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Ascari: I Leoni d' Eritrea. Coraggio, Fedeltà, Onore. Tributo al Valore degli Ascari Eritrei.

 

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L'Ascaro del cimitero d'Asmara.

Sessant’anni fa gli avevano dato una divisa kaki, il moschetto ‘91, un tarbush rosso fiammante calcato in testa, tanto poco marziale da sembrare uscito dal magazzino di un trovarobe.
Ha giurato in nome di un’Italia che non esiste più, per un re che è ormai da un pezzo sui libri di storia. Ma non importa: perché la fedeltà è un nodo strano, contorto, indecifrabile. Adesso il vecchio Ghelssechidam è curvato dalla mano del tempo......

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Messaggi del 18/08/2008

Storia. Anni 1896-1897. Parte terza.

Post n°64 pubblicato il 18 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1896-1897. Parte terza.

IL TRATTATO DI PACE DI ADDIS ABEBA - LA POLITICA AFRICANA DISCUSSA ALLA CAMERA - L'ECCIDIO DI LAFOLÈ - UCCISIONE DEGLI ESPLORATORI VITTORIO BOTTEGO E MAURIZIO SACCHI - LA CAMERA APPROVA LA POLITICA COLONIALE DI RACCOGLIMENTO - FERDINANDO MARTINI GOVERNATORE CIVILE DELL' ERITREA - ABBANDONO DI CASSALA

IL TRATTATO DI PACE DI ADDIS ABEBA

Ma, pochi giorni dopo, e precisamente il 26 ottobre, NERAZZINI riuscì a concludere felicemente le trattative stipulando con MENELICK il seguente trattato:

Art. I. - Lo stato di guerra tra l'Italia e l'Etiopia è definitivamente cessato. In conseguenza, vi sarà pace ed amicizia perpetua non solo tra Sua Maestà il Re d'Italia e Sua Maestà il Re d'Etiopia, ma anche tra i loro successori e sudditi. Art. 11. - Il trattato concluso ad Uccialli il 2 maggio 1889 è e resta definitivamente annullato.
Art. III. - L'Italia riconosce l'indipendenza assoluta, e senza riserva, dell'impero abissino come Stato sovrano e libero.
Art. IV. - Le due potenze contraenti, non essendosi accordate sulla questione dei confini, e desiderose tuttavia di concludere subito la pace e di assicurarne così i benefizi ai loro paesi, hanno deciso che, nello spazio di un anno, a datare da oggi, alcuni delegati di fiducia di Sua Maestà il Re d'Italia e di Sua Maestà l'Imperatore abissino stabiliranno amichevolmente le frontiere definitive. Fino a quando non saranno fissate, le due parti contraenti convengono di osservare lo "status quo ante", impegnandosi rigorosamente da una parte e dall'altra a rispettare il confine provvisorio Mareb-Belesà-Muna.
Art. V. - Fino al giorno in cui non siano stati, di comune accordo, fissati i confini definitivi, il Governo italiano si obbliga di non cedere alcun territorio ad altra Potenza. Nel caso volesse spontaneamente abbandonare una parte di territorio, questa passerebbe sotto la dominazione dell'Abissinia.
Art. VI. - Allo scopo di favorire i rapporti commerciali e industriali fra l'Italia e l'Etiopia, potranno esser conclusi accordi ulteriori tra i due Governi.
Art. VII. - Il presente trattato sarà portato a conoscenza delle altre Potenze dai due Governi contraenti.
Art. VIII. - Il presente trattato dovrà essere ratificato dal Governo italiano nello spazio di tre mesi a datare da questo giorno.
Art. IX. - Il presente trattato di pace, concluso oggi, sarà scritto in amarico ed in francese, con i due testi assolutamente conformi, e fatto in due esemplari, firmati dalle due parti, di cui uno resterà nella mani di Sua Maestà il Re d'Italia e l'altro nelle mani di Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia. Essendo ben di accordo sui termini di questo trattato, Sua Maestà Menelick II Imperatore d'Etiopia, in suo nome, e Sua Eccellenza il maggiore, dottore Nerazzini, in nome del Re d'Italia, hanno approvato e sigillato".

Nello stesso giorno fu dagli stessi stipulata la seguente convenzione relativa ai prigionieri:

Art. I. - Come conseguenza del trattato di pace tra il Regno d'Italia e l'Impero d' Etiopia firmato oggi, i prigionieri di guerra italiani, trattenuti in Abissinia, sono dichiarati liberi, Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia si obbliga di riunirli nel più breve tempo possibile e di consegnarli nell'Harrar al plenipotenziario italiano, appena il trattato di pace sarà stato ratificato.
Art. II. - Per facilitare il rimpatrio di questi prigionieri di guerra e assicurare loro tutte le cure necessarie, Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia autorizza una sezione della Croce Rossa italiana a venire fino a Gildessa.
Art. III. - Il plenipotenziario di Sua Maestà il Re d'Italia, avendo spontaneamente riconosciuto che i prigionieri sono stati oggetto delle maggiori cure da parte di Sua Maestà l'Imperatore d'Etiopia, constata che il loro mantenimento ha cagionato spese considerevoli, e che, per questo fatto, il Governo italiano è debitore verso Sua Maestà di somme corrispondenti a tali spese. Sua Maestà l'Imperatore d' Etiopia dichiara di rimettersi all'equità del Governo italiano per il risarcimento di questi sacrifici".

Il 16 novembre del 1896 Umberto I, con un telegramma controfirmato dal presidente del Consiglio e dai ministri degli Esteri e della Guerra, annunciò al Negus la ratifica del "Trattato di Addis-Abeba" e subito iniziò il rimpatrio dei prigionieri, gli ultimi dei quali riuscirono a ritornare nella primavera del 1897.
Con la pace di Addis-Abeba, alcuni italiani sostennero che "la nostra vergogna fu completa. Più che gli Abissini in Africa avevano vinto i nostri demagoghi in Italia, tutti coloro che avevano predicato contro la politica di espansione, che avevano reclamato il ritiro delle truppe dall'Eritrea, che avevano chiamato sciagurata e maledetta l'impresa africana, che si erano con insano sentimentalismo preoccupati della sorte di un migliaio di prigionieri ed avevano trascurata quella della nazione".

L'onta di Adua poteva facilmente essere lavata, ma dal meschino governo e dai pigmei della Camera di allora non si volle eliminarla. Si ordinò il rimpatrio delle truppe prima che fosse conclusa la pace, non si volle - ed era agevole - conquistare l'Agamè e il Tigrè, fu imposto a BALDISSERA di ritirarsi dietro la linea Mareb-Belesà-Muna; ed infine si concluse una pace che diede il colpo di grazia al prestigio di grande potenza perché l'Italia dovette rinunziare al protettorato sull'Abissinia, impegnarsi a cederlo la colonia nel caso di un abbandono dell'Eritrea e pagare sotto il nome di spese per il mantenimento dei prigionieri un' indennità di guerra al nemico. Con questa vergogna il Gabinetto Di Rudini segnò la fine del grandioso sogno di un impero etiopico, che dopo Adua poteva diventare realtà, ma che per viltà di governanti tramontò per sempre.
Simili problemi la civilissima e democratica Inghilterra non se li pose; così la Germania, la Russia e così la Francia

LA POLITICA AFRICANA DISCUSSA ALLA CAMERA
L'ECCIDIO DI LAFOLE'
UCCISIONE DEGLI ESPLORATORI VITTORIO BOTTEGO E MAURIZIO SACCHI
LA CAMERA APPROVA LA POLITICA COLONIALE DI RACCOGLIMENTO
FERDINANDO MARTINI GOVERNATORE CIVILE DELL'ERITREA ABBANDONO DI CASSALA


Nella seduta del 30 novembre ci fu alla Camera lo svolgimento d'interpellanze sull'Eritrea. L'on. DAL VERME difese la condotta del Governo e in particolar modo del ministro della Guerra; tentò di dimostrare che non per pusillanimità si era ordinato lo sgombro dell'Agamè ma per la difficoltà del rifornimento dei viveri e che essendo impossibile la guerra a fondo con l'Abissinia, non rimaneva che concluder la pace; propose la cessione parziale del territorio dell'Eritrea, dietro adeguato compenso, e concluse affermando non essere in questione l'onore della bandiera, che anzi non era mai stato così alto come dopo le lotte strenuamente sostenute da Dogali a Cassala, nella buona e nell'avversa fortuna.

L'on. AGNINI sostenne che l'Italia non aveva regioni commerciali e morali di rimanere in Eritrea e consigliò, anche a nome di altri deputati, di abbandonare la colonia. L'on. Di SAN GIULIANO disse che, "dopo la guerra, l'Eritrea aveva perduto molto del suo valore economico, ma niente del suo valore politico". Credeva anzi che questo fosse aumentato, trattandosi di posizione in cui "si poteva esercitare una azione efficace pro o contro determinate potenze; di posizione fra le più importanti del teatro mondiale per l'egemonia tra la razza slava e quella anglosassone, di una posizione che si connetteva alla situazione dell'Inghilterra in Egitto ed al vasto disegno coloniale della Francia".

La discussione continuò nella seduta del l° dicembre. L'on. IMBRIANI disse ancora una volta di esser favorevole all'abbandono assoluto della colonia, dichiarò di approvar pienamente il Governo che aveva sottoscritto la pace con l'Abissinia, disapprovò l'ordine del ministero della Guerra a Baldissera di mantenere l'occupazione di Cassala e concluse dicendo che "l'Italia in Africa aveva rinnegato il suo diritto pubblico ed era andata ad offendere il diritto altrui, profondendo centinaia di milioni e il suo miglior sangue, ma sul campo di battaglia l'onore era rimasto integro e più alto di prima, perché i soldati avevano dimostrato quale fosse la loro ubbidienza al dovere".

DI RUDINI, rispondendo ai precedenti oratori, spiegò le ragioni della conservazione di Cassala e del ritiro da Adigrat, rivolse un caldo elogio al maggiore Nerazzini per lo svolgimento e la conclusione dei negoziati con Menelick, affermò che con il trattato l'Italia si vedeva riconosciuto il diritto di sovranità su due nuove province d'Africa, l'Acchelò Guzai e il Seraè, parlò delle difficoltà di trasformare l'Eritrea da colonia militare in colonia puramente civile e commerciale, e concluse:
"Grandi amarezze ha dato all'animo mio questa politica africana, grandi amarezze ha dato al popolo italiano, il quale ha trovato la sconfitta, là dove cercava la vittoria e la gloria .... Non ci lasciamo traviare da miraggi che si trovano nel deserto ! Non lasciamo che il nostro pensiero si allontani da questa Madre-patria, che dobbiamo rendere grande, forte e potente! Ma di questo siate persuasi, o Signori, che questa patria non sarà grande, che l'Italia non sarà davvero una grande potenza, ed una potenza di prim'ordine, fintanto che sarà impigliata in imprese coloniali, sproporzionate alla condizione nostra ed ai nostri interessi".

L'on. IMBRUNI presentò, anche a nome di altri, la seguente mozione: "La Camera, riconoscendo esiziale per gl'interessi morali e materiali del paese il mantenimento della Colonia Eritrea, ne delibera il totale abbandono". Ma il giorno dopo la Camera respinse la mozione con 184 voti contrari, 26 favorevoli e 53 astenuti.

Il 3 dicembre l'Agenzia Stefani comunicava la triste notizia che a Lafolè, a 20 chilometri da Mogadiscio, una spedizione composta dei comandanti MAFFEI della Staffetta e MONGIARDINO del Volturno, del geometra QUIRIGHETTI, degli ufficiali di marina SMURAGLIA, BATALDI, DE CRISTOFORO, SANFELICE, GUZZOLINI, BARONI E GASPARINI, del macchinista OLIVIERI, del fuochista ROLFO, del domestico CARAMELLA, del timoniere VIANELLO e dei marinai GREGANTE e BONASERA, guidata dall'illustre esploratore ANTONIO CECCHI e scortata da 70 ascari, era stata nelle prime ore del mattino del 26 novembre attaccata da un'orda di Somali. Dopo accanita resistenza, 14 dei 17 italiani erano stati uccisi; si erano salvati solamente VIANELLO, BONASERA e GREGANTE; degli ascari 18 erano caduti e 17 erano rimasti feriti.
Quel giorno stesso sull'eccidio della "spedizione Cecchi" presentarono alla Camera, interrogazioni gli onorevoli RUBINI, DONATI, DI SAN GIULIANO, MACOLA e CANZI.
VISCONTI-VENOSTA, ministro degli Esteri, rispose che dalle notizie avute risultava che una punizione era già stata inflitta ai colpevoli e che il Governo aveva dato istruzioni e avrebbe preso tutti i provvedimenti perché tale punizione fosse veramente esemplare.
Di RUDINÌ non si lasciò sfuggire l'occasione per dichiarare che, quando l'Italia, si era accinta ad occupare la costa del Benadir, lui aveva alzato la voce in senso di diffidenza, per rammentare che non era stato troppo favorevole alla spedizione Bóttego e per dire che il Governo intendeva limitare la sua azione in Somalia alla difesa e protezione dei nostri stabilimenti sulla costa.

Alcuni mesi dopo e ne dava notizia il maggiore Nerazzini, il 23 aprile del 1897, altre vittime cadevano. Erano il capitano VITTORIO BÓTTEGO e il dottor MAURIZIO SACCHI, capo, il primo, di una spedizione di cui facevano parte il sottotenente di fanteria CARIO CITERNI e il sottotenente di Vascello LAMBERTO VANNUTELLI. La spedizione, partita da Brava il 12 ottobre del 1895, era giunta a Lugh il 18 novembre, vi aveva fondato una stazione commerciale sotto la direzione del capitano UGO FERRANDI e n'era ripartita il 27; aveva quindi esplorato con successo i bacini del Dana e dell'Omo; ma, nella via del ritorno, Sacchi era stato trucidato presso il Lago Margherita; gli altri erano stati assaliti dagli Abissini presso la frontiera etiopica e, dopo eroica resistenza BÓTTEGO era rimasto ucciso, e CITERNI e il VANNUTELLI erano stati catturati.

