Creato da agpcamuni il 25/01/2008
Associazione Giovani Padani - Valle Camonica
 

Chi Siamo

Associazione Giovani Padani - Valle Camonica

L'associazione non ha finalità di lucro ed è finalizzata a promuovere la riscoperta e lo studio delle origini dei Popoli della Padania: a questa attività unisce quelle di ricerca sulle ragioni ecomoniche e politiche dell'Indipendentismo Padano e di riflessione sul significato delle lotte liberitarie di comunità e individui.

L'Associazione promuove inoltre tutte quelle iniziative volte a difendere il diritto allo studio, al lavoro ed alla casa nonché il recupero e la difesa degli usi, dei costumi e della cultura delle terre natie.

CONTATTACI:

La Sezione Camuna si trova a Capo di Ponte, in Via Italia n° 34

e-mail: mgp@giovanicamuni.com 
Fax: 02.700449839 oppure 0364.2631196 
Segreteria telefonica: 02.303124599

 

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Forum delle associazioni culturali camune 2008

Post n°15 pubblicato il 05 Maggio 2008 da theriddle
 

Venerdì 16 maggio, presso il Palazzo della Cultura in via Garibaldi a Breno, avrà luogo il Forum 2008 delle Associazioni e dei Gruppi culturali della Valle Camonica, promosso dall'assessorato alla cultura della Comuniutà Montana di Valle Camonica.

Il tema dell'edizione 2008 è legato ai progetti in atto per l'integrazione, la messa a sistema, e la distrettualizzazione del patrimonio culturale, con particolare riferimento alla Media Valle Camonica.

Il tema:
Proposte per il futuro della Media Valle Camonica
Per Hugues de Varine il patrimonio culturale della Media Valle Camonica è una «ricchezza incredibile».
La Cultura può essere una risorsa per il futuro? Quali sono le idee e i progetti per valorizzare il patrimonio?
Il Distretto Culturale può essere una prospettiva di integrazione delle forze in campo? Come partecipare alla costruzione di un progetto condiviso?

E' stata solleecitata la partecipazione attiva di tutte le associazioni e i gruppi culturali: chi volesse intervenire è pregato di restituire compilata la scheda di adesione con l'abstract dell'intervento. Reperibile sul sito  Valle Camonica Online
 

Naturalmente parteciperà anche la nostra associazione.

 
 
 

