I fantasmi della Marlane

Nessuno vuole la verità sulla fabbrica della morte

img_19892Nonostante le ruspe abbiano individuato attorno allo stabilimento della Marlane, rifiuti tossici di ogni genere, nonostante gli accertamenti venuti fuori anche dal primo processo sulla Marlane che portò all’assoluzione degli imputati, nonostante le tante testimonianze di operai e periti di parte oltre che della Procura di Paola stessa, vedo dei fantasmi aggirarsi per tutto il perimetro degli scavi. Riesco a vederli questi fantasmi, perché è da oltre quindici anni che scrivo di questa fabbrica, degli operai morti, dei loro nomi e cognomi, delle loro famiglie , dei loro figli lasciati senza padre né madre. Li vedo perchè sono stato al cimitero di Praia con le loro vedove ed i mariti delle operaie decedute. Nomi oramai dimenticati, che si vorrebbe seppelliti nell’oblio, ma che sono vivi e vegeti negli operai superstiti e  nella cattiva coscienza di chi ne ha provocato la loro morte. Ne parlo con Luigi Pacchiano, ex operaio colpito da tumori vari e superstite per volere di qualche Dio, che vuole che Luigi , continui a parlare di questa unica verità che è l’uso di prodotti velenosi usati in quella fabbrica maledetta che ha portato alla morte di oltre cento operai e operaie. Questi fantasmi sono stati tutti amici suoi. Operai con i quali ha condiviso decine di anni di lavoro, gomito a gomito, negli stessi reparti, respirando la stessa aria malefica, gli stessi odori mefitici , persi nella nebbia che all’interno di quel grande scatolone che era la Marlane trovavano quasi ogni mattina.

 

La prima inchiesta

 

E poi gli scavi.. La magistratura paolana con il Procuratore Bruno Giordano, aprì quei cassetti rimasti chiusi per trent’anni e la prima udienza arrivò il 13 luglio del 2010.  Cassetti che nessuno voleva aprire, perché a nessuno faceva comodo la verità. Perché sindacalisti di stato pagati dalla dirigenza ne traevano profitti, perché politici di bassa lega la usavano come serbatoio di voti per le loro campagne elettorali, perché tecnici compiacenti e dirigenti la usavano come mucca da spremere attingendo a finanziamenti statali ed europei. Dopo le circostanziate denunce prodotte dello SLAI Cobas locale, e solo da loro, i primi  scavi iniziarono per ordine della Procura di Paola   e già  dall’ottobre del 2006 portarono alla scoperta di materiale considerato  tossico e quindi altamente nocivo per la salute e per l’ambiente. Questo primo materiale venne esaminato dall’ARPACAL e dal laboratorio di microscopia elettronica e microanalisi di Cosenza. L’elemento  più preoccupante ritrovato nel corso dei saggi di scavo fu il Cromo VI o esavalente. Questo materiale può provocare la contrazione di linfomi, leucemia e cancro a diversi organi quali al polmone, alle ossa, allo stomaco, alla prostata, ai reni alla vescica ed agli organi genitali, tumori dei quali sono stati colpiti gli oltre cento operai della fabbrica maledetta. Veleni che venivano usati  per la coloritura dei filati e dei tessuti. Veleni che erano già a conoscenza di tutti: dall’ASL di Paola, alla magistratura, ai vari sindaci, ai carabinieri, ai vigili urbani ed a tutti coloro  che leggevano le denunce che solo un piccolo gruppetto di operai non schierati con i sindacati ufficiali facevano da anni. Erano operai appartenenti allo SLAI COBAS, un piccolo  ed agguerrito sindacato, che  coraggiosamente denunciava ciò che avveniva in quella fabbrica della morte. Operai spesso perseguiti dalla dirigenza nel silenzio dei sindacati ufficiali, che invece usufruivano di piccole commesse in piccole aziende parallele dell’indotto. Una fabbrica che dava oltre trecento posti di lavoro, ma che nel contempo uccideva misteriosamente e meticolosamente operai ed operaie. Una strage di oltre cento lavoratori, quasi tutti di Praia a Mare e Maratea. Una lista che si allunga anno dopo anno e che solo negli ultimi anni se ne sono aggiunti  decine di nomi; nomi che non compaiono sui giornali, nomi che non fanno notizia, nomi che non compariranno in nessun servizio televisivo. Una strage che nessuna giustizia cercherà di riportare a galla.

Luigi PacchianoLa perizia di parte

Fu lo stesso Slai Cobas che ordinò una perizia di parte alla dott. Ssa Aurora Brancai igienista industriale che scrisse:

 

“Fra tutte le sostanze chimiche con proprietà carcinogenetiche utilizzate nel corso degli anni e delle varie produzioni attuate presso la ex-Marlane sia di Maratea che di Praia a Mare, è più che ragionevole ipotizzare che abbiano fatto la parte del leone i coloranti, sia organici che inorganici.

