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Bob Dylan, "If You See Her, Say Hello"

Post n°35 pubblicato il 15 Marzo 2008 da fattodiniente

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Non c’è nessun dubbio che la letteratura provveda alla nostra educazione sentimentale – è di questo che si tratta dopotutto: casomai bisogna vedere cosa uno legge, e in cosa si ritrova. Io, ad esempio, dovrei citare due libri, che corrispondono anche ai due periodi fondamentali della mia vita. Dai venti ai quarant’anni, il mio faro è stato La coscienza di Zeno, e dai quaranta in poi, Alta fedeltà di Nick Hornby. Il che suppongo possa venir letto come una specie di regressione similinfantile o quel che è, ma non è affatto così. Semplicemente, Alta fedeltà è stato pubblicato in Italia nel ’98; e quanto al resto, trovo nei due romanzi più analogie stilistiche e nei personaggi di quante possano essere le differenze. Poi, è vero che in un libro, o in un personaggio, uno trova di sé quel che crede e che vuole trovare (e tanto peggio per chi inorridisce per l’accostamento: questa è la mia vita, e sarò libero di scegliere per essa la colonna sonora e i commenti fuori campo che credo, giusto?).
Ma a parte questo, c’è una serie di aspetti che trovo interessanti in questo discorso. Innanzitutto, il fatto che alla mia educazione sentimentale hanno provveduto anche svariati film, e una certa quantità di poesie, ma indiscutibilmente nessuna canzone (ergo anche nessun disco). Personalmente ritengo che chi scrive strazianti e stupende canzoni d’amore – che ovviamente sono nella loro quasi totalità canzoni sulle sofferenze d’amore – menta spudoratamente, oppure abbia un cuore di pietra. Beh, magari non sarà una regola universale, ma quando uno soffre per amore, non ha voglia di stare a sentire niente, figuriamoci trovare la voglia di cantarci su. Almeno, per me è così che funziona. Diciamo le cose come stanno: nelle pene d’amore, si sta di merda, altro che versi alati ed elegiache canzonette. Oppure bisogna essere dei gran paraculi come Pedro Salinas. Figuriamoci, io non riesco a risentire neanche a distanza di anni qualcosa che abbia ascoltato in periodi di crisi affettiva, perché mi riporta a persone e situazioni con cui non voglio aver più niente a che fare neanche dipinte.
Il che spiega a sufficienza perché trovi del tutto inadatta una canzone come strumento di educazione sentimentale. E specularmente, molte delle canzoni che adoro parleranno anche d’amore e della bellezza o della tristezza, a seconda dei casi, dell’essere innamorati; ma io so che da innamorati si sta da schifo, che non c’è niente di propriamente bello in questo, per cui lasciamo perdere.

E poi c’è il fatto di dover provvedere alla propria educazione sentimentale anche passata la boa dei quarant’anni. Va bene che non si finisce mai imparare, ma insomma ci vorranno anche poi del tempo e delle occasioni per mettere in pratica quanto appreso, e la cosa sembra avere la stessa utilità di un corso di educazione sessuale all’università della terza età. Comunque, se uno certe cose non le ha imparate quand’era il momento, forse è il caso che le lasci perdere, tanto è evidente che non le imparerà mai.