Verso la metà del maggio 1897 la Camera iniziò a discutere sulla politica africana. Sostennero l'abbandono della Colonia gli onorevoli DE MARINI, IMBRIANI, DEL BALZO, MARAZZI, BADALONI, COSTA, BERENINI, SICHEL, NOFRI, RAMPOLDI, SANI, DE CRISTOFORIS, PODESTÀ, GARAVETTO, COLLI, PALA, TASSI, R. LUZZATTO, MUSSI, PAVIA, PANTANO, TRAVELLI, PENNATO, RAVAGLI, POZZI, SCALINI, ZABBA, BISEARETTI, CREMONESI, LOCHIS, CAVALLOTTI, O. CAETANI, CURIONI, SORMANI, ARNABOLDI e OTTAVI; l'on. ANGELO VALLE sostenne che "si doveva rimanere dove si era e propose la formazione di un esercito coloniale". Favorevole al mantenimento della colonia, fu anche il Di SAN GIULIANO. Questi, fra l'altro, disse, che "l'importanza politica della nostra posizione a Massaua e sull'altipiano non riguarda solo l'influenza nostra nel Mar Rosso. Dall'altipiano si può anche direttamente ed indirettamente esercitare influenza sulle sorti dell'Egitto, su quelle dell'hinterland dell'Africa settentrionale, sul grande conflitto coloniale anglofrancese, e sul grande conflitto mondiale anglo-russo. Non è esagerato dire che sull'altipiano etiopico si difende la Tripolitania. E se noi non vediamo l'intima connessione della nostra posizione sull'altipiano con la tutela dei nostri interessi nel Mediterraneo, ben la vedono quelle potenze estere, le quali, avendo appunto nel Mediterraneo interessi opposti ai nostri, si sono servite del braccio di Menelick per cacciarci da quelle posizioni che sarebbero sempre più cresciute d'importanza, perché sempre più sarebbe cresciuta d'intensità la gara, per l'espansione coloniale fra tutte le potenze civili del mondo".

L'on. CHIMIRRI affermò che la Colonia Eritrea aveva un valore politico di altissimo ordine. Gli onorevoli DAL VERME, SONNINO, NASI, GIUSSO, CASALE, FRANCHETTI, MARTINI e GRIPPO proposero di sospendere ogni deliberazione sull'ordinamento della Colonia fino a quanto non fossero state adempiute tutte le condizioni del trattato di pace di Addis Abeba, anche perché era inopportuno parlare di abbandono o no della colonia quando il Maggiore Nerazzini trattava col Negus per la delimitazione dei confini.
Altri deputati si dissero favorevoli ad una "politica di raccoglimento".
DI RUDINÌ dichiarò che nell'anno decorso aveva cercato di ricondurre le cose nello stato in cui si trovavano dopo Coatit e Senafè. Per di più l'ultimo trattato permetteva di occupare tutto il paese fino al Mareb. Unica cosa mutata era la rinuncia al trattato di Uccialli, alla pretesa di esercitare il protettorato sull'Abissinia. Quanto agli intendimenti del Ministero, avvertì come il passato avesse dato non pochi ammonimenti e fatto dileguare non poche illusioni: per esempio l'occupazione di Cassala si era dimostrata solo un onere per il bilancio, e i fatti avevano provato essere un'illusione la speranza che sotto la protezione delle nostre armi potesse darsi sviluppo nell'Eritrea ad una colonia di popolamento. Dopo avere accennato alle grandi spese che l'occupazione militare della colonia richiedeva, il presidente del Consiglio concluse che "conviene formare una situazione di cose, la quale ci permette di ridurre ai minimi termini la nostra occupazione militare limitandola possibilmente alla sola Massaua; che non bisogna cedere, né in tutto né in parte, i territori sui quali si esercita la nostra sovranità", ordinando però il paese "sotto capi indigeni di nostra scelta", e infine che era "necessario far cessare il più presto l'occupazione di Cassala".

Il 22 maggio la Camera non approvò con 222 voti sfavorevoli, 140 favorevoli e 3 astenuti la mozione De Marinis-Imbruni-Pozzi sull'abbandono della Colonia, rigettò parimenti con 320 voti contrari e 58 favorevoli l'ordine del giorno MARTINI, appoggiato dal Sonnino e così concepito:
"La Camera, alfine di dare alla Colonia Eritrea l'assetto che meglio convenga alla dignità e agli interessi del paese, sospende ogni deliberazione e si riserva di riprendere la discussione intorno all'ordinamento della Colonia quando; adempiute le condizioni del trattato del 26 ottobre 1896, essa abbia tutti gli elementi necessari ad un giudizio definitivo"; infine fu approvato con 242 voti contro 94 e 20 astenuti l'ordine del giorno GALLO-RUBINI con cui la Camera prendeva atto delle dichiarazioni del Governo e ne approvava la "politica coloniale di raccoglimento".

Mentre a Roma si discuteva sulla politica africana, il Maggiore NERAZZINI svolgeva trattative con il Negus per delimitare i confini tra l'Eritrea e l'Abissinia. Ma l'accordo, per allora, non fu possibile; si riuscì soltanto, il 27 giugno del 1897, a stipulare un trattato con cui si accordava ai sudditi dei due Stati ampia facoltà di entrare, uscire e commerciare nei territori dell'altro.
Sulla fine dell'anno si mandò alla Scioa, come residente diplomatico; il capitano CICCODICOLA, che il 10 luglio del 1900 firmò ad Addis Abeba una convenzione che fissava: come confine la linea Tomat-Todluc-Mareb-Belesa-Muna.

Il 30 novembre dello stesso anno 1897 era stato nominato governatore civile dell'Eritrea (quindi cessa il governatorato militare) FERDINANDO MARTINI che tenne l'ufficio per dieci anni riorganizzando la colonia solidamente sotto l'aspetto politico, economico, amministrativo e giudiziario. Martini era un giornalista scrittore e deputato appartenente alla sinistra di Zanardelli.

L'anno si chiuse con un accordo italo-inglese, l'abbandono di Cassala. II 18-25 dicembre del 1897 fu sottoscritta dal colonnello CARLO SAMMINIATELLI e da CARLO PARSONS PASCIÀ una convenzione con cui Cassala era ceduta al Kedivè d'Egitto; un uomo di comodo che pur nominato kedivè (una specie di re governatore) politicamente ed economicamente l'Egitto era un Paese vassallo di una potenza straniera; Paese dal Sultano svenduto solo per ricavarne interessi personali.
Cominciò cosi il rigido dominio britannico, ma cominciarono pure dopo pochi anni, le gravi sommosse dei nazionalisti per ottenere la totale indipendenza dell'Egitto

LA CONVENZIONE
"Il corpo della piazza di Cassala con tutti i suoi fabbricati, fortilizi e dipendenze e gl'immobili demaniali unitamente a quella parte dell'armamento, di mobili, materiali, munizioni da guerra e da bocca, che sono distintamente inventariati negli allegati annessi al presente atto di cessione, passano da oggi, 25 dicembre 1897, alle ore 12, in piena ed effettiva proprietà di S. A. il Kedive d'Egitto, mediante pagamento da stabilirsi fra i due Governi".

In un atto addizionale fu stabilito:
I. Ai militari indigeni, che si trovano al servizio del Governo italiano, è fatta facoltà di passare fino alla data della presente convenzione al servizio del Governo egiziano. Coloro che aderiranno a tale passaggio saranno disarmati, congedati dal Governo italiano e arruolati dal nuovo Governo al cui servizio essi passano.
II. - I militari che passano al soldo del Governo egiziano acquistano il diritto che a loro siano conservati gli assegni che percepivano dal Governo italiano, e ciò fino al termine della ferma in corso".
------------------------------

E così dal Governo di RUDINI, fu "venduta" all'Inghilterra una città che tanto sangue e tanto eroismo erano costati all'Italia e che rappresentava per la colonia italiana una piazza di primissimo ordine, sotto l'aspetto commerciale e militare.
Le ragioni avanzate furono che la città lontana dalla base italiana di Massaua in Eritrea esigeva spese che il governo non intendeva più sostenere.

Ma non furono solo queste le "brillanti idee" della politica estera italiana -e così di quella interna- guidata da RUDINÌ.
Quella estera, europea, il "vecchiaccio" Crispi, dall'alto dei suoi 80 anni, l'attaccava e la chiamava, "sventura internazionale".

UNA INTERA ANALISI DELLA POLITICA ESTERA DI CRISPI FU POI FATTA
SU "LA VOCE" N. 36, DEL 15 AGOSTO 1919, DA GAETANO SALVEMINI.
(Abbiamo l'originale, e quindi l'analisi la riportiamo interamente)
( VEDI QUI )
Noi invece qui proprio della politica estera ed interna del Rudinì ci occuperemo nel prossimo capitolo…

 
 
 

Storia: Anni 1896-1897. Parte seconda.

Post n°63 pubblicato il 18 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia: Anni 1896-1897. Parte seconda.

IL GENERALE BALDISSERA IN ERITREA - ORGANIZZAZIONE DELLA DIFESA - RITIRATA DEGLI ABISSINI - OPERAZIONI CONTRO I DERVISCI - SCONTRO DI GULUSIT COMBATTIMENTO DI SABDERAT - COMBATTIMENTI DI MONTE MOCRAM E DI TUCRUF RITIRATA DEI DERVISCI - OPERAZIONI PER LA LIBERAZIONE DI ADIGRAT - SGOMBRO DI ADIGRAT E DELL'AGAMÈ - SEPPELLIMENTO DEI MORTI DI ADUA - LA SORTE DEI PRIGIONIERI ITALIANI - COMITATI E SPEDIZIONI DI SOCCORSO - LA DURA LETTERA DI

IL GENERALE BALDISSERA IN ERITREA
ORGANIZZAZIONE DELLA DIFESA - RITIRATA DEGLI ABISSINI
OPERAZIONI CONTRO I DERVISCI - COMBATTIMENTI DI GULUSIT, DI SABDERAT, DI MONTE MOCRAM E DI TUCRUF - RITIRATA DEI DERVISCI OPERAZIONI PER LA LIBERAZIONE DI ADIGRAT - SGOMBRO DI ADIGRAT E DELL'AGAMÈ

Quando il generale BALDISSERA giunse in Eritrea - a sostituire come abbiamo detto in precedenza- la situazione della colonia appariva abbastanza grave; infatti, l'Agamè era in piena rivolta, il forte di Adigrat era assediato dalla bande di ras Sebath e di Agos Tafari (prima queste erano con gli italiani, poi quando il 13 febbraio Menelik con i suoi 100.000 uomini, aveva sferrato l'attacco, queste bande passarono dalla sua parte e non solo abbandonarono gli italiani ma vi si gettarono contro), i dervisci, imbaldanziti dallo scacco delle armi italiane, minacciavano Cassala e il Negus accennava ad avanzare con l'esercito su Gura per invadere la colonia.
Il 5 marzo BALDISSERA sbarcato il giorno prima a Massaua, tolse il comando a BARATIERI, si trasferì all'Asmara e diede disposizioni per raccogliere le truppe del corpo d'operazione sparse in tutta la colonia, organizzare i rinforzi e apprestare la difesa. Disponeva di circa 13.000 italiani, 4000 indigeni e 14 cannoni e stavano per giungere i primi battaglioni della divisione Heusch; tuttavia ritenne opportuno di far giungere dall'Italia altre truppe e chiese d'urgenza l'invio di altri sei battaglioni e di altre 6 batterie da montagna.
Una delle prime disposizioni date dal nuovo governatore per parare la minaccia del Negus di invadere la colonia fu quella di concentrare all'Asmara le forze disponibili, fra cui il presidio di Cassala; ma questa città era già stata investita dai dervisci. Contemporaneamente, allo scopo di guadagnar tempo, mandò al campo di MENELIK il maggiore SALSA per negoziare la pace ed ottenere la liberazione dei prigionieri e il seppellimento dei morti di Adua.

L'8 marzo BALDISSERA decise di sgombrare l'Acchelè Guzai e di organizzare la difesa sulla linea Asmara-Ghinda-Baresa. Pertanto lasciò come truppe di copertura i presidii di Saganeiti, Chenafenà, Adi Ugri e Adi Qua-là; mandò 4 dei 5 battaglioni di Adì Caiè a Sabarguma e uno e uno a Decamerè; dislocò 6 dei 12 battaglioni concentrati all'Asmara a Schichet e 6 a Auxià, mise la divisione Heusch tra Ghinda e Baresa e pose in stato di difesa le piazze di Massaua e Asmara e i forti di Archicò e Saati.

Verso la metà di marzo BALDISSERA apprese che ras MAKONNEN, che con i suoi 20.000 uomini si trovava nell'Entisciò, si era congiunto a Menelik a Faras Mai. Evidentemente il Negus, impressionato dalle enormi perdite subite a Adua, impossibilitato ad avanzare rapidamente su Asmara e indotto dalle posizioni occupate dagli Italiani, dal loro numero sempre crescente, dalla penuria dei viveri, dal diffondersi delle epidemie nel suo esercito e dall'approssimarsi della stagione delle piogge, rinunciava all'offensiva. E così era.
Infatti, il 20 marzo iniziava la ritirata verso il sud e lasciava nel Tigrè soltanto gli armati di ras Mangascià, ras Alula, ras Sebath ed AoTos Tafari.
Ritiratosi il Negus, il generale Baldissera poté pensare a liberare Cassala, difesa dal II battaglione Indigeni, da una sezione d'artiglieria da montagna e da distaccamenti di artiglieri, genio e sussistenza, in complesso 20 ufficiali, 82 soldati italiani e 1225 ascari, sotto il comando del maggiore HIDALGO, che il 22 febbraio si erano scontrati, in un'azione di avamposti, con i dervisci a Gulusit e il 16 marzo avevano ricevuto da Agordat una carovana di rifornimenti di 500 cammelli scortata da 450 indigeni e da un plotone di cavalleria agli ordini del capitano Speck.

