Wagner

La musica – ben diversa, in questo, dalla compagnia di Albertine – mi aiutava a discendere in me stesso, a scoprirvi del nuovo: la varietà cercata invano nella vita, nei viaggi, di cui il flusso sonoro, mandando le sue onde soleggiate a frangersi e morire accanto a me, mi dava peraltro nostalgia. Duplice diversità. Come lo spettro esteriorizza per noi la composizione della luce, l’armonia di un Wagner, il colore di un Elstir ci permettono di conoscere quell’essenza qualitativa delle sensazioni d’un altro in cui nemmeno l’amore per un altro essere ci fa penetrare. E poi, diversità all’interno dell’opera stessa, grazie al solo mezzo che vi sia per essere effettivamente diversi: riunire diverse individualità. Là dove un piccolo musicista pretende di dipingere uno scudiero, un cavaliere, ma fa cantare a tutti la stessa musica, Wagner mette invece sotto ogni denominazione una realtà differente, e ogni volta che il suo scudiero ritorna è una figura particolare, al tempo stesso complicata e semplicistica, a inscriversi nell’immensità sonora con un cozzo di linee gioioso e feudale. Di qui la pienezza d’una musica colma, in effetti, di tante musiche, ciascuna delle quali è una persona. Una persona, o l’impressione suscitata da un aspetto momentaneo della natura. Persino quel che è più indipendente, in essa, dal sentimento che ci ispira, conserva la sua realtà esteriore e affatto definita; il canto d’un uccello, il richiamo d’un corno da caccia, l’aria suonata da un pastore sul suo flauto di canna disegnano contro l’orizzonte le loro sagome sonore. Certo, Wagner finiva poi col fonderle, impossessarsene, immetterle in un’orchestra, assoggettarle alle più alte idee musicali; ma sempre rispettandone l’originalità primitiva, come un maestro d’ascia le fibre, la particolare essenza del legno che scolpisce.

Marcel Proust, La Prigioniera

Traduzione di G. Raboni per i Meridiani Mondadori