Il dolore manifesto e quello sotto pelle

Ritratti di donne in mostra a Domodossola

Era dai tempi di Django Unchained che non vedevo una donna frustata. Certo, il narrato di Tarantino attiene alla finzione e nondimeno poggia su un portato storico, la schiavitù negli Stati Uniti d’America, di cui l’umanità incline alla compassione si vergognerà in eterno. Ma la scena della ragazza eritrea colpita dal camionista a Ventimiglia fa più impressione dell’analoga nel film di Tarantino: quei pochi secondi durante i quali “la bestia” brandisce e poi usa la “cinghia da carico con terminale in acciaio”, oltre a essere inutilmente crudele è pure fuori contesto, avendo i connotati per incistarsi in uno scenario di guerra dove le atrocità sono regola e consuetudine, e gli attori in campo tutti degni dei Razzie Awards, se solo li si potesse trasporre nella settima arte.

Con ancora negli occhi quelle immagini, mi sono imbattuta in un articolo di Dario Pappalardo. Anche qui dolore, ma di matrice diversa. È quello sottile e inconciliato di Sinéad O’Connor:

“Nelle discoteche all’aperto delle estati dei primi anni Novanta, c’era un momento in cui la musica si fermava. Attimi vuoti, colmati poco dopo dal dee-jay per l’ultimo pezzo della serata. La voce esplodeva quasi subito: «Sono passate sette ore e quindici giorni / Da quando hai portato via il tuo amore». Una voce malinconica che si stendeva via via, mentre le mani scivolavano sui fianchi della compagna di ballo. Finalmente un lento, nonostante la techno. Nothing Compares 2 You. «Niente è paragonabile a te». Eppure quel timbro romantico esprimeva il dolore della Generazione X. Everybody Hurts, cantavano i R.E.M. nel lontano 1992, mentre i Nirvana si spingevano ben oltre. Tutti soffrono. Sì, ma Sinéad di più. O’Connor avrebbe tracciato una linea matriarcale irlandese del dolore, tramandata a Dolores O’Riordan dei Cranberries. Per entrambe è stato troppo. Sono cadute sul campo. Non hanno varcato la linea d’ombra che, con l’età, trasforma la professione della musica in una macchina per fare soldi sicuri o in un rito dionisiaco che blocca il tempo della paranoia. Vedi oggi, per questo secondo caso, le esibizioni quasi jazz di Thom York, coetaneo di Sinéad. Lei no. Dopo anni in cui tutti si sono dimenticati delle canzoni per ricordare solo la testa rasata, la foto strappata del Papa o la conversione all’Islam, ha avuto giusto il tempo di preparare il lungo addio”.

P.S. C’è ancora gente (gente è un nome primitivo ma qui lo voglio usare come derivato di gentaglia) che pretende di misurare il dolore. Peccato che non abbiano ideato una scala per farlo. Forse perché prima ne andrebbe pensata una che misuri la stupidità.

In alto: Mario Sironi, Figura femminile seduta di profilo, 1928

Oh quante belle parole Madama Doré

Frase choc della grillina Cherchi in Aula: «Non dimenticate piazzale Loreto, col karma non si scherza»

“La cattiveria si paga. Voi state facendo mangiare le vostre deiezioni agli italiani. Col karma non si scherza. Prima o poi la pagherete voi, i vostri figli e i vostri nipoti. Gli italiani sono un popolo strano. Mussolini è arrivato a Piazzale Loreto e l’hanno messo a testa in giù. Non dimenticatelo questo”. Susanna Cherchi, M5S

A me pare che molti politici stiano frequentando la Scuola Holden o qualcosa di simile. Perché non mi spiego la ricercatezza e l’efficacia di certe espressioni, ma mi spiego, invece, la necessità di stringere tra le mani uno scritto da declamare con veemenza pour épater le bourgeois. A briglia sciolta sarebbe tutta un’altra storia: le deiezioni diventerebbero, nella migliore delle ipotesi, escrementi, ma c’è da scommettere che merda batterebbe sul tempo ogni altro sinonimo, schizzando fuori in un nanosecondo dalle latebre dei loro cervelli. Cervelli troppo sfrangiati per non dirli affetti da tare psichiche.

P.S. Alla Scuola Holden  riterrebbero banale il rimando a Piazzale Loreto. Per dire.

I fantasmi esistono

Esistono i Fantasmi? - FocusJunior.it

Che cosa si dice del genere splatter? che è di serie B, che è per palati poco avvezzi alla verosimiglianza ecc. Ora, in quale filone cinematografico collocheresti la tristissima vicenda dell’operaio indiano al quale un incidente nei campi ha staccato un braccio, poi riposto in una cassetta dal suo datore di lavoro, e lasciato vicino al legittimo proprietario già morente? Lo schifo che impera nel nostro Paese è inenarrabile. Tutto viene giustificato in nome del profitto. Se ti indigni ti viene chiesto: ma signora cara,  come potresti comprare la passata di pomodoro a 40 centesimi se non ci fosse il caporalato? non potresti è la risposta alla quale segue, sottaciuta, una lode per coloro che sfruttano gli immigrati irregolari, di fatto rendendoli schiavi. Ma in coscienza, come biasimare il sistema? cosa ne sarebbe della nostra vita, al di là del carrello della spesa meno costoso, se non avessimo un motivo al giorno di indignazione? Quando però scorrazziamo in bici per le campagne, oppure corriamo come imbecilli per tratturi e sterrati per arrivare in spiaggia belli e fisicati, ricordiamoci per tempo di voltare il capo quando cominciamo a intravedere piccoli capannelli di persone. Perché avvicinandoci a quella porzione di paesaggio, le schiene chine e le cassette del raccolto impilate a formare torri improbabili, e tuttavia miracolosamente stabili, potrebbero ricordarci che se mangiamo a costi irrisori è solo perché altri fanno la fame. E a volte muoiono.

P.S. Lo so che la questione è complessa, ma a livello umano non c’è giustificazione né per i padroni né per chi sta a guardare.