La decisione del generale Baldissera di liberare Cassala veniva in buon punto, perché i dervisci avevano occupato Tucruf, il monte Mocram e la Cadmia e il 18, in gran numero, avevano attaccato per la seconda volta Sabderat da cui però, dopo cinque assalti, la guarnigione italiana li aveva respinti.
Di portare aiuto a Cassala fu incaricato il colonnello STEVANI, ai cui ordini fu messa una colonna composta dei battaglioni III (cap. ZOLI), VI (cap. VIGNOLA), VII (cap. De BERNARDIS) e VIII (maggiore AMADASI) e di una sezione indigena d'artiglieria da montagna (ten. RACINA): in tutto circa 2500 uomini.

Queste truppe, partite da Agordat il 15, il 19 e il 21 marzo, giunsero a Sabderat il 28, il 29 e il 31. Nel pomeriggio del 1° aprile, lasciati a Sabderat 300 uomini di Milizia Mobile con il capitano Heusch, il colonnello Stevani mosse con il III, VII ed VIII battaglione, con la sezione d'artiglieria e con la 3° compagnia Bramanti del II e, girato a nord di monte Mocram, entrò a Cassala due ore dopo la mezzanotte.
Mezz'ora dopo il V1, battaglione, giungendo alle falde meridionali di monte Mocram, era attaccato dai dervisci. Questi, di fronte all'efficace resistenza degli italiani e minacciati dalla pronta sortita dal forte di Cassala degli altri battaglioni, si ritirarono lasciando sul campo numerosi morti e feriti.
Nel pomeriggio del giorno 2 aprile, una carovana di circa 2.000 persone, costituita delle famiglie degli ascari, fu fatta uscire da Cassala e avviata, sotto la scorta di due compagnie, verso Sabderat ed oltre.
La mattina del 3 aprile, i cinque battaglioni italiani, quattro pezzi di montagna e un plotone di cavalleria, uscirono dal forte e, formati in quadrato, marciarono contro i trinceramenti nemici di Tucruf, che furono assaliti poco dopo le ore 8; ma non fu possibile far sloggiare il nemico fortemente trincerato e, dopo mezz'ora circa di violentissimo combattimento, furono costretti a ripiegare abbastanza ordinatamente, respingendo pure alcuni tentativi d'inseguimento. L'azione Tucruf costò agli italiani 4 ufficiali morti e 7 feriti, 157 ascari morti e 344 feriti; gli ufficiali morti furono i tenenti UMBERTO PARTINI, AUGUSTO BENETTI, GIUSEPPE STELLA e GAETANO di SALVIO.

Dato lo sfinimento delle truppe, il colonnello Stevani non rinnovò l'attacco com'era intenzionato fare.
Il giorno dopo, da BALDISSERA, gli giunse l'ordine di sgombrare Cassala e di ripiegare su Agordat. Si cominciò il 6 aprile con il mandare indietro una carovana di feriti leggeri; poi non potendo trasportare tutte munizioni che erano nel forte, invece di distruggerle, le usarono in abbondanza per cannoneggiare il campo nemico di Tucruf.
Questo massiccio bombardamento fece credere ai dervisci in un prossimo secondo attacco italiano e li persuase a ritirarsi; ripiegamento che avvenne nel corso della notte del 7.

Nei giorni successivi il colonnello STEVANI distrusse i campi nemici di Tucruf e Gulusit. Lo sgombro impartito da Baldissera , dopo la ritirata dei dervisci, non fu più, per ordine del ministero, effettuato. A Cassala rimasero di presidio il III e VI battaglione; altre truppe della colonna Stevani furono scaglionate tra Cassala e Cheren.

Liberata, Cassala, il generale BALDISSERA rivolse il pensiero al forte di Adigrat. Disponeva di forze imponenti: 40 battaglioni italiani, 7 indigeni, 10 batterie da montagna (60 pezzi), 7 compagnie del genio; in complesso 1300 ufficiali, 41.550 soldati e 10.250 quadrupedi. Circa 15.000 uomini di tali forze erano raggruppati in due divisioni. La 1a, al comando del generale Del MAYNO, comprendeva la 1a brigata di fanteria (gen. BISESTI), la 2a brigata di fanteria (gen. BARBIERI), la 1a brigata di artiglieria, il V Battaglione Indigeni, 2 compagnie del genio ed una sezione di sanità; la 2a al comando del generale HEUSCH, comprendeva la 3a brigata di fanteria (gen. GAZZURELLI), la 5a brigata di fanteria (gen. MAZZA), la 2a brigata di artiglieria, il 1° battaglione Indigeni, 3 compagnie del genio ed una sezione di sanità.

Nella prima decade di aprile la Prima divisione avanzò su Mai-Serau, e la II su Adi Caiè, dove le truppe rimasero per tutto il resto del mese. Il 28 aprile le bande dell'Hamasien e dell'Acchelè Guzai furono mandate, per un'azione dimostrativa, verso Coatit e Debra Damo; contemporaneamente il colonnello PAGANINI con il VI e VII battaglione bersaglieri, con un battaglione di fanteria, una sezione di artiglieria e le bande del Seraè, fu mandato con lo stesso scopo verso Adua. Le dimostrazioni ottenero l'effetto di richiamare verso Debra Damo ras SEBATH e il Degiac AGOS TAFARÌ, che stavano presso Adigrat, e verso Adua ras ALULA, che si trovava vicino Bizet.
L'avanzata verso Adigrat del corpo d'operazione fu iniziata il 30 aprile: la Ia divisione si trasferì ad Adi Caiè e la II a Senafè; il l° maggio la Iª si portò a Senafè, la IIª ad Efesit ed Adi Ceffà; il 2 maggio l'intero corpo avanzò su Barachit: nel pomeriggio di quel giorno, il V battaglione Indigeni, recatosi in avamposti sul ciglione di Guna Guna fu assalito dalle truppe dei due capi ribelli dell'Agamè, ma le respinse e le inseguì.
Il 3 maggio continuò l'avanzata del corpo, che alle ore 11 raggiunse la piana di Gullabà, ammassandosi con la Iª divisione a destra e la IIª a sinistra della strada che conduce a Mai Maret e alle ore 16 si accampò lungo il Mai Musreb, provocando lo sgombro di Dongollo, occupato dalle genti di ras Sebath e Agos Tafarì.
Il 4 maggio, tutto il corpo (eccetto la colonna Stevani - I, II e V Indigeni. III bersaglieri e una batteria mandata per proteggere la marcia sul fianco est dei monti Dongollo e Focadà) giunse e s'accampò nella conca di Adigrat, fra Legat e Chereber, stabilendo le comunicazioni col forte.
La avanzata italiana su Adigrat, preceduta dalle operazioni contro i Dervisci, produsse grande impressione sugli Abissini, che continuando la campagna sarebbe stata utile, anzi bisognava sfruttare; ma il Governo, interpellato dal generale Baldissera, ordinò di sgombrare Adigrat e l'Agamè.

BALDISSERA, prima di ritirarsi, pensò di trarre profitto dalla situazione per farsi restituire i prigionieri da ras Mangascià, da ras Sebath e da Agos Tafarì e punire questi ultimi due (i due che al momento critico per gli italiani erano improvvisamente passati nelle file avversarie).
Contro ras SEBATH fu mandato, il 7 maggio, il colonnello STEVANI con tre battaglioni indigeni, uno di bersaglieri e una batteria, che lo fece sloggiare da Devra Matzò, lo inseguì uccidendogli alcuni armati, catturandogli molto bestiame e gl'incendiò quattro villaggi; contro AGOS TAFARÌ e DEBRA DAMO andò il 9 maggio lo stesso STEVANI con la sua colonna rinforzata dalle bande del tenente SAPELLI e sostenuta dalla brigata Mazza. Allora i ribelli restituirono i pochi prigionieri che avevano.

Dopo lunghe trattative, il giorno 18, ras MANGASCIÀ restituì i prigionieri italiani rimasti nel Tigrè (6 ufficiali e 90 soldati); pochi altri furono restituiti alcuni giorni dopo. Lo stesso giorno18 il presidio di Adigrat abbandonò il forte, che l'indomani, per ordine di Mangascià, fu distrutto; quindi il corpo d'operazione iniziò il ripiegamento portandosi, tra il 15 e il 22 maggio, vicino il confine, tra Barachit e Senafè.

CRISPI

SEPPELLIMENTO DEI MORTI DI ADUA
LA SORTE DEI PRIGIONIERI ITALIANI: COMITATI DI SOCCORSO
LA DURA LETTERA DI CRISPI


Da Barachit, in seguito a trattative tra il generale BALDISSERA e ras MANGASCIÀ, il 27 maggio, partirono, sotto il comando del tenente colonnello FRANCESCO ARIMONDI, fratello del generale caduto, due compagnie del genio con medici e frati cappuccini dirette al campo di Adua per seppellire i morti. La colonna, compiuto il suo pietoso ufficio, rientrò il 7 giugno ad Adi Qualà.
Mentre in Eritrea ci si impegnava per la liberazione di Cassala e di Adigrat, Menelik si ritirava verso lo Scioa, portandosi dietro circa 1500 prigionieri, che durante la lunghissima marcia furono afflitti da inenarrabili sofferenze e lasciarono non pochi compagni, caduti lungo la via. La, sorte di questi prigionieri commosse la nazione, dando luogo a manifestazioni pietose, ma non certo virili, e alla formazione di comitati, destinati a soccorrere i prigionieri. Fra questi comitati uno ve ne fu di dame romane presieduto dalla Contessa di SANTAFIORA, che fece appello alla carità pubblica affinché con offerte di danaro, viveri, medicine e indumenti lenisse le sofferenze dei prigionieri.

Ma ben altro occorreva. Occorrevano dimostrazioni di forza e propositi di rivincita anziché sentimentalismi demagogici e opere di pietà di dubbio esito. Anche allora FRANCESCO CRISPI levò la sua voce ammonitrice, scrivendo alla contessa ERSILIA CAETANI-LOVATELLI, che faceva parte del comitato romano:
"Quando l'Italia era spezzata in sette Stati, e i barbari esercitavano la tratta anche sulle nostre spiagge, i nostri padri, costretti dalla loro impotenza, costituirono una società per la redenzione degli schiavi. Oggi siamo una nazione di 32 milioni e ben altro è il metodo da seguire per esplicare i nostri doveri e farci rispettare. I nostri fratelli, fatti prigionieri ad Abba Garima, aspettano ansiosi l'esercito liberatore, e le donne italiane, come nel 1848 e nel 1860, dovrebbero ispirare il coraggio di organizzare la vittoria. La pietà è santa, ma nell'animo abissino oggi sarebbe interpretata paura e debolezza .... Consigli alle gentili sue compagne di mutare lo scopo del Comitato. Rialzino a più alti propositi i cuori dei nostri concittadini e rompano questa nube paurosa, che con poca prudenza tentano di addensare sul popolo alcuni falsi apostoli di libertà".

Ma neppure questa volta la voce del grande statista fu ascoltata. L'incarico di portare i soccorsi fu affidato al sacerdote polacco WERSOWITZ-REY, il quale partì da Napoli per Gibuti il 20 maggio, ma, colto da una insolazione, morì presso questa località il 2 luglio. La spedizione di soccorso fu allora guidata dal prete francese CARLO OUDIN che riuscì a giungere allo Scioa e compiere la sua missione.
Anche il Pontefice s'interessò dei prigionieri e inviò al Negus Monsignor CIRILLO MACARIO, vicario patriarcale dei Copti della chiesa di Alessandria, il quale giunse ad Addis-Abeba l'11 agosto con una lettera di LEONE XIII, ma Menelick, pur promettendo di alleviare le condizioni dei prigionieri, consigliato dall'ingegnere LLG, non volle cedere gli ostaggi così preziosi per le "sue" trattative di pace.

Il Negus aveva motivato il suo rifiuto al Pontefice con il preteso contegno ostile del Governo italiano; ma in verità il contegno dell'Italia era tutt'altro che ostile e ne faceva fede il ritiro da Adigrat e il rimpatrio, subito dopo iniziato, delle truppe. E prima ancora che monsignor MACARIO giungesse alla capitale etiopica, il Governo italiano, per trattare della pace e della liberazione dei prigionieri, aveva mandato in Abissinia il maggiore CESARE NERAZZINI.
Nerazzini, partito da Napoli il 3 giugno, dovette dal 23 giugno al 23 agosto rimanere fermo a Zeila ad aspettare che gli pervenisse la licenza del Negus di recarsi nello Scioa, e non riuscì a giungere ad Addis-Abeba che il 6 ottobre.

 
 
 

Storia. Anni ANNI 1896-1897. Parte prima.

Post n°62 pubblicato il 18 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni ANNI 1896-1897. Parte prima.

GUERRA D'AFRICA - ADUA (POLEMICHE) - TRATTATO DI CASSALA

DOPO ADUA - IL SECONDO MINISTERO DI RUDINÌ - SUO PROGRAMMA - DISEGNO DI LEGGE PER LE SPESE DI GUERRA NELL'ERITREA - DISCUSSIONE PARLAMENTARE

Abbiamo già visto - nella precedente puntata- lo "spettacolo" dopo l'arrivo della triste notizia del massacro di Adua.
Indegno di una grande nazione fu quello che diede l'Italia. Si tumultuò, si gridò "Abbasso Crispi ! Via dall'Africa!" e, purtroppo, anche "Viva MENEDICK !" l'autore del massacro.
Invece di accogliere la notizia della sconfitta con la calma dei forti ed esprimere energici propositi di rivincita (che è forse irrazionale ma è spontaneo in un popolo), alcuni si lasciano vincere dalla viltà; perfino approvando un massacro, che indubbiamente non proveniva da un sentimento "sentito" nella profondità dell'anima; perché allora voleva dire rinunciare alla tutela dei propri interessi morali e materiali del proprio paese.