PADANIA-TIBET

Post n°14 pubblicato il 02 Maggio 2008 da theriddle
 

CALCIO – Il 7 maggio all’Arena di Milano la partita Tibet/Padania
 
CLAUDIO GALLO

Ecco finalmente il grande ritorno della rappresentativa padana di calcio, ad otto anni di distanza dall’ultima apparizione, quella della sfida allo stadio di Monza contro la selezione England All Stars. Un grande ritorno, perché avverrà per mezzo di una partita destinata ad entrare negli annali, indipendentemente dal risultato finale, per tutti i significati che un incontro del genere può avere: Padania – Tibet, le squadre di due popoli in cerca della propria libertà.
Nata sotto l’egida della N.F. Board, l’ormai famosa federazione internazionale calcistica che segue le rappresentative “non FIFA” ed alla cui Coppa del Mondo, la Viva World Cup, parteciperà quest’anno anche la formazione biancoverde (Gaellivare, Lapponia, 7-13 luglio 2008), la sfida Padania – Tibet è potuta diventare realtà grazie al precipuo interessamento di SportPadania – che ha rincorso i rappresentanti della squadra asiatica dall’India all’Olanda per approdare poi ancora in Lombardia – supportata dalla Le.F.Ca.P. (Lega Federale Calcio Padania) e dalla a.s.d. Padania Calcio, nonché da parte della SFT Italia (Students for Free Tibet) che ha avuto in Mr. Gelek un sicuro ed affidabile riferimento.
La rappresentativa padana sarà selezionata e seguita in panchina, come tradizione, da Leo Siegel, il quale riprende il comando tattico della nostra formazione dopo gli otto anni di Padania – England All Stars con immutate motivazioni e voglia di vincere. Sarà probabilmente della partita anche l’ultimo capitano dei biancoverdi, Giampietro Piovani, che tuttora milita nel Rodengo Saiano, formazione bresciana di C2, a cui si affiancheranno elementi di sicuro valore anche provenienti dalla Serie B e da altre serie professionistiche e semiprofessionistiche. Un nome che viene dato per certo, ad esempio, è quello del centrocampista della Triestina Allegretti. Siegel sarà coadiuvato nella guida tecnica della nostra formazione dal vice Lazzarini.
Nulla ancora trapela sui giocatori del Tibet, sicuramente tutti provenienti dai loro esili in Europa, in particolare da Francia, Germania, Svizzera ed Italia. Ma, ripetiamo, al di là del risultato tecnico della partita, sarà fondamentale il clima di grande amicizia e di solidarietà che caratterizzerà l’incontro, con gli spettatori invitati a sventolare contemporaneamente i vessilli della Padania e del Tibet. L’ingresso sarà libero a partire dalle ore 19.00. Alle entrate per il pubblico sarà possibile contribuire, con offerta libera, ad importanti progetti a fine di beneficenza, acquistando le bandiere delle due rappresentative. Maglia rigorosamente a strisce orizzontali biancoverdi per la Padania (sul facsimile di quelle del Celtic Glasgow) e maglia rossoblu a strisce verticali per il Tibet. Presenti in tribuna d’onore le massime autorità della N.F. Board, delle due selezioni e tantissimi illustri ospiti politici e sportivi rappresentativi delle due nazionali a confronto.
L’appello è per tutti: dobbiamo riempire l’Arena in tutti i 10.000 posti a sedere e dare una grande dimostrazione di affetto agli amici tibetani che, fra l’altro, manifesteranno la propria realtà sabato pomeriggio, 19 aprile, alle ore 17.00 in Piazza del Duomo a Milano e che ci attendono per far sentire la propria voce di protesta contro i soprusi di cui sono vittime.

Il sito della nazionale Padana

 
 
 

Incontro di Calcio Padania-Tibet

Post n°13 pubblicato il 11 Aprile 2008 da theriddle
 

da "Il Giorno" del 10 aprile 2008

All'Arena Civica un'amichevole tra Padania e Tibet

L'iniziativa è stata presentata dal capogruppo della Lega Nord Roberto Maroni. L'incontro precederà la fase finale della 'Viva World Cup Nf-Board', una 'Coppa del Mondo' di calcio per le selezioni non federate alla Fifa

Milano, 10 aprile 2008 - Il 7 maggio si terrà all'Arena di Milano un'amichevole di calcio tra le rappresentative del Tibet e della Padania. L'iniziativa è stata presentata a Palazzo Marino dal capogruppo della Lega Nord alla Camera, Roberto Maroni. "Tra noi e i tibetani - ha detto l'esponente del Carroccio - c'è una comunanza di vedute impressionante vista la distanza geografica. Alla fine entrambi puntiamo allo stesso obiettivo: essere padroni a casa nostra". Secondo la Lega il calcio, come tutti gli sport, "può abbattere frontiere irreali e aggregare finalmente popoli e comunità non secondo dettami e vincoli imposti con la forza, bensì sulla base di tradizioni, cultura e vera e insostenibile verità storica".

L'incontro con la nazionale tibetana sarà uno degli appuntamenti della rappresentativa leghista in preparazione alla fase finale della Viva World Cup Nf-Board, una 'Coppa del Mondo' di calcio per le selezioni non federate alla Fifa, che si svolgerà a Gaellivare, nella Lapponia svedese, dal 7 al 13 luglio. La squadra padana si confronterà, tra le altre, con selezioni dalla Provenza, dal Kurdistan, dall'isola maltese di Gozo e da quella africana di Zanzibar. L'edizione successiva dei Mondiali 'non Fifa', ha auspicato Maroni, potrebbe essere organizzata in Italia nel 2010, sul Lago Maggiore.