Per il Cromo, è ormai universalmente noto che nella sua forma chimica esavalente è un potentissimo cancerogeno, che qualora presente in sali insolubili ha come organo bersaglio prevalentemente il polmone, che è il primo organo interno con cui le polveri inalate vengono a contatto, ma che nella sua formulazione in sali solubili, quali senza meno quelli utilizzati per la preparazione dei bagni di tintura, non ha organo bersaglio preferenziale e può pertanto essere responsabile di neoplasie maligne in qualunque organo del corpo umano, tanto da essere assurto a notorietà popolare con un film che ricostruiva la storia, vera, di un piccolo centro californiano, Hynkley, dove a seguito della comparsa e poi dell’eccessivo incremento di tumori si scoprì che una fabbrica aveva provocato una contaminazione massiva e diffusa di Cromo esavalente della falda acquifera. L’impiego di sali solubili di cromo si deduce inequivocabilmente dalle CTU a cura dell’ ing. Lama e dal Prof. Crescenzi, e dalla CTU medico-legale a cura del Prof. Arcudi, che hanno avuto modo di esaminare le schede di sicurezza dei coloranti adottati ed utilizzati presso la ex-Marlane e facenti parte degli atti processuali.

E la persistenza di Cromo esavalente a tutto il 2006, e quindi ben dopo la cessazione delle attività produttive, persino in alcuni punti dei terreni circostanti la sede dell’ex-Marlane è provata dai referti delle analisi eseguite nell’ottobre del 2006 a cura del Laboratorio Chimico del Dipartimento di Cosenza dell’Arpa Calabria per conto della procura della Repubblica di Paola.”

Il racconto dell’ex operaio

 La Marlane era una fabbrica a ciclo completo, dalla lana greggia al prodotto finito. Nei primissimi anni ‘70  la fabbrica venne ristrutturata totalmente ed in tale occasione smantellarono i muri  che prima dividevano i vari reparti e tra questi la tintoria  che fino ad allora era rimasta isolata dal resto della fabbrica. E così la Marlane di Praia a Mare diventò un unico ambiente.  La tessitura e l’orditura che nel ’69 giunsero dalla fabbrica di Maratea,  vennero inserite fra la filatura, la tintoria  e il finissaggio  senza alcuna divisione.  Questo voleva dire che i vapori venivano respirati da tutti.