Giusta o sbagliata che fosse la "spedizione in Africa", nel momento del dolore, qualsiasi recriminazione o discussione in quel momento non doveva essere fatta. Anche perché spesso si cambia opinione; infatti, l'errore della politica colonialista crispina, sarà ripetuto in Libia da chi aveva in questo periodo attaccato Crispi, cioè da Giolitti. E sarà poi curioso constatare -proprio con Giolitti- come alla testa dei "socialisti rivoluzionari", contrari alla "sua" guerra di Libia, ci sarà un certo Benito Mussolini, che darà vita in Romagna a violente dimostrazioni di piazza, proprio lui che sarà di lì a pochi anni un interventista acceso, e poi l'incarnazione stessa del nazionalismo e imperialismo fascista, rispettivamente nei confronti dell'Austria (nella Prima Guerra Mondiale) e poi più tardi in Africa (nella Seconda)..

A Milano e a Pavia si tentò di smuovere i binari per impedire la partenza delle truppe; a Napoli si ebbe una dimostrazione di protesta da parte degli studenti, capitanata dal prof. F. SAVERIO NITTI e a Bologna gli studenti universitari votarono un ordine del giorno contro l'espansione in Africa.

Certa stampa -lo abbiamo visto nelle pagine precedenti- riportava più che il sentimento addolorato di una popolazione per i suoi figli morti, riferiva l'opinione di alcuni gruppi insofferenti agli alti costi economici e sociali delle avventure coloniali; gruppi paradossalmente legati con un perverso connubio, la nuova borghesia e i socialisti rivoluzionari; i primi miranti ad accelerare i tempi del processo di sviluppo economico, i secondi, il processo di sviluppo sociale.
Il fenomeno si ripeterà nel 1920, quando il foglio mussoliniano muta il sottotitolo del Popolo d'Italia da "Quotidiano Socialista" a "Quotidiano dei combattenti e dei produttori". Poi il 1° gennaio del '21, sarà ancora più esplicito (quando arriveranno i finanziamenti dei "siderurgici"), e metterà il motto di Blanqui "Chi ha del "ferro" ha del pane". Il patto dell'ex rivoluzionario, con la borghesia industriale, era ormai senza più sottintesi".

Dunque, mentre i gruppi che abbiamo citato, gioivano, e gridavano perfino "Viva Menelick", nel frattempo anche in Francia e in Russia si gioiva dello scacco italiano. La stampa della vicina repubblica parlava dell'incapacità militare degli Italiani, faceva l'apoteosi di MENELICK, esaltava il valore degli Abissini e dava a Crispi dell'avventuriero; così in Russia dove i giornali si compiacevano dell'insuccesso italiano, si celebravano funzioni religiose per la vittoria delle armi abissine ed erano accolte con grandi feste, a Pietroburgo e a Mosca, due missioni etiopiche.

Diverso ma ipocrita invece fu il contegno dell'Inghilterra, della Germania e dell'Austria-Ungheria. Lord CURZON, segretario inglese degli Esteri, disse: "Abbiamo tutti fede nella forza riparatrice e nel coraggio delle truppe italiane, e nutriamo speranza che si rialzeranno dalla sventura e rivendicheranno l'onore della bandiera".
I sovrani (della Triplice) alleati espressero il loro vivo dispiacere agli ambasciatori italiani a Berlino e a Vienna per gli avvenimenti d'Africa, e l'imperatore GUGLIELMO II, anziché rimandare il viaggio che aveva stabilito di compiere in Italia, lo affrettò e, dopo avere visitato Genova, Napoli e la Sicilia, in compagnia dell'imperatrice, s'incontrò l'11 aprile a Venezia con UMBERTO I.

Il ministero CRISPI, dimessosi il 5 marzo 1896, rimase in carica fino al 9 marzo. Il giorno 7 il Re dopo le manifestazioni dentro e fuori il Parlamento, si era reso conto che era impossibile affidare il compito di costituire un nuovo governo sia agli uomini della sinistra costituzionale e del centro che avevano fatto parte del governo Crispi, sia all'opposizione anticrispina. Incaricò così un generale, CESARE RICOTTI a costituire il nuovo ministero, che però non guiderà lui, trattiene per sé solo il ministero della guerra e indica il presidente del consiglio.

Il 10 marzo 1986, fu costituito il nuovo Gabinetto. La presidenza del Consiglio e il portafoglio dell'Interno furono dati al Di RUDINÌ, il ministero degli Esteri al duca ONORATO CAETANI di Sermoneta, quello delle Finanze ad ASCANIO BRANCA, quello del Tesoro a GIUSEPPE COLOMBO, quello dei Lavori Pubblici a COSTANTINO PERAZZI, quello delle Poste e dei Telegrafi a PIETRO CARMINE, quello di Grazia e Giustizia a GIACOMO GIUSEPPE COSTA, quello della Pubblica Istruzione ad EMANUELE GIANTURCO; quello della Marina a BENEDETTO BRIN e quello dell'Agricoltura a FRANCESCO GUICCIARDINI.
Tutti benché la maggior parte di loro appartengono alla destra, hanno il sostegno della sinistra zanardelliana e giolittina e della maggioranza dei radicali, in quanto tutti i ministri erano stati ostili a Crispi e alla sua politica coloniale.
Il sostegno è ulteriormente rafforzato dalla concessione dell'amnistia ai condannati dai tribunali militari crespini.
Infatti, il primo atto politico del Gabinetto Di RUDINÌ fu l'amnistia completa concessa il 14 marzo, genetliaco di Umberto I, a tutti i condannati politici per i moti della Sicilia e della Lunigiana, considerati vittime del governo di Francesco Crispi.

Il 17 marzo Di Rudinì, presentando il nuovo Gabinetto alla Camera, rivolse un saluto ai prodi caduti in Africa e dichiarò che i nostri soldati erano stati sul campo di battaglia con la più scarsa preparazione e in condizioni tali che qualsiasi esercito si sarebbe trovato soccombente.
Disse quindi che "il ministero dimissionario aveva lasciato arbitro il generale BALDISSERA di prender tutte le misure necessarie per far fronte alla difficile situazione in Eritrea, abbandonando anche, se le circostanze lo avessero richiesto, Adigrat e Cassala". Per di più -fu riferito- che "fin dall'8 marzo era stato ordinato a BALDISSERA di trattare la pace in quelle migliori condizioni che egli avesse creduto "prescrivere per la salute della colonia ed il decoro d'Italia". Inoltre il presidente del Consiglio annunciò che "il corpo d'occupazione era bene animato e fiducioso, che non era necessaria la seconda metà dei rinforzi non ancora partita e che si sarebbero continuate le ostilità "fino a quando non si fosse fatta una situazione tale da soddisfare agl'interessi della colonia e al sentimento del popolo italiano".

Quanto alla politica dichiarò che mai si sarebbe accinto a farne una di espansione, che avrebbe rifiutato il Tigrè se lo stesso Negus l'avesse offerto e che in un trattato non avrebbe mai messo come condizione il protettorato sull'Abissinia. Quanto alla pace affermò che le trattative sarebbero state condotte con prudenza e con fierezza, che "sarebbero state respinte le proposte contrarie al nostro decoro e ai nostri interessi e, infine, che il Governo voleva, sì, la pace, ma non aveva fretta di stipularne una qualsiasi e che per conseguirla quale il nostro interesse e il nostro prestigio imponevano, occorreva prepararsi a continuare la guerra". Pertanto, d'accordo con i ministri della Guerra, della Marina e del Tesoro, presentava un disegno di legge, con il quale si chiedeva la somma di 140 milioni (dai fatidici 9 milioni si è già passati ai 140! Ndr.) per provvedere a tutte le spese che avrebbero potuto essere necessarie fino al dicembre, somma che doveva esser procurata mediante l'emissione di titoli del consolidato 4.50 % netto, e, data la massima urgenza, pregava la Camera di acconsentire che il suo presidente nominasse una Commissione di 9 membri cui sarebbe stato deferito l'esame del disegno.
A far parte della Commissione il presidente della Camera chiamò gli onorevoli BIANCHERI, BOVIO, CADOLINI, COPPINO, DI SAN GIULIANO, FORTIS, LUZZATTI, MARTINI e TITTONI, che nella seduta stessa dichiararono di accogliere la richiesta del Governo.
Aperta la discussione, l'on. IMBRIANI dichiarò che avrebbe approvato qualunque azione del Governo contraria alla politica d'espansione, affermò che sarebbe stato meglio, molto più decoroso, prudente e nobile ritirarsi assolutamente dall'Africa ed espresse la speranza che il passato ministero sarebbe stato messo in stato d'accusa.

L'on. CAVALLONI, dopo aver tributato un plauso alle parole del presidente del Consiglio, disse che non era il momento dell'esame delle responsabilità, urgendo altri doveri, ed affermò che, esaminati i libri verdi del precedente Ministero, aveva visto come i documenti posti innanzi alla Camera non fossero che "un infelice travisamento dei documenti veri, stampati in segreto nella tipografia del ministero degli Esteri. Concluse, esprimendo il desiderio che mai più si doveva ripetere l'esempio di quel modo d'informare la rappresentanza nazionale, un modo che si poteva chiamare reato".
L'on. SONNINO, che aveva fatto parte del passato Gabinetto, essendo assente dalla seduta Crispi, volle prender la parola per rilevare alcuni punti delle dichiarazioni governative che gli sembravano d'intonazione polemica. Dichiarò non esser vero che il Ministero Crispi, dopo Adua, avesse ordinato al Baldissera di trattar la pace; ma di essere stato invece Baldissera, il quale, informando di voler mandare SALSA al campo del Negus per trattare la questione dei feriti e dei prigionieri, aveva chiesto al Governo se per mezzo del suddetto ufficiale, poteva intavolare negoziati di pace.

L'on. MOCENNI, ex-ministro della Guerra, affermò che attendeva serenamente il giudizio del suo operato, che non voleva per il momento difendersi dalle accuse di scarsa, preparazione, ma desiderava che la Camera prendesse visione del carteggio passato tra lui e i generali Baratieri e Baldissera.
L'on. Tortis disse che gli interessi italiani non sarebbero stati efficacemente tutelati da un Governo che anticipatamente dichiarava che avrebbe rifiutato il Tigrè e il protettorato sull'Etiopia ed avrebbe abbandonato Adigrat e Cassala. "Io credo fermamente - concluse - che non riusciremo a mantenere il nostro grado in Europa, se ci, lasceremo annientare da una sconfitta in Africa. Non basta una pace onorata per conservare in Europa il prestigio della nostra potenza militare: importa superare tutte le difficoltà dell'impresa che abbiamo affrontato".

Prima di togliere la seduta, fu data lettura di due mozioni. La prima, firmata dagli onorevoli FERRI, AGNINI, BADALONI, BERENINI, CASILLI, ANDREA COSTA, DE MARINIS, PRAMPOLINI, SALSI E ZAVATTARI, diceva:
"La Camera, ritenuto che la responsabile dell'ultimo disastro in Africa è tutta intera del Governo, il quale, violando la costituzione e ingannando il paese sul carattere e l'importanza dell'impresa, ha dato alla conquista militare un'espansione non voluta dal Parlamento ed ha sacrificato alla sua politica il sangue e gli interessi vitali della nazione; ritenuto che l'impresa africana, favorevole soltanto ai militaristi, agli speculatori ed agli avventurieri politici, è contraria alla civiltà ed incompatibile con le condizioni economiche d'Italia; delibera di richiamare immediatamente le truppe dall'Africa, e secondo l'art. 47 dello Statuto, di porre il Ministero in stato d'accusa".

La seconda, firmata dagli onorevoli SACCHI, A. GAETANI, PIPITONE, TASSI, MUSSI, DE CRISTOFORIS, SOCEI, CAROTTI, MOSCIONI, BOVIO, DILIGENTI, PANTANO, A. MARESCALCHI, VENDEMINI, TARONI, ZAVATTARI, ZABEO, BARZILAI, ENGEL, CREDARO, BUDASSI, PENNATO, S. SANI, BASETTA, CELLA, MARCORA, MERCANTI, IMBRIANI, POERIO, SEVERI, PRIARIO, CALDESI, PANSINI, PINNA, RAMPOLDI E GAVARETTI, diceva: "La Camera, augurando che il popolo con calma e con finezza sappia fare giustizia di tutti i colpevoli dell'impresa africana, contraria al diritto ed agli interessi del paese, delibera di provvedere al richiamo delle truppe dall'Africa e di porre in stato d'accusa il Ministero".

Nella seduta del 18 marzo il presidente VILLA inviò in nome della Camera un saluto plaudente e affettuoso all'esercito, cui appartenevano i prodi che si erano misurati con un nemico soverchiante, e una parola di conforto non infecondo d'aiuto alle famiglie angosciate; gli onorevoli MARAGHI, PINCHIA e TOZZI commemorarono il generale Dabormida, l'on. FALCI inviò un saluto alle due batterie siciliane e l'on. LAUSETTI espresse l'augurio che il generale Arimondi fosse scampato alla morte. Quindi continuò la discussione sulle comunicazioni del Governo.
GIOVANNI BOVIO osservò che, "dopo le guerre nazionali, non era più possibile nel soldato italiano il senso della conquista e che dall'infausta guerra d'Africa sarebbe derivata all'Italia miglior coscienza di sé e della sua missione", e aggiunse che "la salvezza del paese sta al di sopra dei partiti politici e perciò consiglio di ritirarsi in tempo da un'impresa che consuma uomini e sostanze" e concludeva col dire che, "quando in Africa non si è vinto e non si può vincere, non si può neppure rimanere".

L'on. PRINETTI, lodata la franchezza del Governo, pur ripetendo di essere stato contrario a qualunque espansione della nostra colonia, sostenne che "l'Italia aveva nel Mediterraneo la base della sua forza e il limite della sua espansione" e concluse affermando che "la nostra posizione di grande potenza in Europa esige che non si continui un'avventura così infelice e che i vincoli contratti in Eritrea e gl'impegni che ne derivavano costituiscono una grande debolezza per tutta la nostra politica europea, le impediscano la duttilità e la pieghevolezza necessaria e ci conducono ad amicizie e inimicizie forzate".

L'on. FERRI, dopo aver parlato contro la politica di conquista ed avere affermato che, dopo l'eroico contegno degli ufficiali, era salvo l'onore della bandiera, disse che "nella miseria e nelle tristi condizioni economiche d'Italia stava il disonore del paese. Il partito socialista reclamava il ritiro immediato delle truppe dall'Africa e, l'accertamento di tutte le responsabilità del Governo."