Maroni: "Il popolo padano oppresso come quello tibetano"

Il capogruppo della Lega Nord alla Camera lo ha affermato in occasione della presentazione della partita di calcio amichevole Padania-Tibet che si terrà il 7 maggio prossimo all'Arena di Milano Commenta


Milano, 10 aprile 2008 - "La battaglia del popolo tibetano è la battaglia di tutti i popoli oppressi del mondo, anche di quello padano". Lo ha affermato il capogruppo della Lega nord alla Camera, Roberto Maroni, che sprona il Dalai Lama a continuare a tenere duro nella sua battaglia "fino alla fine" in occasione della presentazione della partita di calcio amichevole Padania-Tibet che si terrà il 7 maggio all'Arena di Milano.

 
 
 

L'inno nazionale italiano

Post n°12 pubblicato il 07 Marzo 2008 da theriddle
 

Fratelli d'Italia - Canto degli italiani
(23 novembre 1847)
un brutto inno, con molte contraddizioni

Poche nazioni al mondo sono dotate di un inno più brutto e sanguinario di questo.

 Fratelli d'Italia / L'Italia s'è desta / Dell'elmo di Scipio / S'è cinta la testa (1)
Dov'è la vittoria? / Le porga la chioma (2) / Che schiava di Roma / Iddio la creò.

Stringiamoci a coorte (3) / Siam pronti alla morte, / Siam pronti alla morte (4) / Italia chiamò.

Noi fummo da secoli / Calpesti e derisi, / Perchè non siam popolo, / Perchè siam divisi(5).
Raccolgaci un' unica / bandiera, Una speme, / Di fonderci insieme / Già l'ora suonò.

Stringiamoci a coorte...

Uniamoci, uniamoci / L'unione e l'amore / Rivelano ai popoli / Le vie del Signore. (6)
Giuriamo far libero / Il suolo natio / Uniti per Dio (7) / Chi vincer ci può?

Stringiamoci a coorte...

Dall'Alpe a Sicilia / Dovunque è Legnano (8), / Ogn'uomo di Ferruccio (9) / Ha il cuore e la mano,
I bimbi d'Italia / Si chiaman Balilla (10) / Il suon d'ogni squilla / I vespri suonò. (11)

Stringiamoci a coorte...

Son giunchi, che piegano, / Le spade vendute (12). / Già l'aquila d'Austria (13) / Le penne ha perdute.
Il sangue d'Italia / Bevé col cosacco / Il sangue polacco / Ma il cor lo bruciò. (14)

Stringiamoci a coorte...