cancello Marlane Praia a mareLuigi Pacchiano, altro operaio oggi militante del Si Cobas,  colpito da un tumore alla vescica e per fortuna sopravvissuto,  mi dice che addirittura da vari luoghi della  Calabria portavano in gita scolastica, in visita istruttiva , alunni di varie scuole superiori e medie, e che spesso alle scolaresche veniva precluso l’ingresso nei reparti a causa  della “nebbia” che sprigionandosi dalla tintoria investiva l’intera fabbrica.   Chissà quanti di questi ragazzi inconsapevolmente hanno respirato quei fumi. Nelle fasi di lavorazione ritenute a rischio quali la tintoria, il finissaggio e la manutenzione, in base a criteri scelti dai dirigenti,  a chi lavorava alle macchine dove si usavano prodotti nocivi  veniva distribuita  precauzionalmente una busta di latte per disintossicarsi. Neanche fosse latte miracoloso! In una situazione grave come questa la fabbrica non subì mai un serio controllo dal punto di vista sanitario. Gli aspiratori c’erano in questo ambiente unico, ma affatto insufficienti per l’efficace ricambio e filtraggio  dell’aria “condizionata”. D’estate si lavorava a 40 grandi e più di temperatura ed a volte si sfiorava il 90 per cento d’umidità. Ad essere privilegiata era la lavorazione mentre  gli operai erano subalterni e quindi venivano dopo; in quelle condizioni era quasi impossibile lavorare  e spesso qualche operaio più coraggioso organizzava dei microscioperi inducendo l’azienda a permettere l’uscita dalla fabbrica essendo la temperatura esterna più sopportabile di quella interna. Sovente l’interno della fabbrica era contraddistinto da  grande quantitativo di polvere in sospensione e fumi al punto che gli operai entrando dicevano, con una piccola dose di ironia,“ oggi nebbia in Val Padana “.  Il cattivo odore era terribile,  La direzione  faceva credere agli operai  che il fetore proveniva dall’esterno e che non era riferibile ai prodotti usati, difatti quando arrivavano i fusti contenenti sostanze pericolose toglievano le etichette dov’era impresso il teschio di morte ed i responsabili dicevano agli operai di prendere i contenitori secondo i colori esterni.  E si andava avanti così. La tintoria era composta da tinto pezza e tinto tops. La Marlane lavorava molto per lo Stato  e produceva prevalentemente forniture di tessuti militari. Le vasche che tingevano le pezze erano aperte e venivano alimentate con i coloranti immessi manualmente dall’operatore. Una lavorazione fai da te. I responsabili sostenevano che i vapori provenienti dalle vasche venivano aspirati da cappe poste sulle stesse, ma da una brochure  diffusa dalla stessa Marlane  si può notare che  le tanto decantate cappe non sono mai esistite. Nella fabbrica circolava anche amianto utilizzato come coibentante e per la frenatura delle macchine, freni che si usuravano velocemente lasciando depositi di fibre che pulendo il macchinario con  l’aria compressa si disperdevano nell’ambiente finendo con l’essere inalate dagli operai; la dirigenza aziendale ha sempre respinto tale ipotesi ma non è escluso che scavando attorno alla Marlane possano emergere i residui di tale sostanza. Poi cominciarono i decessi. I primi operai morti risalgono al 1973. Ad essere colpiti furono gli  addetti ad una macchina che bruciava la peluria del tessuto usando degli acidi. I due operai, trentenni, addetti a questa macchina sono morti entrambi. Da lì in poi di decessi ne sono avvenuti in continuazione . Chi per tumore chi per altro. E quando  qualcuno protestava gli s’imponeva il silenzio e di farsi gli affari propri , pena il licenziamento. Gli operai non provenivano tutti da Praia a Mare e quando uno di essi non veniva più visto nei reparti si pensava che si fosse licenziato. Poi iniziò la lunga catena di funerali. Lo stesso prete di Maratea, Don Vincenzo Iacovino, che officiava tutti questi funerali di operai, in una sua omelia si scagliò contro l’azienda urlando dal pulpito “ questa non è una fabbrica di lavoro ma di morte”. Cosa che il parroco ripeté anche nell’intervista a Le Iene.  A questo punto, quando le morti cominciarono a moltiplicarsi  l’azienda pensò di mettersi al sicuro da eventuali denunce. E cominciò a smantellare e rottamare. Iniziò con  la tintoria pezze nel 1990-91 che fu rinnovata completamente , poi toccò alla tintoria tops che fu smantellata  nella primavera del ’96 ed alla chiusura nella Marlane la tintoria non esisteva più. In seguito fu cambiata anche la tipologia di lavorazione. La filatura che aveva fino ad allora lavorato la lana e le miste di terital – il poliestere – e piccole quantità di cotone seta ed altre fibre, divenendo la società “enclave” Fili ViVi fu attrezzata per produrre filati per maglieria ed anche in quel caso  vi furono operai che si lamentavano per la polvere che si alzava durante la lavorazione e che, occorre ribadirlo, era polvere di materiale di sintesi e quindi molto pericoloso per la salute di chi vi lavora. Parecchie prove sono scomparse e molti operai delusi dai silenzi passati si chiedono se mai oggi la Procura della Repubblica potrà giungere a qualcosa . Di quella fabbrica non resta che la lunga scia di morti e le testimonianze degli operai sopravvissuti, non fantasmi , che fremono per portare la propria testimonianza e far sentire anche indirettamente la voce di chi non c’è più.

 

Chi dovrà bonificare quell’area ?

 

La Marlane si trova al centro fra il territorio di Praia e quello di Tortora. Della fabbrica resta questo enorme scatolone ma dopo una transizione fra Marzotto e il sindaco Praticò che in cambio ritirò la Parte civile dal processo il terreno venne diviso fra le parti. Per la precisione, al Comune  andarono parte dell’ex stabilimento tessile per 5 mila metri quadrati, una parte di terreno al confine con il comune di Tortora, il depuratore che serviva la fabbrica e l’area posta di fronte allo stabilimento, confinante con la ferrovia, comprendente un capannone industriale di 2 mila metri quadrati e una striscia di terreno di 7 mila 500 metri quadrati. Marzotto ha mantenuto il controllo nei restanti due terzi dell’area compreso l’enorme capannone sul quale ha ottenuto il cambio di destinazione d’uso da attività industriale a commerciale . Dalle varie caratterizzazioni che si ebbero su quei terreni sia da parte dell’Arpacal che dalla Procura di Paola si parla di oltre trentamila tonnellate di materiale tossico proveniente dalla fabbrica stessa. Si parla spesso di Praia a Mare e delle sue bellezze naturali. Si parla delle lunghe spiagge, della Bandiera Blu, dell’Isola di Dino sottratta recentemente ai privati, della stupenda Fiuzzi, ma parlare della Marlane resta un tabù, così come restano tabù gli oltre cento operai ed operaie decedute lungo i trenta anni di attività.

 

 

 

I fantasmi della Marlaneultima modifica: 2022-04-10T08:34:41+02:00da sciroccorosso