Dopo Ferri parlarono gli onorevoli De NICOLI e FILÌ-ASTOLFONE; quindi la Camera deliberò di chiudere la discussione sulle comunicazioni del Governo. Prima che si chiudesse la seduta fu letta una mozione, firmata dagli onorevoli MOCENNI, SAPORITO, MECOCCI, SQUITTI, SANTINI, SCOTTI, MATTEINI, TEALDI, DE GIORGIO, VALLE e AGUGLIA, che chiedeva si distribuissero ai deputati i documenti che costituivano la corrispondenza tra Baratieri e il passato ministro della Guerra.
Con un'altra mozione s'inviava "un ringraziamento alla Camera dei Comuni d'Inghilterra ed all'assemblea nazionale rumena per le recenti solenni dimostrazioni d'amicizia e di simpatia verso l'Italia".

Il 19 marzo cominciò alla Camera la discussione del disegno di legge per le spese di guerra nell'Eritrea. Presero la parola l'on. COLAJANNI che sostenne la responsabilità dei fatti d'Africa del passato Gabinetto; l'on. FRANCHETTI, il quale espresse il parere che causa dei disastri africani fossero i criteri parlamentari con cui si era fatta la guerra e l'ignoranza profonda e costante delle condizioni della nostra colonia; l'on. IMBRIANI, il quale dichiarò che la presa di Cassala aveva creato una condizione strana e pericolosa e affermò che "il ministero passato non aveva avuto affatto conoscenza di ciò che rappresentava per un popolo la tradizione e la storia", e concludeva che "la necessità di conoscere il vero era ormai sentita dal paese che voleva un tribunale per giudicare i responsabili"; e l'on. Di SAN GIULIANO che disse di accettare i due concetti fondamentali delle dichiarazioni governative: "non abbandonare l'Africa e non farvi politica d'espansione, e sostenne la costituzione del Tigrè sotto un capo indigeno ma che non fosse Mangascià, la necessità d'impedire che l'Abissinia si mettesse sotto il protettorato di un'altra potenza e l'inutilità del possesso di Cassala; infine concluse esprimendo la speranza che "l'Italia trarrebbe ammaestramento dalle dure lezioni dell'esperienza".

La discussione continuò il 20 marzo. Parlarono il De MARINIS che sostenne la rinuncia a qualsiasi impresa africana e il richiamo delle truppe concedendo al Governo i mezzi puramente necessari per l'attuazione di questo programma; mentre l'on. SONNINO, invitò l'assemblea a votare concorde i fondi per la prosecuzione della guerra.
Dopo alcune dichiarazioni del Tittoni e del ministro del Tesoro, cominciò lo svolgimento degli ordini del giorno TECCHIO, CALVI, TARONI, POZZI, SPIRITO, BARZILAI; quindi parlarono FERDINANDO MARTINI e l'on. MURATORI, che continuò il suo discorso nella seduta del 21 marzo, difendendo il Gabinetto Crispi dall'accusa d'impreparazione. Seguirono gli onorevoli IPPOLITO LUZZATTI, BORSARELLI, TOZZI, PANDOLFI, MUSSI, CAVALLOTTI, FORTIS, FANI, PANTANO e CANZI che svolsero i loro ordini del giorno. Dopo che il ministero della Guerra ebbe dichiarato che la preoccupazione dell'onor militare non doveva influire sulle decisioni del Governo e della Camera intorno all'Africa, il presidente del Consiglio parlò dei rapporti italo-inglesi, delle trattative di pace con Menelick e del protettorato sull'Etiopia e pregò i vari proponenti degli ordini del giorno di volerli ritirare. Soltanto SONNINO e De MARINIS li mantennero, ma i loro ordini non furono approvati. Approvato fu invece il disegno di legge, che riscosse 214 voti favorevoli e 57 contrari alla Camera e, il 25 marzo, 109 favorevoli e 6 contrari al Senato.

 
 
 

Immagini e Video.

Post n°61 pubblicato il 18 Agosto 2008 da wrnzla

-IMMAGINI-
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Immagini pittoriche:
01- Fanteria Eritrea - GALLERIA 1
02- Fanteria Eritrea - GALLERIA 2
03- Cavalleria Eritrea - GALLERIA 1
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Immagini fotografiche:
01- La Guerra di Etiopia - GALLERIA 1
02- Cavalleria Coloniale - GALLERIA 1
03- Asmara. Paesaggi e persone: GALLERIA 1
04- Asmara. Paesaggi e persone: GALLERIA 2
05- Asmara. Paesaggi e persone: GALLERIA 3
06- Massaua. Paesaggi: GALLERIA 1
07- Amedeo Guillet - La Leggenda del Comandante Diavolo.
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Altre immagini:
01- Medaglie
02- Colori distintivi
03- Cavalleria coloniale A.O.I. (Stemma, Fascia e Colori)
04- Cartografia, mappe, planimetrie urbane.
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-VIDEO-
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01- Amedeo Guillet. La Leggenda del Comandante Diavolo: Puntata Integrale
02- Amedeo Guillet. La Leggenda del Comandante Diavolo: Parte 1di6 - 2di6 - 3di6- 4di6 - 5di6 - 6di6
03- Etiopia 1936. Alla Conquista dell'Impero. Istituto Luce/YouTube. (5 Parti)
04- Guerra d'Etiopia. Rai3. La storia siamo noi. Puntata integrale.
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IN ALLESTIMENTO.

In attesa di completare la sezione del blog appositamente dedicata alle immagini degli Ascari d'Eritrea e dell'Eritrea coloniale desidero indirizzare tutti i gentili visitatori sul sito web ufficiale dell' ISTITUTO LUCE il quale, previa una semplice e gratuita registrazione, mette a disposizione degli utenti del proprio archivio una innumerevole serie di filmati e fotografie relativi all'argomento ed il periodo in questione. (Ma anche di altre tematiche e periodi storici)
In dettaglio ogni utente registrato potrà usufruire dei seguenti servizi:
- Accesso alle immagini nel formato bassa definizione
- Accesso ai filmati
- Accesso al Web folder che le consentirà di creare raccolte personali con i documenti estratti dagli archivi

Esempio: Inserendo il testo ERITREA nel box di ricerca dell'ARCHIVIO STORICO LUCE si ottengono:
ARCHIVIO CINEMATOGRAFICO LUCE
Totale schede 82
Cinegiornali 50
Documentari 31
Repertori 1
ARCHIVIO FOTOGRAFICO LUCE
Totale schede 1533
Reparto Attualità 255
Africa Orientale Italiana 1278

Semplicemente stupendo!!!

Per rispetto verso il lavoro altrui e per non ledere eventuali diritti d'autore pubblicherò qui di seguito, a titolo puramente informativo e di anteprima, solo una manciata di immagini estrapolate dall' ARCHIVIO STORICO DELL' ISTITUTO LUCE.
Per una eventuale registrazione vedi Link:
www.archivioluce.com/archivio/
(Box a fondo pagina, lato destro.)
Buona visione.



- Immagine1
Squadrone di ascari eritrei a cavallo
[05.05.1936 - ante 27.05.1936]
Schieramento di cavalieri ascari penne di falco

- Immagine2
Carica a cavallo di un reparto di soldati eritrei - 09.1935 - 10.1935
Carica di cavalleria in un'ampia e brulla pianura su cui scorre un corso d'acqua.

- Immagine3
Truppe eritree in marcia.
Ascari a cavallo - 10.1935
Truppe armate di ascari a cavallo in marcia lungo una strada in una piana

- Immagine4
Soldati ascari al lavoro intorno ad un cannone - 09.1935 - 10.1935
Un gruppo di ascari impegnato a caricare un cannone durante un'esercitazione.

 
 
 

Storia. Anni 1895-1896. Parte Terza.

Post n°60 pubblicato il 18 Agosto 2008 da wrnzla

Storia. Anni 1895-1896. Parte Terza.

DOPO LA DISFATTA: IL PROCESSO BARATIERI
CADUTA DI FRANCESCO CRISPI

Nella notte del 3 e 4 marzo 1986, BARATÌERÌ partì da Adi Caiò per Saganeìtì, diretto all'Asmara, dove giunse nel pomeriggio del giorno 5. Solo allora seppe che il giorno prima il generale BALDISSERA era sbarcato a Massaua e lo aveva sostituito nel comando.
Quella sera stessa il governatore cedette il comando al generale LAMBERTI. Il giorno dopo Baldissera giunse all'Asmara e iniziò ad impegnarsi per prepararsi alla difesa della Colonia.

Qualche mese dopo al Tribunale di Guerra dell'Asmara, composto dai generali Dei Mayno, Bisesti, Gazzurelli, Mazza, Heusch e Valle, si svolse il processo contro il BARATIERI. La sentenza, pronunciata il 14 giugno 1896, fu d'assoluzione; però il tribunale il deplorò "che la somma delle cose, in una lotta così disuguale ed in circostanze così difficili fosse affidata ad un generale che si dimostrò molto al di sotto delle esigenze della situazione".

La prima notizia di Adua giunse al Governo il 1° marzo con un telegramma da Massaua del generale LAMBERTI. CRISPI, durante la notte, si recò con il ministro MOCENNI a Napoli per comunicare al re la notizia che il 2 marzo si diffuse a Roma e il 3 in tutto il paese.

Era l'annuncio di un grave scacco militare più che di una sconfitta decisiva. Scacco -forse- facilmente riparabile se l'Italia di allora non fosse stata sotto il malefico dominio della demagogia ed avesse avuto un po' di dignità e di coraggio. Purtroppo però l'Italia diede lo spettacolo vergognoso di una nazione la quale, anziché accogliere la notizia della sconfitta con la calma dei forti ed esprimere energici propositi di rivincita, si lascia vincere dalla viltà e rinuncia alla tutela dei suoi interessi morali e materiali.
Le cronache di quei giorni sono varie e anche queste demagogiche, populiste, e ambigue; strumentalizzate palesemente da alcuni gruppi, ma in modo occulto anche da altri.

Scrissero i giornali e poi tanti libri di storia successivi- * Le dimostrazioni dell'opinione pubblica contro la guerra furono violenti. * Le proteste contro il Governo Crispi si trasformarono in esplosioni di collera.
* I moti erano spontanei e vi parteciparono, senza distinzioni di categorie sociali, buona parte della popolazione. * In quasi tutte le città si organizzarono comizi e raduni. * Dimostrazioni studentesche. * Proteste di operai. * Moti popolari, rotaie divelte alla stazione ferroviaria di Pavia per impedire la partenza di altri soldati; * Ma anche proteste di "vecchi borghesi" che si richiamavano al perduto onore militare.

Ma tutte queste proteste contro la politica di Crispi, contro la politica della triplice, contro la politica colonialista africana, era già in pieno sviluppo prima della sconfitta del 1° marzo ad Adua.
L'insuccesso militare veniva in realtà al seguito dalla crisi del suo disegno politico complessivo e all'erosione delle maggioranze che lo sostenevano, che era la borghesia, ma non quella vera nuova borghesia che da qualche tempo stava nascendo.
All'inizio degli anni '90, la crisi economica era finita, e quella borghesia legata all'industria nell'emergente triangolo industriale del Nord Italia, si stava avviando verso una decisiva fase di sviluppo, ed era quindi insofferente agli alti costi economici e sociali delle avventure coloniali.

Potrebbe sembrare paradossale ma questa nuova borghesia, era insofferente anche a quella politica ultimamente adottata dal Crispi che si proponeva -con la drastica politica dell'ordine pubblico- di stroncare il movimento di classe, e che invece di raggiungere il suo obiettivo, Crispi con tutta la sua politica illiberale e reazionaria- contribuì semmai a dare un'impennata alla sua diffusione, anche se questa diffusione non fu esente da contraddizioni. Non dimentichiamo che il primo partito di massa - e che Crispi aveva tentato di sciogliere- avvenne per iniziativa prevalente di intellettuali, e prima di tutti quel TURATI, che non credeva di poter incarnare e "realizzare il programma di rinnovamento sociale con l'elemento operaio e contadinesco che si desta appena e stira le braccia...., mi vo sempre persuadendo (ed anche il "Fascio Operaio" di Milano me lo ribadisce in testa) che la nostra fisima di mandare avanti gli operai, a parlare, a scrivere ecc., è per ora, in Italia almeno, una fisima sciocca…Prima convien proprio che i più colti, gli elementi men borghesi della borghesia, combattano per il povero operaio minorenne". (Lettera di Turati a Ghisleri - in La Scapigliatura democratica pp.98-99).

Né possiamo dimenticare che il socialista ANDREA COSTA, rivolse poi a Rudinì, una petizione per la "fine dell'Impresa Africa" firmata da circa 100.000 cittadini "Milanesi"; che non erano di certo 100.000 "poveri operai minorenni" .

Di fronte alle proteste, alle dimostrazioni di piazza, ai moti; di fronte a tale contegno più o meno spontaneo del paese, a CRISPI non rimaneva altro che dare le dimissioni.