NOTE AL TESTO

(1) Cioè ha riesumato l'antico spirito di conquista e la sete di potere che giaceva assopita dai tempi dell’Impero Romano. Si tratta di Scipione l’Emiliano, che Dario Fo in un suo intervento sul Corriere chiamò "criminale razzista"; alcuni comunque lo identificano con l'Africano, il nonno dei due più famosi "sindacalisti" dell'antichità, Tiberio e Caio Gracco, morti nel tentativo di far approvare le leggi agrarie.
(2) Qui il poeta si riferisce all'uso antico di tagliare le chiome alle schiave per distinguerle dalle donne libere che portavano invece i capelli lunghi. Dunque i popoli che abitano la penisola devono porgere la chioma perché venga loro tagliata quali schiavi di Roma, sempre vittoriosa per volere di Dio.
(3) La coorte, cohors, era una sanguinaria unità da combattimento dell'esercito romano, decima parte di una legione; chiaro il riferimento alla corte come nobiltà, da difendere e per la quale combattere a costo della vita.
(4) Qui l’autore sembra presagire la propria morte, causata dalle ferite riportate in battaglia, nel 1849.
(5) Lo stesso Mameli, consapevole della mancanza di basi storiche e culturali comuni, rimarca l’impossibilità di riunire diversi popoli sotto un’unica bandiera, se non con l’uso della forza (come puntualmente avvenne).
(6) Si può intravedere in questi versi un sentimento democristiano ante litteram, confermato dalla nota religiosità di Mazzini, spesso deriso per questo da Marx con il nomignolo di Teopompo.
(7) "Per Dio" va inteso come invito a un'unione sacra, calata dall’alto (come le investiture divine dei Re carolingi) e alla quale nessuno (tantomeno il popolo plebeo) ha il diritto di opporsi.
(8) Ossia la battaglia in cui i comuni lombardi, uniti in una lega e guidati da Alberto da Giussano, batterono il Barbarossa respingendo il primo tentativo di unificazione degli Stati che componevano la penisola italica.
(9) Francesco Ferrucci che guidò i Fiorentini contro Carlo VIII di Francia e che a Maramaldo, rinnegato e traditore, gridava: "Vile, tu uccidi un uomo morto!". Altro esempio di resistenza popolare all’unificazione.
(10) "Balilla" è il soprannome di Gianbattista Perasso, il monarchico genovese che guidò la rivolta di Genova contro gli austriaci nel 1746, che ogni cittadino dovrebbe prendere a esempio di amor patrio in contrapposizione ai precedenti richiami a moti contrari alla creazione di uno Stato comune. Da qui verrà ripreso il nome delle giovani leve fasciste.
(11) Si tratta dei Vespri siciliani, rivolta (1282) degli isolani contro i francesi, che poi per stanarli gli facevano vedere dei ceci e chiedevano: cosa sono questi? E loro, non sapendo pronunciare la "c" dolce, dicevano "sesi" e venivano trucidati! La tromba di battaglia suona da monito a chiunque voglia resistere all’unificazione.
(12) Le truppe mercenarie di occupazione, viste come il male minore pur di piegare ogni resistenza.
(13) L'aquila bicipite, simbolo degli Asburgo, che persero il controllo dei territori a nord del Po a causa delle ricche donazioni che fecero rapidamente cambiare bandiera alla grande maggioranza delle truppe.
(14) Nonostante i danni, le razzie e i soprusi compiuti dai mercenari stranieri chiamati a combattere contro il popolo ribelle, l’importante è aver cancellato (“bruciato”) ogni radice, ed aver creato col sangue l’Italia. Col tempo, e con altri soprusi, si sarebbero creati (questa era la speranza) anche gli Italiani.

 
 
 

L'Italia non esiste.

Post n°11 pubblicato il 05 Marzo 2008 da theriddle
 

di Sergio Salvi.

Edizioni Camunia. Firenze 1996.

 

L'Italia non tiene: non si può rendere "uno" il molteplice e il dissonante. 

 

L’Italia (o, meglio, l’idea dell’Italia) proprio non «tiene». Da qualsiasi parte la si sbirci, ci vengono incontro crepe, spiragli, varchi, addirittura voragini. Eugenio Montale diceva della storia che «non si snoda come una catena di anelli ininterrotta, In ogni caso molti anelli non tengono». Forse la storia non esiste. È soltanto una costruzione (abusiva) degli storici. Forse (probabilmente) l’Italia non esiste.

 

Non basta la fede (e non bastano nemmeno le opere) perché una entità immaginaria divenga reale anche se è stata immaginata per qualche secolo con indubbio fervore fino all’istituzione in suo nome di uno Stato fornito di tutti i crismi previsti dal diritto internazionale (anche se dotato di scarso carisma).

 

Probabilmente, ci si accorge che l’Italia non c’è proprio perché c’è «questo» Stato che si definisce, in maniera allo stesso tempo ingenua e sfrontata, come «italiano»: nato nel 1861 per raccogliere entro i propri confini due modelli di Italia virtuale (considerati, barando con disinvoltura, uno solo), ha smarrito strada facendo la sua motivazione originaria trasformandola un una sorta di peccato originale e nascondendosi dietro di essa.

 

Dati entrambi, senza beneficio di inventario, come scontati e addirittura coincidenti, questi modelli (del tutto astratti) sono: l’Italia-«regione naturale» e l’Italia-«nazione». È facile constatare come all’Italia-Stato siano sempre sfuggite alcune parti indispensabili di questa Italia «nazional-naturale» posta a fondamento della sua unica ragione di esistere.

