“Leila” di Antonio Fogazzaro

“Se desidero di morire è perché la febbre che ho voluto combattere, che ho sperato un momento di vincere, questo febbre che ha nome di Leila si è rincrudita, mi arde, mi consuma e non la combatto più.”

"Leila" di Antonio Fogazzaro

“Leila” di Antonio Fogazzaro

Lelia, alla morte del fidanzato, viene accolta, come una figlia adottiva, dalla famiglia di lui. Un gesto che mira a renderla, quasi, una reliquia vivente del povero defunto Andrea  che pone, nell’animo della ragazza, molto astio sia nei riguardi della sua famiglia natia, che secondo lei l’ha venduta, sia nei riguardi di Marcello Trento e consorte, i genitori del fidanzato. A inasprire i rapporti si aggiunge l’arrivo alla Montanina, così chiamata la residenza dei Trento, di Massimo Alberti, amico di università di Andrea. Su di lui ci sono progetti da parte del signor Marcello che spera, ma odia sperarlo in memoria del figlio deceduto, di poter vedere Lelia ammogliata con lui, nonché sua erede.

Ma gli equivoci sono dietro l’angolo e le dolce mire di Marcello, o di Fedele, la signora della Villa delle rose, incontrano degli ostacoli che non avevano considerato. Intorno a Massimo, infatti, circolano voci diffamanti relative ai suoi studi teologici che sembrano eretici al ben pensate clero della luogo dove il romanzo è ambientato, ma soprattutto è in Lelia, chiamata in maniera affettuosa Leila dal defunto Andrea, l’ostacolo maggiore, nel suo orgoglio, nella sua paura di lasciare che qualcuno la conosca come la creatura complessa e fragile che è.

Lelia è mal guidata dal suo orgoglio: crede di vedere in Massimo un arrivista, un cacciatore di dote. Ma è anche l’orgoglio del giovane, la sua volontà di non cadere in balia di quella bellezza che già l’aveva turbato solo vedendo la ragazza in fotografia, a porre un punto d’arresto nella loro conoscenza. Si potrebbe dire che sono i silenzi a costruire i muri nei rapporti fra queste due anime passionali che si cercano, ignorando le affinità e ingigantendo le avversità.

“Ella si fece allora un concetto esagerato del proprio amore, lo misurò insieme alla pietà,senza distinguere.”

Le donne di Fogazzaro non sono figure delicate in balia degli eventi. Già con Marina in Malombra si era visto come le sue protagoniste hanno un carattere forte, una volontà e un’indipendenza che non sono preludio di un futuro femminismo. L’autore riconosce loro la scelta di poter vivere seguendo l’istinto, a torto o a ragione. Non sono più le eroine dei libri femminili di fine ottocento, non sono le vanesie sciocche donnine facili agli svenimenti. Sono donne di carattere, sono complesse creature che s’ingannano fra le voci del cuori che lottano con quelle della ragione.

Un romanzo che pone l’attenzione del lettore anche sugli argomenti prettamente religiosi di dottrine al limite dell’eresia che pure non interessano la protagonista, ma danno voce a personaggi minori, spesso gretti, spesso nella convinzione di essere nella Grazia divina senza averne, però, nessun merito. Le figure di don Emmanuele o don Tita, offrono un confronto esemplare rispetto all’anima più mite di don Aureliano, amico di Massimo e collante fra le due realtà, fra quella di lui e quella di Lelia. E rispecchiano sicuramente le idee dello stesso Fogazzaro per quanto riguarda il suo credo.

La prima edizione del libro è datata 1910 e nello stile di Fogazzaro si ravvede la scelta linguistica di un tempo a noi lontano. La lettura sembra artificiosa per noi che siamo figli di una generazione inzuppata di emoticon; la scelta di modi di dire, di fare, di proporre una frase potrebbe apparire obsoleta. Eppure c’è tanta poesia, c’è tanta semplice narrazione in queste pagine che la lettura procede svelta, leggera e scorrevole come il fluire delle acque che nel romanzo fanno da cornice agli eventi.

Un libro che scava nell’animo umano mettendo a nudo fragilità e paure. Ma anche la forza dettata dai sentimenti disinteressati che rendono i protagonisti reali nella trama fittizia di un romanzo d’altri tempi.
Buona lettura.