Il 5 marzo, alle 2 pomeridiane, mentre il popolo tumultuava in piazza, si aprì la Camera. Riportiamo di quella breve seduta la descrizione che sobriamente ne fece ENRICO CORRADINI:

"Apparve finalmente il vecchio miserando che aveva amato la patria e dato mezzo secolo d'esistenza a farla grande. Tutta la pietà della miseria umana era nella sua persona piccola ed esile, già segnata dalla morte. Quando fu al suo banco fra gli altri ministri, girò appena gli occhi ancora attoniti dentro le occhiaie già vuotate dagli anni. Ma per la dignità della sua anima quegli occhi erano ora velati di una tristezza più schiva. Ferma era la parola in cui il vecchio quasi ottantenne, carico d'opere e degli errori della sua misera umanità e dell'ultima sconfitta, doveva morire.
Disse: "Ho l'onore di annunciare alla Camera che il Ministero ha presentato a Sua Maestà le proprie dimissioni".
"Tacque. Poi riprese più forte"
"Sua maestà il Re le ha accettate".
"Scrosciarono gli applausi dagli scranni e dalle tribune. Molte voci gridarono: Viva il Re ! Ma l'Estrema Sinistra inveiva contro quella reliquia d'uomo. Allora questi si voltò verso di essa e, quando fu fatto silenzio, aggiunse: "I ministeri restano al loro posto fino alla nomina dei successori per mantenere l'ordine pubblico".
"Allora fu ricoperto d'improperi e fu chiamato "Vile"

"E così - scrive Gualtiero Castellini - Francesco Crispi, fu ucciso in una giornata ignominiosa di marzo, sotto gli applausi di quattrocento deputati del disordine e dell'ordine che bestemmiavano il nome del Re, applaudendolo poiché accettava - nelle dimissioni del Crispi - la sconfitta della patria. E nessuno, tranne il grande vecchio, pianse sulla sconfitta d'Africa. Tutti gioirono della sconfitta dell'Italia. L'Estrema si abbandonava sul finire della seduta a sconci dialoghi con le tribune della stampa; il popolo gridava in piazza - Viva Milano ! poiché Milano era stata l'antagonista della guerra ....".

I moti popolari contribuirono non poco a suscitare il timore che la crisi politica coinvolgesse le istituzioni dello Stato. "Sacrificare l'uomo per salvare il regime" secondo l'efficace espressione di uno storico, fu la scelta che costò la carica a Crispi, ancora prima del dibattito parlamentare.

Andrea Costa, pochi mesi prima, lanciandosi nella polemica aperta dalla "Critica sociale" sulla "questione morale", aveva precisato che "per i socialisti la battaglia non era contro la persona di Crispi, ma contro la classe che questo personaggio rappresentava.
Non è per niente il rappresentante della borghesia, bensì di quella razza di avventurieri e ciurmatori rifatti, i quali senza professione economica né voglia né potere di abbracciarne una pur che sia, per sbarcare il lunario, si appigliano alla vita politica a un tratto dischiusa alla loro vanità e cupidigie, invasero le amministrazioni, presero a trescar colle banche, ed ebbero per programma minimo e massimo di vendersi al miglior offerente; è il rappresentante, cioè, non di una classe vera e propria, bensì di una schiuma sociale uscita dai disordini e dalle incompiutezze del giovane Stato unitario. Ne consegue che la "borghesia, la vera borghesia, quella la cui presenza e il cui sviluppo generano il socialismo e con la quale il socialismo direttamente combatte…non ha nulla o ben poco da vedere con le ribalderie e le briganterie dei cafoni e dei guappi, che hanno fatto del Crispi il loro "picciotto di sgarro", e che, impostisi con ogni frode più lercia a una vasta parte del paese, ove gli analfabeti sono l'80 per cento e gli elettori il 3 per cento dei vivi, s'impongono di rimbalzo, colla forza bruta del numero, all'Italia civile e vi menano ogni disastro".
Questo significa che, per accelerare i tempi del processo di sviluppo sociale ed economico, per favorire l'avvento di un governo politico effettivamente liberale (in questa fase necessariamente democratico), era necessario sia da parte socialista sia da parte della nuova borghesia… intendersi.

Un ex socialista, che s'intenderà con la nuova borghesia, (non dimentichiamolo) sarà poi Mussolini.
Anche allora, molti (spinsero e) gioirono all'inizio dell'"avventura", e molti (in molti casi gli stessi) (dal 1940 al 1943, spinsero e) "gioirono alla sconfitta dell'Italia".

Ma ritorniamo all'"avventura" di questi anni,
alla sconfitta di Crispi e… alla sconfitta di Adua….

    …periodo dal 1896 al 1897 > > >

 
 
 

Storia. Anni 1895-1896. Parte Seconda.

Post n°59 pubblicato il 18 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1895-1896. Parte Seconda.

L'ORDINE DI OPERAZIONE DEL 29 FEBBRAIO
LA MARCIA DI AVVICINAMENTO LA BATTAGTIA DI ADUA.
COMBATTIMENTI DI ENDA CHIDANE MERET, DI MONTE' RAIOREBBI ARIENNI, E DI MARIAU SCIAVITÙ

La decisione, presa nella notte tra il 28 e il 29 febbraio 1896, fu quella di avanzare, non per attaccare in campo aperto il nemico, il che, data l'enorme superiorità numerica dell'esercito etiopico, avrebbe portato gli Italiani ad un sicuro insuccesso, ma per occupare una forte posizione a contatto con il nemico, costituita dai monti Semaiata-Raiò-Esciasciò.
BARATIERI prevedeva tre casi in conseguenza di questo balzo in avanti, com'egli stesso scrisse nelle sue "Memorie d'Africa":

"O il nemico attaccava; ed io credevo di avere tutte le probabilità di respingerlo con i fianchi appoggiati, con una triplice via di ritirata, con l'azione abbastanza libera sul davanti; o il nemico non attaccava; ed io - senza avere perso del tempo - nella notte successiva avrei ripiegato alle alture di Sauria con il vantaggio di avere osato un'altra volta una manovra offensiva e di avere sfidato l'imponente numero degli Scioani; o il nemico porgeva il destro di attaccare il campo nella conca di Mariam Sciavitù (15.000 uomini); e quel successo parziale ci avrebbe giovato non poco perché era nella coscienza mia e di tutti che un successo parziale avrebbe probabilmente determinato il disgregamento delle forze nemiche".

Nel pomeriggio del 29 febbraio il generale BARATIERI chiamò a rapporto i comandanti di brigata ed emanò il seguente ordine del giorno:

"Stasera il corpo d'operazione muove dalla posizione di Sauria in direzione di Adua formato nelle colonne sotto indicate:
* Colonna di destra (generale Dabormida): 2a brigata fanteria - battaglione di Milizia Mobile - comando 2a brigata di batteria con le batterie 5a, 6a e 7a.
* Colonna del centro (generale Arimondi): 1a brigata fanteria - 1a compagnia del 5° battaglione indigeni - batterie 8a e 11a.
* Colonna di sinistra (generale Albertone): quattro battaglioni indigeni - comando della 1a brigata di batteria e batterie 1a 2a, 3a e 4a.
* Riserva (generale Ellena): 3a brigata fanteria - 3° battaglione indigeni 2 batterie a tiro rapido e compagnia genio.
* Le colonne Dabormida, Arimondi ed Albertone alle ore 21 muoveranno dai rispettivi accampamenti; la riserva muoverà un'ora dopo la coda della colonna centrale.
* La colonna di destra segue la strada: colle Zalà, colle Guldam, colle Rebbi Arienni; la colonna centrale e la riserva la strada Addi Dicchi, Gandaptà, colle Rebbi Arienni; la colonna di sinistra la strada Saurià, Addi Cheràs, colle Chidanè Meret; il quartier generale marcia in testa alla riserva.

* Primo obiettivo: la posizione formata dai colli Mai Meret e Rebbi Ariennii, tra monte Semaiatà e monte Esciasció, la cui occupazione sarà fatta dalla colonna Albertone a sinistra, dalla colonna Arimondi al centro e dalla colonna Dabormida a destra. La colonna Arimondi però, ove siano sufficienti le colonne Albertone e Dabormida, prenderà posizione di attesa dietro le due brigate predette.
* Avvertenza: Ogni militare di truppa italiana porterà seco la propria dotazione di cartucce (112), due giornate viveri di riserva, la mantellina, borraccia e tascapane. Per ogni battaglione italiano marceranno al seguito delle truppe, riunite in coda alle singole colonne, due quadrupedi da soma con materiali sanitari e otto con le munizioni di riserva. Tutti i rimanenti quadrupedi da salmerie, con un soldato ogni cinque quadrupedi oltre ai conducenti, in quadrato per battaglione e batteria, un ufficiale subalterno per reggimento fanteria, un capitano per tutte le salmerie (fornito dalla 2a brigata di fanteria) si raccoglieranno, uno ad Entisciò con la razione viveri prelevata oggi per domani, le trenta cartucce per ogni soldato prelevate oggi dal parco, le tende, le coperte e gli altri materiali non trasportati dai corpi. Tanto le suddette salmerie quanto le sezioni sussistenze, i vari servizi di tappa e il parco di artiglieria resteranno fermi ad Entisciò pronti a muovere quando riceveranno l'ordine da questo comando, sotto la protezione di un. presidio del 7° reggimento fanteria che giungerà stasera da Mai Gabetà. Le brigate di artiglieria e i battaglioni indigeni si regoleranno per le loro salmerie in modo analogo a quanto è detto per i battaglioni italiani. Nessuno altrepassi le punte ed i fiancheggiatori delle colonne. Tutte le persone fermate dai drappelli di sicurezza siano inviate al più presto al comando. Il Direttore dei servizi del Genio provvederà a stendere la linea telegrafica al seguito del Quartiere generale e appena possibile, questo sia pure messo in comunicazione colle colonne laterali ed antistanti mediante telegrafia ottica. I comandanti delle varie colonne mandino frequenti avvisi al Quartiere generale ed alle colonne vicine".(Baratieri, ib.)

A quest'ordine del giorno fu unito uno schizzo delle località da occupare.

Tra le ore 21 e 21 e mezza del 29 febbraio le brigate Dabormida, Arimondi
Albertone partirono dal campo di Sauria; la brigata Ellena si mosse alle ore 23. La brigata Albertone, forte di 4067 uomini e 14 pezzi; essendo composta di soldati indigeni, marciò più rapidamente delle altre e alle ore 3.30 giunse tra il Raiò e il Semaiata, su un colle che lo schizzo del comando indicava col nome di Chidane Meret. Qui si fermò per circa un'ora; poi, avendo il generale Albertone, appreso dalle guide che il vero colle di Chidane Meret non era quello su cui si trovava, ma sorgeva sei o sette chilometri più avanti, verso Abba Garima, riprese la marcia e verso le ore 5.30 giunse al colle di Enda Chidane Meret, che invece non era quello indicato dall'ordine d'operazione.
All'avanguardia della colonna Albertone era il 1° battaglione Turitto, il quale, avvistati gli avamposti abissini, li assalì con imprudente temerarietà, provocando una terribile reazione nemica. Allora il generale Albertone, poiché mancava il collegamento con le altre brigate e le forze etiopiche erano enormemente superiori di numero, schierò le sue truppe sui contrafforti occidentali del Monte Semaiata col VI battaglione a destra, il VII e le bande Sapelli a sinistra e l'VIII al centro, e cercò di disimpegnare il 1° battaglione, come risulta da un suo biglietto a Baratieri, scritto alle ore 8.15.(Baratieri, ib.)

Poco dopo però il Turitto, sopraffatto dagli Abissini, che numerosi provenivano da Abba Garima, da monte Gesosso e dalla sella di Enda Chidane Meret, volse in ritirata. Allora - è raccontato nella Relazione ufficiale;

"…tutti i quattordici pezzi di artiglieria aprirono il fuoco con un tiro molto efficace, cui in breve si aggiunse quello dei battaglioni più vicini al nemico: per quattro volte tentò di scendere per l'insellatura di Enda Chidane Meret ed altrettante volte fu costretta ritirarsi".

"Sì continuò a combattere con accanimento per circa due ore; ma non poteva la brigata Indigeni tener testa per altro tempo ancora al numero dei nemici, i quali, con una colonna scesa per le pendici meridionali dell'Abba Garima, riuscirono ad aggirarli. Verso le ore undici le sorti della battaglia erano decise: preso prigioniero il generale Albertone, morti o feriti o caduti in mano del nemico la maggior parte degli ufficiali italiani, rimasta senza munizione l'artiglieria, i resti della brigata si ritirarono senza ordine e per vie diverse in direzione di Sauria. (R.Uff)

"La brigata Dabormida, forte di 3800 soldati e 18 pezzi, giunse alle ore 5.15 sul colle di Rebbi Arienni e si fermò. Tre quarti d'ora dopo, in una zona a un chilometro e mezzo circa, giunse la brigata Arimondi, che contava 2493 fucili e 12 cannoni, e verso le ore 7 a due chilometri dietro, si fermò la brigata Ellena, forte di 4150 soldati e 12 pezzi.

"Il generale Baratieri, giunto alle 6.30 sul colle di Rebbi Arienni, si accorse, dal vivo fuoco di fucileria, che la brigata Indigeni era impegnata ed ordinò alla brigata Dabormida di spostarsi verso quella parte e di sostenere la brigata Albertone. Al generale Arimondi ordinò di avanzare al posto della brigata Dabormida mentre al generale Ellena ordinò di serrare con la riserva sotto Rebbi Arienni.
La brigata Dabormida finì di sgombrare il colle di Rebbi Arienni poco dopo le ore otto, alla quale ora la brigata Arimondi, ammassata al colle suddetto, ebbe ordine di occupare monte Belah. In quell'ora medesima BARATIERI ordinò alla brigata Ellena di avanzare sul colle di Rebbi Arienni; alle ore 9 si trasferì con il Quartiere generale da Esciasciò sul monte Raiò; alle ore 9.30 inviò ordine al generale Albertone di ritirarsi sotto la posizione della brigata Arimondi.

"L'artiglieria di questa brigata ben presto aprì il fuoco contro orde nemiche che, aggirata la sinistra dell'Albertone, scendevano dalle pendici del Semaiatà incalzando gli ascari italiani che si ritiravano. Verso le ore 11, le due colonne etiopiche, che avevano disfatto la brigata Albertone, si lanciarono contro la brigata Arimondi: quella di sinistra contro il monte Belah, quella di destra dal Semaiatà contro la fronte Raiò-Chidane Meret e verso la conca di Gandaptá, alle spalle dell'Italiani.
Mentre la brigata Arimondi teneva testa al nemico, un'altra colonna abissina, incuneatasi tra l'Arimondi e la Dabormida, giungeva allo sperone nord-ovest di monte Belah che "fu occupato per sorpresa degli Abissini, - narra il Baratieri - e così repentinamente che neppure i reparti inviati dalla brigata di Riserva riuscirono a giungere a tempo - e neppure me ne fu dato avviso - come non mi fu mandato avviso che una parte della Riserva era successivamente impegnata dal doppio avvolgimento scioano. Invano il colonnello Stevani da monte Belah inviò allo sperone Belah due compagnie di bersaglieri. Vi poterono giungere soltanto una quarantina dei più svelti e audaci, i quali vi lasciarono in gran parte la vita con il tenente-colonnello COMPIANÒ e il capitano FABBRONI".