 

L’Italia-Stato è così soltanto una «frazione» di un «intero»: di un intero (l’Italia nazional-naturale) che però, come vedremo, con ogni probabilità non esiste. Una frazione di zero è sempre uguale a zero. L’Italia-Sato può apparire comunque un intero in quanto Stato (e non in quanto Italia): ma non è preparata a prendere atto di questa realtà sconcertante traendone le debite conseguenze. […]

 

Da Stato concepito per tutti gli «italiani» (con la dubbia motivazione che soltanto «uniti» sarebbero potuti divenire prosperi e «liberi» al suo interno e «indipendenti» nei confronti dell’esterno), lo Stato italiano si è dunque ridotto a essere lo Stato degli «italiani» divenuti e rimasti fortunosamente nel tempo suoi cittadini (per giunta non sempre liberi, non tutti prosperi e spesso nemmeno indipendenti sul serio).

Da ciò emerge una contraddizione vistosa: alla rinuncia implicita a compiere l’unità nazional-naturale secondo il programma iniziale, si contrappone infatti la convinzione, sia pure mascherata, dello Stato repubblicano di essere, nonostante tutto, la patria di «tutti» gli «italiani»: compresi gli emigrati e gli irredenti. Lo afferma implicitamente il secondo comma dell’articolo 51 della Costituzione vigente quando stabilisce che ai «pubblici uffici» e alle «cariche elettive» dello Stato sono ammessi, insieme ai «cittadini italiani» anche «gli italiani non appartenenti alla Repubblica».

 

Ma la ragione del fallimento dello Stato italiano è un’altra ed è del tutto opposta. Oltre ad essere due cose diverse, l’Italia-regione naturale e l’Italia-nazione, assai probabilmente, non esistono se non come fantasie o astrazioni: esistono invece, sicuramente, realtà concrete che non trovano nell’Italia-Stato, così come si è strutturata e a prescindere dal suo mancato compimento, un denominatore comune.

 

A quegli aspetti che gli studiosi definiscono lo «Stato-ordinamento» e lo «Stato-apparato» (che pure esistono anche se inefficienti) non corrisponde infatti uno «Stato-comunità» (che è già cosa diversa da una nazione). Ad essi soggiacciono invece «comunità» (che potrebbero essere anche nazioni) dall’identità propria e profonda, magari stremate, che tuttavia rivelano insospettabili doti di resistenza all’assorbimento: malgrado la loro scarsa consapevolezza culturale e politica (e la loro omogeneizzazione non sarebbe certo, proprio da un punto di vista allo stesso tempo culturale e morale, da considerarsi un fatto positivo anche se fosse tecnicamente impossibile).

 

Si può allora affermare che l’Italia-Stato non funziona perché assomiglia a una macchina composta di pezzi tra loro non componibili, tenuti assieme dalla forza delle leggi a dispetto della forza di gravità. Per questa ragione l’Italia come Stato è in stato permanente di decomposizione. Lo Stato stesso sembra accorgersi tutte le volte che è costretto a guardarsi allo specchio, di girare a vuoto. […]

 

Si può pertanto affermare che se l’Italia è a pezzi lo è per propria natura. Va da sé  che non basta riformare dall’alto e in superficie ordinamenti e apparati per suscitare una comunità che non esiste, per rendere «uno» (o anche soltanto armonioso) ciò che è invece molteplice (e dissonante). Il difetto, come direbbero gli esperti in utensileria, è tutto nel manico

 

Il mito dell'origine comune. Analisi genetico-linguistica. Analisi terminologica: nazione vs stato.

 

Uno dei miti sui quali si fondano le «nazioni» moderne, quello dell’origine comune, è del resto una enorme sciocchezza: lo è soprattutto nell’accezione «tedesca», che teorizza una impossibile persistenza nel tempo di una razza incontaminabile e incontaminata.

 

Ma lo è anche nella versione, certo più cauta, che diremo «francese» in quanto enunciata con garbo sospetto da Michelet, fondata invece sulla «miscelazione omogenea» di componenti diverse. Secondo Michelet, la «nazione francese» sarebbe sorta dalla «singolare perfezione con la quale si è compiuta la fusione delle razze, lo scambio e il matrimonio delle diverse popolazioni». […]

 

Così la «nazione francese» risulterebbe scaturita dalla presunta e perfetta fusione di liguri, iberi, celti, romani, e germani, franchi ma anche burgundi, visigoti, scandinavi e alemanni).