Che poi, la questione è propriamente di cosa consista questa benedetta educazione sentimentale. Un giusto modo di agire (recta ratio factibilium) in vista di uno scopo? Che tristezza. Il bello dell’esser innamorati è precisamente che uno è giustificato nel fare le più immonde vaccate, e nel dare il peggior spettacolo di sé. O forse, consiste nell’apprender l’arte del non piangersi poi addosso per questo; ma somiglia tremendamente ad una autoassoluzione, e in questo, ammettiamolo, siamo bravi tutti a prescindere. E in effetti, considerando che uno sceglie le proprie forme di educazione sentimentale in primis sulla base dell’identificazione tra il proprio sé – meglio: dell’immagine che egli ne ha, e la vicenda o il personaggio rappresentato, tutta la cosa suona come pericolosamente autocelebrativa. Il che, quantomeno, vale in toto per me. Lo ammetto, mi son sempre beato delle stranezze di Zeno Cosini e delle amene scempiaggini di Rob Fleming, e il tutto si è sempre risolto in una sinfonia di “eh come lo capisco”, “oh, è proprio così che mi sento”, “accidenti come mi descrive bene” e “proprio come ho fatto/farei io”. Il che non è granché come insegnamento, e dice a sufficienza il perché continui a comportarmi sempre allo stesso modo.
Per carità, qualcosa di me ho capito, ma se pure ho saputo trarre buoni propositi e interessanti indicazioni, ho regolarmente fallato al momento della messa in opera, il che può essere spiegato con l’assoluta inettitudine dei due personaggi (probabile), o mia (sicuro). Promosso con buoni voti in teoria, per la pratica si ripresenti prego.

Siccome però voglio essere positivo, ecco un elenco essenziale delle regole che ho appreso, e raramente saputo mettere in pratica:

1.   Niente amarezza, fa provinciale. E palloso. In pratica, il sistema più sicuro per non recuperare situazioni perdute. Molto utile quando si vuol chiudere per davvero.

2.   Niente acidità. L’acidità denota la scadenza del prodotto. Se si diventa acidi, vuol dire che si è la causa del problema. Resta da spiegare il piacere selvaggio che l’acidità dona. Rob Fleming, ad esempio, non sa spiegarla affatto, mentre Zeno non è mai acido neanche per sbaglio. Mi sono scelto due guide spirituali da poco, da questo punto di vista.

3.   Niente recriminazioni. Le fregature che prendi alla fine pareggiano quelle che dai. Tutta la gente piange le fregature che ha preso, e mi domando dove siano quelli che le danno. I Beatles cantarono questo concetto così “E alla fine, l’amore che prendi è uguale all’amore che dai”. Ma loro erano i Beatles, e io sono uno della Riviera.

4.   Niente è per sempre, e tutto passa. Poi, che arrivi qualcosa di peggio è pure un fatto, ma la vita è fatta così, per cui ciucciati quest’osso e non stare tanto a rompere le balle. In forma poetica, il concetto viene così espresso da Igor: “Se la sorte ti è contraria, e mancato ti è il successo, non far più castelli in aria, e va’ a piangere sul…”. Questa in effetti è una massima che non son riuscito a mettere in pratica MAI.

5.   Essere generosi alla fine di una storia, per quanto si può e per quanto è giusto. Riconoscere le ragioni dell’altro è anche riconoscere che egli ha rinunciato, almeno in parte, almeno per un po’, a qualcosa di suo per noi. Dopo questo atto di generosità, lo si può strozzare col cuore più leggero. Questo è il punto che mi riesce meglio, per intero e sistematicamente.

6.   Le storie chiuse, quando sono chiuse,  sono chiuse. Rimpiangerle, o peggio cercare di farle rivivere è più meno come mettersi i calzoni corti e credere di essere tornati in quinta elementare. Ma talvolta succede, solo che non saprei dire quando e perché, per cui è una regola del menga.

7.   L’esperienza non ti insegna niente; niente di essenziale, intendo dire. O detto altrimenti, il tempo che hai passato con qualcuno non te lo restituisce niente e nessuno, in nessun modo. O accetti ‘sto fatto, o è meglio lasciar perdere. Io non ho mai lasciato perdere.

Ah, la canzone. Blood on the Tracks è la cosa più simile ad una educazione sentimentale che conosca in campo musicale. Sulla sua sincerità, contrariamente a quanto ho affermato in precedenza, non si discute. Niente di alato, una semplicità onesta e scorticante, e alcuni passaggi francamente da brividi. Non l’ho mai ascoltato in momenti di crisi, mi mette già in difficoltà in condizioni normali. E… ok, lo ammetto, c’è da imparare, ad ascoltarlo

 
 
 
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