"Proprio allora il 3° battaglione Indigeni, schierato sull'estrema sinistra della posizione di monte Raiò, preso da inesplicabile panico, rompeva gli ordini e si disperdeva verso Rebbi Arienni; ma l'eroico ten. colonnello GALLIANO, che lo comandava, rimaneva con un manipolo di prodi a fronteggiare le orde nemiche e spariva dopo poco nel turbine della lotta.

"Rimasto scoperto il fianco sinistro dello schieramento italiano di monte Raiò, gli Abissini riuscirono facilmente ad aggirare da quel lato la posizione e riuscirono a tagliare la via di ritirata sopra Sauria alle brigate Arimondi ed Ellena. Queste inoltre furono separate dalla colonna scioana che, occupato lo sperone di Belah, aveva continuato ad avanzare parte verso il colle di Rebbi Arienni e parte verso i monti Belah e Raiò. Divise, circondate da ogni parte, scompigliate dai reparti che si ritiravano, nell'impossibilità di organizzare qualsiasi difesa, nonostante la valorosa resistenza di pochi manipoli, morto il generale Arimondi e cadute in potere del nemico le artiglierie, queste due brigate verso le 12.30 erano nel completo sfacelo e si ritiravano in disordine verso Adigrat, Adi Ugrì ed Adi Caiè" (R.Uff)

Ma un nucleo di prodi, raccoltosi sulla vetta del monte Raiò, resisteva tutta la notte del 2 marzo alle orde scioane. Queste soltanto il mattino del 3 riuscirono a raggiungere la cima, ma non vi trovarono un anima viva, soltanto un mucchio di cadaveri, erano morti tutti.

La brigata Dabormida, appena ricevette l'ordine di appoggiare la brigata Alberatone, anziché seguire il battaglione indigeno di Milizia mobile, comandato dal maggiore DE VITO, che faceva da avanguardia, e puntava sul monte Derer trascurando il collegamento lasciandosi ingannare dal terreno s'incanalò nel vallone di Mariam Sciavitù e così, allontanatisi dalla brigata Indigeni, andò a cozzare contro il campo di ras Makonnen, mentre il battaglione della Milizia mobile, rimasto isolato, "veniva furiosamente ed a brevissima distanza, attaccato all'improvviso di fronte e sul fianco destro da numerosi nemici" e, dopo mezz'ora di fuoco, fu sopraffatto.

"La brigata Dabormida - narra il Baratieri - combattendo sul davanti, era avanzata fino allo sbocco della conca di Mariam Sciavitù. Qui per ben sei volte i battaglioni furono condotti all'assalto dal colonnello Airaghi, presente il generale Dabormida, con slancio e vigore tali che il nemico fece sosta; ma poi ebbe i rinforzi, onde dopo un settimo assalto i nostri dovettero iniziare la ritirata, la quale si svolse sotto la protezione delle tre batterie".

La Relazione ufficiale sulla battaglia di Adua così narra la ritirata dei resti della brigata Dabormida:

"Fino al cadere della notte la ritirata proseguì attraverso i monti Esciasciò con sufficiente ordine, nonostante il tempestare di numerose turbe di nemici. Fatto buio, in mezzo a quel terreno quanto mai difficile, le minacce della cavalleria inseguente fecero sì che gli ordini si ruppero quasi totalmente né fu più possibile riannodarli. I superstiti, guidati dal colonnello RAGNI (essendo caduti valorosamente nelle prime ore della ritirata il generale Dabormida e il colonnello Airaghi) per i monti Esciasciò proseguirono verso il colle di Zalà, dove durante la notte incontratisi con una banda di etiopi, si divisero in due colonne, delle quali una con il colonnello Ragni proseguì per Entisciò verso Mai Maret ed Adi Caiè, l'altra con il capitano PAVESI della 1a Compagnia Indigeni, per Belesa, si diresse verso Adi Ugri".

"Poco dopo il mezzogiorno, vedendo ormai persa la battaglia, dal monte Raiò BARATIERI decise di recarsi a Rebbi Arienni per organizzarvi la ritirata sopra Gundapta e Sauria; ma subito si accorse che non c'era più nulla da fare contro il nemico che premeva da tutte le parti l'orda disordinata dei vinti che si allontanava dal campo della lotta, che era stato testimonio di sfortunati eroismi. Tentò, tra le ore 14 e le 15, sopra un'altura tra Jeha e Kokma, insieme con i colonnelli BRUSATI e STEVANI, col ten. Colonnello MENINI, pochi altri ufficiali e un gruppo di alpini, bersaglieri e fanti, di fare resistenza, roteando la sciabola e gridando "Viva l'Italia", poi continuò a ritirarsi verso Adi Caiè, dove giunse il 3 mattina.

"Il nemico inseguì per pochi chilometri e soltanto fra il 3 e il 4 ras Mangascià avanzò fino a Sauria e il degiacc Area fino al Mareb; ma i fuggiaschi furono molestati dalle popolazioni insorte e dalle bande dei ribelli. Ordinatamente invece il maggiore Ameglio con il suo battaglione e con le bande del Seraè marciò da Sauria verso Adi Ugri raccogliendo al suo passaggio i superstiti di Adua.
Il colonnello DI BOCCARD, che si trovava a Mai Maret con un reggimento di Fanteria, i rimase fino alle 12 del giorno 2, poi si ritirò su Adi Caiè, dopo avere ordinato al maggiore PRESTINARI che con il suo battaglione cacciatori presidiava il forte di Adigrat di sgombrare e ripiegare. Ma il Prestinari, non volendo abbandonare i numerosi feriti ricoverati nel forte, si rifiutò di lasciarlo e si preparò a resistere al nemico.

"La battaglia, che va sotto il nome di Adua ma che fu l'insieme di tre combattimenti indipendenti l'uno dall'altro, costò dolorose perdite all'esercito italiano. Dei 10.400 Italiani che presero parte alla tre battaglie, 3100 restarono morti sul campo, 3700 scamparono, dei quali 450 feriti. Gli ufficiali caduti furono 254 oltre i generali Arimondi e Dabormida.
"Gli ascari ebbero un migliaio di uomini fuori combattimento. I prigionieri, bianchi e indigeni furono 1700.
"Ma di gran lunga più gravi furono le perdite degli Abissini che ebbero circa 7000 morti e 10.000 feriti.(R.Uff)

 
 
 

Storia. Anni 1895-1896. Parte Prima.

Post n°58 pubblicato il 18 Agosto 2008 da wrnzla

Fonte Testi: Cronologia.Leonardo.it

Storia. Anni 1895-1896. Parte Prima.
GUERRA AFRICA - RINFORZI - BATTAGLIA ADUA - CRISPI CONTENSTATO

CONCENTRAMENTO ITALIANO AD ADIGRAT ASSEDIO DI MAKALLÈ - AIUTI DELLA FRANCIA A MENELICK - RINFORZI ITALIANI IN ERITREA - MOVIMENTI DELLE TRUPPE ITALIANE ED ETIOPICHE - DEFEZIONE DI RAS SEBATH E DI AGOS TAFARÌ - COMBATTIMENTO DI SEETÀ E DI ALOQUÀ - DIMOSTRAZIONE DI ADÌ CHERAS - IL GENERALE BALDISSERA NOMINATO GOVERNATORE CIVILE E MILITARE DELL' ERITREA - COMBATTIMENTO DI MAI MARET - CONSIGLIO DI GUERRA DEL 27 FEBBRAIO 1896

CONCENTRAMENTO ITALIANO AD ADIGRAT
ASSEDIO DI MAKALLÈ


Il mattino dell'8 dicembre il generale ARIMONDI decise di ripiegare su Edagà Amus presso Adigrat, ma non avendo il tempo di sgomberare e distruggere il forte di Enda Jesus, a Makallè, vi lasciò a presidio il III battaglione Indigeni comandato dal maggiore GALLIANO e nel pomeriggio partì per Edagà Amus, dove giunse la sera del 10 dicembre.
Intanto il generale BARATIERI, appresa la tragica notizia del combattimento dell'Amba Alagi, ordinava lo sgombro di Adua, chiamava alle armi tutti gli uomini validi e si recava ad Adigrat e quindi ad Edagà Amus.
GALLIANO aveva sotto di sé, oltre che il III Indigeni, una compagnia dell'VIII battaglione, una batteria da montagna, due plotoni del genio, un distaccamento del treno e alcuni carabinieri, in complesso 20 ufficiali, 13 sottufficiali, 176 soldati italiani e 1150 ascari; con questi erano presidiati il villaggio e il forte di Enda Jesus e un piccolo ridotto, poco distante, su un'altura a nord-est. La costruzione del forte Enda Jesus non era ancora terminato, aveva viveri appena per tre mesi e grano-orzo per uno, mancava di foraggi e legna (siamo in pieno dicembre) ed era privo di acqua, che doveva essere attinta a due sorgenti fuori della fortezza.

Appena assunto il comando, il maggiore GALLIANO iniziò i lavori per completare le fortificazioni, sgomberare il campo di tiro e costruire difese accessorie e serbatoi, ordinò che fossero raccolti foraggi e legna ed entrò in trattative con ras MAKONNEN, mentre numerose orde abissine si andavano raccogliendo intorno a Makallè preparandosi ad un assedio ad oltranza e tagliando così le comunicazioni con Adigrat.
Il 20 dicembre ras Makonnen tentò un attacco che fu respinto; il 23 in una sortita ordinata da Galliano per fare provviste la centuria Giusti fu assalita dagli Scioani, che dovettero ritirarsi con gravi perdite; il 7 gennaio del 1896 giunse MENELIK con il grosso del suo esercito e sferrò un furioso attacco; la gran guardia del forte di Enda Jesus fu ritirata e il presidio del ridotto, dopo un'eroica resistenza e aver fatto saltare in aria l'opera fortificata, rientrò nel forte, che resistette valorosamente per tutto il giorno respingendo gli assalti nemici.
Le incursioni si ripeterono più furiose durante la notte e nei giorni 8 e 9. Il giorno 8 gli Abissini riuscirono ad occupare le sorgenti d'acqua, che nella notte del 10, dopo un'intera giornata di combattimenti, furono riconquistate, ma nuovamente abbandonate la mattina dell'11.
Quello stesso giorno un attacco generale del nemico fu coraggiosamente respinto e con tali perdite per il nemico che questi rimase il giorno successivo in stallo; poi il 13 e il 14 attaccò ancora, ma fu ancora impavidamente respinto dagli italiani.

Dopo questi inutili attacchi gli Abissini rinunziarono a prendere il forte con la forza e si limitarono ad azioni di artiglieria e a sorvegliare i pozzi, nella certezza che, prima o poi, avrebbero capitolato per sete. La situazione degli assediati, infatti, per la mancanza d'acqua era molto critica e BARATIERI, che la conosceva, era entrato in trattative, per mezzo del cav. FELTER, con il Negus Menelick.
I negoziati portarono ad un accordo per il quale a GALLIANO, che il 14 era stato promosso tenente colonnello per merito di guerra, era data facoltà di cedere il forte, ottenendo da Menelick di potere uscire con armi e bagagli e raggiungere Adigrat.
Il 18 gennaio MAKONNEN tentò un ultimo assalto, ma fu respinto; il 19 Galliano ebbe notizia dell'accordo, il 21, dopo un consiglio di guerra, i patti furono accettati e il 22 il presidio - che durante l'assedio aveva avuto una trentina di morti ed una settantina di feriti - uscì dal forte con armi e bagagli e con l'onore delle armi e andò ad accamparsi presso le truppe di ras Makonnen.

Nel frattempo il Governo italiano trattava con l'Inghilterra per ottenere la facoltà di sbarcare a Zeila un corpo di truppe, che, minacciando l'Harrar, influissero sulla condotta di ras Makonnen. L'Inghilterra concesse tale facoltà, ma alla condizione che le truppe non si fermassero a Zeila, per non dispiacere alla Francia, con la quale, nel febbraio del 1888, il Governo inglese aveva stipulato un accordo che stabiliva l'indipendenza (Sic!) dell'Harrar.
Inoltre lord Salisbury dichiarò che alla Francia dovevano esser date, possibilmente dallo stesso Governo italiano, comunicazioni soddisfacenti sul passaggio delle truppe.
Sia per quest'ultima singolare pretesa, sia per l'accordo anglo-francese che l'Italia ignorava, a Roma avrebbero dovuto riflettere a lungo.

AIUTI DELLA FRANCIA A MENELICK
RINFORZI ITALIANI IN ERITREA

Della facoltà di sbarcare a Zeila ovviamente non se ne fece nulla; né del resto era dignitoso per l'Italia (Crispina!) fare simili comunicazioni alla Francia, che, con Menelick, faceva di tutto per favorirlo, permettendo che armi e munizioni di sua fabbricazione giungessero per Obock e Gibuti in Abissinia, come molti documenti comprovano, fra cui una lettera del capitano Luigi Canovetti, scritta alla madre alcuni giorni prima del tragico combattimento dell'Amba Alagi: "I nostri nemici sono armati di fucili francesi e sono provvisti di cartucce della medesima origine: è penoso, è grave. La nazione francese ne risponderà davanti a Dio e agli uomini".