 

Tutti sappiamo che non è vero, come la Corsica, la Bretagna e l’Alsazia dimostrano inequivocabilmente esibendo ancora oggi una «fusione imperfetta».

Il caso «italiano» è, del resto, ancora più confuso e complesso di quello francese. […]

 

Se dai dati più propriamente linguistici e culturali di passa a quelli genetici, nell’ipotesi che questi conservino una loro importanza, la situazione appare ancora più sorprendente. È stato infatti dimostrato che la situazione dell’Italia-regione convenzionale, quale appariva nel V secolo a.C., è rimasta ancora oggi sostanzialmente la stessa […]

 

L’indagine scientifica che va sotto il nome di Biological History of European Population, in corso sotto l’egida della CEE, ha rilevato che l’Italia meridionale e la Sicilia conservano sorprendentemente una impronta «greca», quella settentrionale una «celtica», la Toscana una «etrusca», la Sardegna una «sarda».  

 

Ciò significa che il mutamento linguistico intervenuto nel corso del tempo (i «greci» non parlano più greco né gli «etruschi» l’etrusco) non rivela nessuna corrispondenza con un eventuale mutamento del patrimonio genetico. I titolari di questa indagine, Alberto Piazza dell’Università di Torino e Paolo Menozzi dell’Università di Parma, ne garantiscono la serietà, così come appare insospettabile l’ispirazione agli studi compiuti, con risultati a dir poco brillanti da Luca Cavalli-Sforza, autore del fondamentale The History and Geography of Human Genes (1995), noto anche al pubblico intellettuale italiano.

 

Nel linguaggio popolare (condiviso dai politici e dai giornalisti) la «nazione» viene addirittura intesa come sinonimo di «Stato»: ma non è affatto così. Soprattutto in Italia. Basta ricordare che il Risorgimento ha «propugnato» l’esistenza di una nazione italiana (priva di Stato proprio) per tradurla proprio in una Stato.

 

Il cittadino italiano medio chiama invece «nazione» tanto la Russia sterminata (una federazione che riconosce ufficialmente al suo interno almeno una cinquantina di nazioni di cui ventuno istituite in repubbliche autonome) quanto il minuscolo Liechtenstein (la cui popolazione non si distingue per nulla da quella dei villaggi degli stati confinanti) sia come chiama «artisti» tanto Giorgio quanto Gianni Moranti, tanto Carlo quanto Raffaella Carrà.

 

Stenta, è vero, per ragioni di prossimità fisica, a ritenere San Marino una nazione, ma non batte ciglio quando constata come San Marino schieri una propria rappresentativa «nazionale» di calcio coi i crismi di FIFA e UEFA. Non riflette invece sul fatto, clamoroso, che non esiste una «nazionale» britannica e che, per uno stesso Stato, scendano abitualmente in campo ben quattro «nazionali» (oltre tutto acerrime rivali) tutte col marchio FIFA e UEFA: Inghilterra, Scozia, Galles, Irlanda del Nord.

 

La colpa di questa abitudine non è tutta sua: al contrario di FIFA e UEFA, la massima organizzazione internazionale di Stati si chiama infatti Organizzazione delle Nazioni Unite e non Organizzazione degli Stati Uniti, fornendogli così un alibi prezioso. D’altronde, non è da oggi che molto Stati barano al gioco, presentandosi, al mondo e a se stessi, come nazioni.

 

Il diritto «interstatale» si chiama infatti «diritto internazionale», anche se è ad «uso» esclusivo degli Stati.

 
 
 

3° Festival della Canzone Lombarda

Post n°10 pubblicato il 20 Febbraio 2008 da theriddle
 

Il Centro Culturale Roberto Ronchi organizza il 3° Festival della canzone lombarda.

La partecipazione è aperta a tutti gli autori, compositori,cantautori e cantanti che potranno inviare una o più canzoni.

La gara canora si svolgerà interamente presso il Centro Culturale Rosetum in Via Pisanello, 1 - Milano nella data di venerdì 23 maggio 2008 alle ore 20,30 e la giuria, assegnerà i premi al 1°, al 2° e al 3° classificato.

