinished Sympathy); il mellotron di Strawberry Fields Forever e altre piacevolezze beatlesiane; sitar e tabla per precise suggestioni indiane, che si colorano di Donovan all'arrivo di flauto e acustica; space rock progressive dei mid-70, con tanto di organo Farfisa esile esile ma preciso preciso; melodie e atmosfere svagate ma sempre un po' inquitanti alla Tortoise; l'incalzante ossessività ritmica dei Porcupine Tree, che si tramuta nella musica ripetitiva di Terry Riley; un canto vagamente alla Robert Wyatt; e per finire una tromba melodica alla Miles Davis più ispirato, e forse filtrato da Mark Isham.
Di tutto, insieme, in un pastiche sonoro gradevolissimo, dalle sonorità pulite, affascinanti, sempre sorprendenti nel loro essere per l'appunto conosciute e riconoscibilissime.
Da ascoltare, assolutamente.
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Bene, era ora.
Rieccoci.
Francamente, non se ne poteva più di dipendere dai preti per ogni dove.
E ancora non capisco perché avrei dovuto votare per dei cattocomunisti.
Sinceramente, di Prodi, Fassino, Rutelli & c, ne avevo piene le balle.
E voglio vedere come faranno i "compagni" a turarsi il naso e votare per chi il coraggio di dire "basta" alla Chiesa non ce l'ha, solo per convenienza.
Ma convenienza de che?
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Inviato da: minsterr999
il 25/03/2009 alle 09:26
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