Il sapore del riso al tè verde

imagesl’idea di girare Ohazuke no aji è venuta a Ozu nel 1939, dopo il suo rientro in patria dal fronte cinese. Siamo in pieno periodo bellico e in Giappone governa un regime militarista. Ozu ha già pronta la sceneggiatura ma viene criticata dal comitato preposto alla censura preventiva perchè pecca di scarso spirito patriottico, il riso al tè verde non è sufficentemente celebrativo per un avvenimento come la partenza del marito-protagonista per il fronte di guerra. Ozu si rifiuta di cambiare la sceneggiatura e il progetto viene archiviato. Nel 1952 il film viene riproposto con importanti modifiche nella sceneggiatura, in un contesto sociale e culturale molto cambiato. Le parole stesse di Ozu ci consentono di coglierne lo spirito autentico e di farne una corretta lettura. Così egli scrive a proposito del suo progetto nel 1940:

“Ciò che vorrei fare non è tanto descrivere quale dei due modi di vivere e di pensare – quello della donna ricca e svogliata o quello di quest’uomo – sia giusto. Piuttosto, sarò presuntuoso, ma vorrei ritrarre persone che vivono in due mondi diversi per cercare la reazione della gente… non è che nella nostra vita abbiamo dimenticato qualcosa di importante? Questo vorrei provare a far capire allo spettatore”

Ad una visione non approfondita si ha l’impressione che sia la moglie a tenere le fila del gioco fino all’ultimo mentre il marito pare abbozzare e subire con pazienza. E’ pur vero che il regista fa emergere la crisi dei ruoli tradizionali dentro la famiglia e la coppia. Il ruolo femminile sta cambiando e avanza nuove istanze mentre quello maschile rimane spiazzato come per un processo incalzante che accomuna ormai tutto il mondo occidentalizzato, Giappone compreso. Tutto ciò però serve a Ozu per riaffermare dentro la narrazione filmica il ruolo centrale di Satake e soprattutto dei valori che egli incarna.

All’interno della tensione polare tra frivolezza spendacciona e bon ton di facciata da una parte e l’austerità, la sobrietà e la semplicità dall’altra, Satake, ex capitano in guardia a Singapore, rappresenta l’affidabilità e la fondatezza degli atteggiamenti interiori che sono cari a Ozu, quelli della tradizione più autentica. Atteggiamenti che ritroviamo anche in Chiki Ariki del 1942 e che trascendono quindi le epoche storiche e politiche e le facili strumentalizzazioni del momento.
Satake, il marito che sembra soccombere e abbozzare davanti alla moglie Taeko che infierisce con disprezzo nei suoi confronti anche davanti alla domestica, diventa altresì paradigma dell’ “accettazione”. Modo esistenziale di porsi di fronte alle situazioni basato sulle antiche tradizioni orientali di chi sa guardare oltre la contingenza. Il saper mettere da parte il proprio ego insegna a distinguere tra ciò che è essenziale e ciò che è frutto di passioni ingannevoli e passeggere come lo sono le nuvole che temporaneamente oscurano il sole. Viene adottata in tal modo la filosofia del giunco che piegandosi fino a terra davanti all’infuriare del vento non si spezza e passata la tempesta ritorna integro e vitale. Silenzio, attesa, moderazione, pazienza, operosità nascosta che agisce dietro le quinte, risolutezza quando è necessaria, fanno parte pienamente del modo di vivere di Satake.

Ed è a questi valori che si volge da ultimo anche la moglie Taeko, rendendosi conto di quanto sia futile e falso il suo mondo di fronte alla solidità semplice e sincera dell’uomo. Egli che non ha esitato a partire per un lungo viaggio di lavoro deciso dal suo capo solo pochi giorni prima.
La “conversione” della moglie non significa tuttavia il suo annullamento o la sua umiliazione di fronte al marito, lo sguardo di Ozu mantiene la consueta discrezione e gentilezza anche nei confronti di Taeko, ma la scoperta “illuminante” di ciò che è meglio per la coppia. Illuminazione che è apertura di un varco e di un necessario ridimensionamento del proprio ego, come esperienza liberante che lascia finalmente esistere l’altro e le sue parole. E’ la sconfitta di pretese troppo esigenti e capricciose che non accettano di venire a patti con la realtà e la misura dell’altro mirando invece ai luccichii illusori di insegne vistose e allettanti, nuovi idoli di una borghesia arrembante. E’ questa misura che è simbolizzata dall’ochazuke così come dai vestiti di seconda mano dell’amico Noboru o dall’ospitalità disarmante dell’ex commilitone ora suo malgrado ridotto a gestire una sala da pachinko o anche dal ronfare della domestica Fumi nel retrocucina la notte del ritorno improvviso di Satake.
La semplicità del riso al tè verde, cibo poverissimo consumato nelle campagne, alimento che ricorda le origini modeste del protagonista, uomo che (come lo stesso regista) si è anche misurato con le ristrettezze della vita militare sul fronte di guerra, diventa metafora della vita di coppia e monito alla stessa a rimanere su di un terreno solido, affidabile e senza inutile orpelli.

 

Il sapore del riso al tè verdeultima modifica: 2018-06-21T11:43:33+02:00da david.1960