La partecipazione è gratuita e le adesioni dovranno pervenire entro e non oltre il 15 aprile 2008 al seguente indirizzo:

Centro Culturale
Roberto Ronchi
Via Rismondo,31
20152 Milano.

Per info: Ernestina Ghilardi emghilardi@alice.it

 
 
 

Gianni Brera e la Padania

Post n°9 pubblicato il 19 Febbraio 2008 da theriddle
 

“Non esiste valle in cui più che
nella Padania abbia attivamente
operato il miracolo: e
non per intervento di un Dio
generoso e tremendo, bensì per
encomiabile volontà dell’uomo.
Non esiste Paese al mondo che
vanti città più belle e tutte logicamente
unite in un succedersi
di momenti che non è fatuo
definire magici”.

GIANNI BRERA
(1919-1992)


Tratto da: “Storie dei Lombardi”

 
 
 

Gianfranco Miglio

Post n°8 pubblicato il 16 Febbraio 2008 da theriddle
 

Di Alessandro Campi

Sbaglia il poeta: la palma della crudeltà spetta all’agosto, mese torrido e distratto, quindi sconsigliato alle morti eccellenti ed inadatto alle commemorazioni. La morte di Gianfranco Miglio, avvenuta lo scorso l’11 agosto, è stata accompagnata da “coccodrilli” frettolosi, che ne hanno ricordato, più che la scienza e la dottrina, diffuse a piene mani in oltre trent’anni di insegnamento presso la Cattolica di Milano e in un centinaio tra libri saggi ed articoli, certi aspetti, tardivi e secondari, della sua esistenza e del suo modo di essere: l’appassionata militanza nella Lega bossiana (durata appena quattro anni), la schiettezza del linguaggio, talune civetterie nel vestire, un certo compiacimento luciferino nel mostrarsi al pubblico ed il gusto per la provocazione politico-intellettuale. E’ rimasto in ombra, nei commenti riportati dalla stampa, l’essenziale, ciò per cui Milgio, da qui in avanti, merita di essere ricordato: l’essere stato uno dei maggiori studiosi italiani di politica del Novecento, un organizzatore culturale di prima grandezza, un bibliofilo e bibliografo di rara competenza come ben sa chi ha frequentato la sua biblioteca di Como (un monumento di architettura e di erudizione), insomma un uomo di scienza, espressione di un accademismo rigoroso ed esigente, in Italia ormai scomparso.

Come ogni pensatore di rango è stato un solitario, una personalità controcorrente, difficilmente classificabile secondo i consueti confini disciplinari. Presentato abitualmente come politologo (ma egli preferiva dirsi “scienziato della politica”), durante la sua carriera universitaria si è in realtà cimentato con le discipline più varie: dalla storia delle dottrine politiche alle relazioni internazionali, dal diritto costituzionale alla storia delle istituzioni politiche, dalla dottrina dello Stato alla scienza dell’amministrazione, dalla polemologia alla storia economica. Simile, in ciò, ai grandi teorici tedeschi su cui si era formato e dei quali si considerava, per stile e gusti intellettuali, un epigono: Ferdinand Tönnies, Otto von Gierke, Lorenz von Stein, Friedrich Meinecke, Max Weber…