Mentre pendevano le trattative con l'Inghilterra, il Governo italiano, accortosi della gravità del pericolo che incombeva sulla colonia, sebbene BARATIERI avvertiva di non avere modo di assicurare il vettovagliamento, con un'incredibile superficialità, provvedeva a mandare rinforzi. Undici battaglioni di fanteria, due di bersaglieri, uno di alpini e cinque batterie da montagna oltre numerosi quadrupedi, sbarcarono a Massaua dal 25 dicembre al 27 gennaio; altri rinforzi, e cioè sette battaglioni di fanteria, uno di bersaglieri, una batteria da montagna, due batterie a tiro rapido, una di mortai someggiabili di 9 cm. e due compagnie treno, sbarcarono tra il 20 gennaio e il 12 febbraio e tre giorni dopo sbarcò a Massaua il colonnello PITTALUGA con un battaglione di fanteria, una batteria da montagna, una compagnia del genio, una di sussistenza ed un'ambulanza della Croce Rossa, che dovevano sbarcare ad Assab per raggiungere l'Aussa e difendere quel sultanato dall'invasione scioana.
Poi…altri rinforzi costituiti da nove battaglioni di fanteria, due di bersaglieri, due batterie da montagna, una compagnia del genio, tre ospedali da campo, un'ambulanza della Croce Rossa e una sezione di sanità, sbarcarono a Massaua tra il 26 febbraio e l' 8 marzo; cioè… quando la tragedia di Adua si era ormai già conclusa.

Con questi invii, ormai la tattica del governo italiano era improvvisamente cambiata; da difensiva era ormai sostanzialmente offensiva; ma era una tattica sciagurata, per il semplice motivo che avveniva in grave ritardo; quando ormai nel frattempo gli Etiopi non solo avevano allestito un esercito di centomila uomini, ma erano pure discretamente armati dalla Francia; ed avevano ad Addis Abeba, osservatori russi che indubbiamente non erano lì a mangiare banane come turisti.
Infine finora l'azione italiana era stata sciagurata, perché non esisteva un piano di guerra prestabilito.

MOVIMENTI DELLE TRUPPE ETIOPICHE
DEFEZIONE DI RAS SEBATH E DI AGOS TAFARÌ
COMBATTIMENTI DI SEETA ED ALEQUA

Il 7 gennaio 1896, l'esercito abissino al comando di MENELICK attacca il forte di Macallè, che difeso dal maggiore GALLIANO, lui e i suoi uomini sono catturati.
Poi il 24 gennaio l'esercito etiopico, forte di oltre 100.000 uomini, quasi tutti armati di fucili, mosse da Dolo, preceduto dall'avanguardia con la quale marciavano in testa gli uomini di Galliano, e giunta questa avanguardia ad Aibà, il 30 gennaio, gli italiani furono spinti sulle linee italiane, eccettuati il comandante, otto ufficiali e un sottoufficiale, trattenuti come ostaggi e restituiti dopo quattro giorni, durante i quali MENELICK li usò come trofei e sfilò con l'esercito per Hausien, dirigendosi poi verso Entisciò.

La mossa del Negus minacciava l'aggiramento di Edagà Amus e l'invasione della Colonia per la frontiera indifesa del Mareb o del Belesa. Per coprire la Colonia dall'invasione, il governatore ordinò "un cambiamento del fronte da sud verso ovest, dal fronte verso Makallè al fronte verso Adua con Adigrat punto d'appoggio per la manovra".

Il movimento, iniziato il 1° febbraio, fu compiuto il 3; quel giorno le truppe italiane si schierarono fra Mai Gabetà ed Entisciò. In seguito ad una ricognizione offensiva eseguita il 5 con un battaglione Alpini, uno Indigeni e parte delle bande, il 7 gennaio tutto il corpo d'occupazione occupò le alture di Tucuz, schierandosi con la brigata Indigeni del generale ALBERTONE (6 battaglioni indigeni, 2 batterie da montagna, 2 batterie a tiro rapido e le bande del capitano BARBANTI) a sinistra, la Brigata Dabormida (6 battaglioni bianchi, 1 indigeno e il battaglione di M. M.) a destra, la Brigata Arimondi (6 battaglioni bianchi e 6 batterie da montagna) al centro, la Riserva (6 battaglioni bianchi) a Tucuz; l'avanguardia a Tzalà, da dove il giorno prima gli Abissini si erano ritirati verso la conca di Gandaptà.

Il giorno stesso in cui avveniva lo spostamento delle truppe italiane, dietro richiesta di MENELICK, avveniva un abboccamento tra il maggiore SALSA, sottocapo di Stato Maggiore, inviato dal Baratieri, e ras MAKONNEN, plenipotenziario del Negus. Questi proponeva la pace alle seguenti condizioni: ritorno degli Italiani ai confini stabiliti con il trattato di Uccialli e stipulazione di un nuovo trattato; ma il governatore, "in base alle istruzioni ricevute da Roma", chiedeva la riconferma dell'articolo 17 del trattato di Uccialli, il riconoscimento dei territori occupati fino alla linea Adua-Adigrat e l'occupazione temporanea di Makallè e l'Amba Alagi.
A Roma probabilmente non erano a conoscenza che MENELICK, aspettava la risposta con 100.000 uomini armati ai suoi ordini, pronti ad un suo cenno a muoversi ; ed essendosi ovviamente MENELICK rifiutato alle condizioni poste da Roma, le trattative furono interrotte il 12 febbraio.

Subito, il giorno dopo, il 13 febbraio, l'esercito abissino avanzò schierato a battaglia verso le linee italiane, ma poi subito retrocedette sulle posizioni di partenza, poi dirigendosi verso Adua.
Quella stessa notte ebbe luogo la defezione (nelle file italiane) di ras SEBATH e il degiacc AGOS TAFARL con le loro bande, che poi si gettarono tra il corpo operante e il forte di Adigrat.

Allo scopo di assicurare le comunicazioni tra il forte e le truppe, dietro ordine di BARATIERI, il colonnello FERRARI, comandante la piazza di Adigrat, mandò il capitano MOCCAGATTA con 200 italiani e 150 indigeni ed Atebei sul Mai Mergas e un distaccamento indigeno sul colle di Seetà. Moccagatta, nella notte dal 13 al 14, fu attaccato dai ribelli e costretto a ritirarsi; sorte peggiore ebbero il giorno dopo il tenente CISTERNI e il tenente DE CONCILIIS, mandati successivamente, l'uno con 70 (!) italiani, l'altro con 35 (!), a rioccupare la posizione. L'insignificante gruppo ovviamente fu accerchiato da orde impressionanti e quasi interamente fatto a pezzi..

Il giorno 15 il capitano MOCCAGATTA, appresa la notizia che dal colle di Seetà i ribelli muovevano verso il colle di Alequà, dov'era un presidio italiano composto da indigeni, a rinforzarlo inviò il tenente CIMINO con 100 ascari e, durante la notte, come scorta di un convoglio, il tenente NEGRETTI con 70 soldati italiani. All'alba del 16 i ribelli attaccarono il colle di Alequà, s'impadronirono facilmente del convoglio e distrussero il drappello italiano.
I pochi superstiti ripararono ad Adigrat. II capitano Moccagatta, giunto sul posto a combattimento finito, fu a sua volta assalito, e dato il numero soverchiante dei ribelli dovette ritirarsi.

Avuta notizia di questi combattimenti, il generale BARATIERI mandò il maggiore VALLE con il VII Battaglione Indigeni a rioccupare Seetà, e il capitano ODDONE con due compagnie a disimpegnare Moccagatta con il quale riuscirono a scacciare il nemico da Alequà. Allora gli etiopi, pur aumentati di numero, si ritirarono a Debra Matzò facendo insorgere le popolazioni a tergo del corpo operante e per far fronte a questa nuova spiacevole situazione fu necessario mandare a Mai Maret il colonnello STEVANI con un battaglione di cacciatori, due di bersaglieri e una batteria e trasferire da Adi Ugri ad Adi Caiè il colonnello DI BOCEARD con tre battaglioni.

Nonostante queste misure più o meno valide, la ribellione popolare incitata dagli etiopi, rendeva ancor più grave la difficoltà dei mezzi logistici e il generale BARATIERI "decise di ripiegare con tutte le forze" ad Adi Caiè. Ma il 21 febbraio l'esercito abissino andò ad accamparsi nella conca di Adua, lasciando un corpo nel vallone di Mariam Sciavitù, fece occupare da un distaccamento il passo di Gasciorchè sulla via del Mareb e inviò una forte colonna in esplorazione verso Gundet.
A BARATIERI parve che il nemico con questa mossa (che invece mirava a distogliere gli Italiani dal ripiegamento) minacciasse la Colonia, priva di difese da quel lato.
Abbandonata, pertanto l'idea di ripiegare, BARATIERI stabilì di tagliare (ingenuamente o in buona fede) a MENELICK la via di Adi Qualà e Godefelassi e il 24 febbraio (ce lo racconta lui stesso) fece avanzare...

"...la massima parte del corpo di operazione, per una dimostrazione offensiva verso Gundapta al di qua e al di là dello sperone di Adi-Cras e sullo sperone stesso. La colonna di destra (brigata Dabormida) mosse dal colle di Zalà e per la conca di Guldam venne ad occidente del monte di Adi-Cras, presso il villaggio di Adi-Cras, dove si congiunse con la colonna di sinistra formata dalla brigata Indigeni; mentre la colonna centrale (generale Arimondi) presso il monte di Adi Cras costituiva la riserva. Le nostre truppe stettero in posizione fino a notte inoltrata; poi si ritirarono nei loro accampamenti avendo visto molto lontano stormi di nemici" (da "Memorie d'Africa" di Baratieri).

IL GEN. BARATIERI RADIATO - IL GEN. BALDISSERA
COMBATTIMENTO DI MAI MARET
CONSIGLIO DI GUERRA DI BARATIERI DEL 27 FEBBRAIO

Tre giorni prima, il 21 febbraio 1896, in un consiglio di ministri, si era stabilito d'inviare in Eritrea altri 5 battaglioni di fanteria, 4 di alpini, 2 di bersaglieri, 4 batterie e 1 compagnia del genio, agli ordini del generale HEUSCH e di sostituire il BARATIERI, che pareva non avesse un piano di guerra prestabilito. La scelta cadde sul generale ANTONIO BALDISSERA. Ma questa sostituzione doveva rimanere segreta e, infatti, il (fidato) generale LAMBERTI, vicegovernatore dell'Eritrea, aveva ricevuto ordine d'intercettare qualsiasi telegramma, che informasse BARATIERI della sua destituzione. Il 23 febbraio ANTONIO BALDISSERA, in incognito, si era imbarcato a Brindisi sopra un piroscafo inglese.

Intanto nella colonia, le operazioni di guerra continuavano. Il 25 febbraio, il colonnello STEVANI, alla testa di due battaglioni bersaglieri, di due compagnie del XVIII battaglione d'Africa, di due compagnie, del VII Indigeni e di una, batteria, muoveva da Mai Maret verso Debra Matzò e sorprendeva e disperdeva il campo di ras Sebath.
Quel giorno stesso BARATIERI dava notizia al Ministero della vittoria e comunicava etiche anche che le orde di ras Alula, ras Mangascià e ras Oliò si erano ritirate dal Mareb; ma da Roma CRISPI telegrafava:

" Codesta è una tisi militare, non una guerra; piccole scaramucce sulle quali ci troviamo sempre inferiori di numero davanti al nemico; sciupio di eroismo senza successo. Non ho consigli da dare perché non sono sul luogo; ma costato che la campagna è senza un preconcetto e vorrei fosse stabilito. Siamo pronti a qualunque sacrificio per salvare l'onore dell'esercito e il prestigio della Monarchia".

Aggravatesi le condizioni logistiche ed avendo anzi l'Intendenza dichiarato di non poter più assicurare il vettovagliamento, la sera del 27 il generale BARATIERI (sempre ignaro della sua destituzione) riunì sotto la sua tenda i generali di brigata ARIMONDI, DABORMIDA, ALBERTONE, ELLENA e il capo di Stato Maggiore colonnello VALENZANO e, dopo avere esposto "le condizioni inquietanti del vettovagliamento" e avere accennato "ad una possibile ritirata", disse: "Non vi chiamo ad un consiglio di guerra perché la responsabilità della decisine sarà sempre mia: vi chiamo ad aprirmi l'animo vostro, come nelle ordinarie occasioni di manovre; e vi chiamo a darmi le consuete informazioni circa le condizioni delle truppe".(Baratieri, ib.)

Senza che il governatore la lasciasse intendere, tutti e quattro i generali, ragionando con serena calma, espressero il loro parere per l'offensiva. BARATIERI chiuse la riunione con queste parole: "Il consiglio è animoso, il nemico è valoroso e disprezza la morte; com' è il morale dei nostri soldati?". "Eccellente !" risposero tutti i comandati di brigata. Allora il governatore li congedò, dicendo "Attendo ulteriori informazioni da informatori che devono arrivare dal campo nemico: dopo averle ricevute, prenderò una decisione".(Baratieri, ib.)

 
 
 
 
 

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   Agli Ascari d'Eritrea 

- Perchè viva il ricordo degli Ascari d'Eritrea caduti per l'Italia in terra d'Africa.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare alla bandiera al corpo Truppe Indigene d'Eritrea.
- Due Medaglie d'Oro al Valor Militare al gagliardetto dei IV Battaglione Eritreo Toselli.

 

 

Mohammed Ibrahim Farag

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

Unatù Endisciau 

Medaglia d'oro al Valor Militare alla Memoria.

 

QUESTA è LA MIA STORIA

.... Racconterà di un tempo.... forse per pochi anni, forse per pochi mesi o pochi giorni, fosse stato anche per pochi istanti in cui noi, italiani ed eritrei, fummo fratelli. .....perchè CORAGGIO, FEDELTA' e ONORE più dei legami di sangue affratellano.....
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A DETTA DEGLI ASCARI....

...Dunque tu vuoi essere ascari, o figlio, ed io ti dico che tutto, per l'ascari, è lo Zabet, l'ufficiale.
Lo zabet inglese sa il coraggio e la giustizia, non disturba le donne e ti tratta come un cavallo.
Lo zabet turco sa il coraggio, non sa la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un somaro.
Lo zabet egiziano non sa il coraggio e neppure la giustizia, disturba le donne e ti tratta come un capretto da macello.
Lo zabet italiano sa il coraggio e la giustizia, qualche volta disturba le donne e ti tratta come un uomo...."

(da Ascari K7 - Paolo Caccia Dominioni)

 
 
 
 

 
 
 
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