Recensione “VOX” di Christina Dalcher

Perché il male trionfi è sufficiente che i buoni rinuncino all’azione.”
Edmund Burke

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100 parole.
Non una di più per Jane e tutte le donne americane. Senza libri da leggere, quaderni per scrivere; senza poter sostituire la voce con il linguaggio dei gesti. Ridotte al silenzio dalla nuova politica di matrice religiosa che vuole che il ruolo della donna faccia un balzo indietro di secoli e secoli. Per riportare la società a una sorta di patriarcato scritto nelle Sacre Scritture.
Un bracciale al polso che conteggia le parole e la propaganda che si insinua nelle scuole per fare un vero e proprio lavaggio di cervello fin da piccoli.
Poi, però, qualcosa cambia.
Per Jane si prospetta la possibilità di poter cambiare questa dittatura del silenzio quando le viene chiesto di riprendere in mano la sua ricerca sull’afasia (che indica la perdita della capacità di comporre o comprendere il linguaggio, dovuta a lesioni alle aree del cervello),. Un compito che le permetterebbe di non avere più il bracciale conta-parole e poter salvare delle vite dall’oblio dell’incomprensione verbale,.ma non è tutto come appare.

Leggere “VOX” di Christina Dacher  mi ha dato i brividi. A ogni capitolo terminato sentivo la gola secca e capivo l’importanza di poter dire anche solo delle sciocchezze. Difficile esprimere esattamente le sensazioni provate: c’era rabbia, frustrazione, paura, stupore. È un romanzo con molti, troppi, elementi in comune con la nostra società, su quella, meglio, che sarebbe potuto diventare o potrebbe essere. Nei secoli scorsi abbiamo visto gli effetti delle varie dittature, eppure pensiamo che nessun’altro oltraggio ai nostri diritti potrà mai avere luogo. Ci sbagliamo.
Non è qualcosa riferito solo alle donne, perché il messaggio chiave del libro, a mio avviso, è legato alla percezione che spesso abbiamo di ciò che è giusto o sbagliato, alle nostre azioni ispirate da idee totalmente nocive per qualcun altro. Se le donne del romanzo sono inermi davanti all’imposizione di questa dittatura che le vuole silenziosi e ubbidienti, gli uomini, forti del loro ritorno al vecchio patriarcato, vedono solo i vantaggi di una situazione innaturale e non più l’abuso che stanno autorizzando.
Una storia che parla della debolezza degli uni e della leggerezza degli altri, senza distinzione di sesso o credo religioso. Non pensiamo che sia solo fantascienza: un secolo fa nella Germania nazista si preparavano le basi per quello che è diventato uno dei capitoli più neri dell’umanità.  Solo 100 anni fa, come 100 sono le parole concesse alle donne di questo romanzo.

La storia ha tutto per appassionare il lettore: sentimenti, azione, lotta contro le ingiustizie. Forse solo il finale appare accomodante, una ricerca per accontentare il famoso lieto fine. Ma non è un difetto, anzi.

Questo libro, per quanto sembri scontato affermarlo, non è un manifesto femminista, ma un inno alla libertà che ogni essere umano dovrebbe avere come qualcosa di già acquisito e non come una conquista da faticarsi. Poter parlare, discutere, litigare, dichiarare i nostri sentimenti sembrano cose troppo intrinseche per preoccuparci di doverle difendere. Eppure occorre ricordare, allo stesso tempo, che abbiamo un’identità e dei doveri verso la nostra stessa società. Non dobbiamo rinunciare per paura o pigrizia. Abbiamo tutti una voce, uomini e donne, da far sentire per non far trionfare il male e rivendicare ciò che è nostro. Bisogna solo saperla usare bene.

BUONA LETTURA.

“La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe

“Padrone! Con qual diritto è mio padrone? Ecco ciò che mi chiedo: Che diritto ha sopra di me? Non sono un uomo anch’io?”

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Tom è uno degli schiavi neri di Mr Shelby, un possidente del Kentucky, un uomo buono ma oberato dai debiti. È per questo motivo che decide di vendere il suo fidato schiavo a un mercante di schiavi senza scrupoli. Una vicenda dolorosa per tutti, padrona compresa che vorrebbe riscattare la più presto quell’uomo di grande umanità così devoto alla sua famiglia. Insieme a Tom, anche il figlio degli schiavi Eliza e George viene venduto, ma la donna, affrontando pericoli umani e naturali, riesce a impedire un atto così scellerato e scappa via con il bambino.

Tom, invece affronta il suo destino con piena fiducia non solo nei suoi vecchi padroni, ma anche nella volontà di Dio. E lasciando dietro di sé sua moglie Cleo e i suoi bambini segue il mercante per essere venduto. Affronterà un viaggio lungo e pieno di insidie, pagando sulla sua pelle la sua grande umanità verso il prossimo.

Tom, Cleo, George, Eliza.
Non solo nomi, ma persone: sono i protagonisti di questo classico mondiale che porta il titolo di “La capanna dello zio Tom” di Harriet Beecher Stowe, pubblicato nel 1852, ossia nel periodo dove ancora imperversava la schiavitù in America. Un libro con un tema forte, anche se lo stile è semplice e diretto.

“La capanna dello zio Tom” è un lungo grido di riscatto dalle catene di migliaia di uomini che per tanto tempo sono stati ritenuti alla stregua di semplice merce di scambio. Nessun diritto per loro, solo lavoro e sottomissione. A uno schiavo non era permesso nemmeno di sposarsi davanti a un ministro di Dio, non potevano avere proprietà né avere anche solo la voce in capitolo sulla loro stessa persone.
Merce. Erano merce e come tale trattati, senza nessun riguardo.

“La schiavitù non è che un delitto, e le leggi che proteggono un crimine non possono essere che leggi inique.”

Il romanzo della Stowe si è imposto subito nello scenario mondiale per il suo tema, per il suo messaggio e la sua forza. Fra queste pagine il lettore troverà la cattiveria e l’opportunismo dell’uomo, ma non solo, perché, come nel vaso di Pandora, ci sarà sempre, sul fondo, la speranza

Per non dimenticare mai, qualunque sia la nostra epoca, che la libertà è un diritto fondamentale di tutti a prescindere dal nostro colore della pelle.

“Ogni volta che passate davanti a quella sua capanna, alla capanna dello zio Tom, pensate alla vostra liberazione: pensate alla libertà che è il bene supremo cui l’uomo possa aspirare.”