Allievo del giurista Giorgio Balladori Pallieri e dello storico Alessandro Passarin d’Entrèves, entrambi cattolici e liberali, il suo esordio scientifico è avvenuto, a cavaliere del secondo conflitto mondiale, con alcune ricerche sulle origini e gli sviluppi della comunità internazionale, sulla formazione del diritto pubblico europeo, sulla dottrina della “guerra giusta” e sui caratteri propri delle relazioni intrastatuali. Sono seguiti, a partire dai primi anni Cinquanta, studi pionieristici ed innovativi, di taglio storico e tipologico, sulla pubblica amministrazione e sulla burocrazia, vale a dire su ciò che costituisce la reale ossatura di ogni Stato minimamente efficiente. Il 1964 è stato l’anno di una prolusione accademica rimasta celebre, nella quale Miglio diagnosticava lo scostamento della politica reale italiana dal modello di un autentico Stato di diritto rappresentativo-elettivo e teorizzava l’alternarsi ciclico tra regimi parlamentari puri e regimi autoritari a conduzione carismatica: una provocazione che segnò la sua rottura con la classe dirigente democristiana dell’epoca e l’inizio della sua fama di eccentrico e di guastafeste. Gli anni Settanta lo hanno invece visto impegnarsi in una serrata critica alle debolezze ed ai difetti dell’ordinamento costituzionale italiano: partitocrazia, parlamentarismo integrale, deficit decisionale. Il decennio successivo è stato, probabilmente, quello della sua maturità scientifica, durante il quale ha pubblicato studi come sempre originali sulle origini e sulla crisi (ai suoi occhi irreversibile) dello Stato moderno, sui rapporti tra guerra e politica, sul concetto di rappresentanza, sui diversi assetti della convivenza internazionale, sulle radici dell’obbligazione politica, sui fenomeni clientelari, sulla classe politica. Gli anni Novanta, infine, spesi all’insegna della passione, lo hanno visto protagonista del dibattito sul federalismo, tema al quale ha consacrato tutte le sue ultime energie intellettuali.

Si è detto che è stato anche un grande organizzatore ed artefice culturale. Sua, nei primi anni Cinquanta, l’idea di dar vita all’Istituto per la Scienza dell’amministrazione pubblica, e, nel 1961, quella di istituire la Fondazione italiana per la storia amministrativa: entrambi fucine di studiosi di rango e di spezzoni importanti della classe dirigente nazionale. Suo nel 1968 – in collaborazione, tra gli altri, con Giovanni Sartori, Giuseppe Maranini e Beniamino Andreatta – il progetto di riforma dell’ordinamento delle Facoltà di Scienze Politiche. Sua, nei primi anni Settanta, la scelta di pubblicare una raccolta antologica, Le categorie del ‘politico’ di Carl Schmitt, che ha segnato l’inizio di una nuova stagione della cultura italiana: un’iniziativa editoriale che produsse scombussolamento soprattutto tra i marxisti e che, come egli soleva dire divertito, il suo amico Bobbio non gli ha mai perdonato. Sua, a partire dal 1983, la direzione di una collana unica quale “Arcana Imperii”, oltre trenta corposi volumi dedicati ai grandi classici del pensiero politico-giuridico soprattutto europeo. Suo il coordinamento scientifico del mitico Gruppo di Milano, dal quale, tra il 1980 ed il 1983, è scaturito il più organico e rigoroso progetto di revisione costituzionale prodotto nel nostro Paese, tanto ambizioso quanto inadatto alle lentezze barocche della politica italiana. Sua, per concludere, a metà degli anni Novanta, l’iniziativa della Fondazione per un’Italia federale, laboratorio scientifico per la definizione di un’autentica e moderna dottrina federalista. 


Miglio è stato, e sempre si è considerato, uno scienziato. Come studioso di politica e costituzionalista apparteneva ad una famiglia di pensiero assai particolare: quella del “realismo politico”. Egli è stato, per l’esattezza, l’ultimo grande esponente della scuola realista italiana, degno erede, nel secondo dopoguerra, di Gaetano Mosca e Vilfredo Pareto, come questi ultimi interessato a scoprire le leggi e le “regolarità” (termine, quest’ultimo, propriamente migliano) che sorreggono l’agire politico degli uomini ed a smascherare e rendere esplicito l’intreccio di opzioni di valori e di interessi che sta al fondo di ogni ideologia o credenza politica e che costituisce la vera molla della lotta per il potere condotta dai gruppi umani organizzati. Come ogni realista che si rispetti, il potere, cioè gli uomini politici, lo ha più temuto che amato: destino comune a chi scelga di alzare il velo dell’ipocrisia, rifiuti la retorica delle belle parole e accetti di osservare la politica quale essa è, da sempre. La sua lezione più grande si riassume nel convincimento che le istituzioni politiche – comprese, ovviamente, quelle che oggi abbiamo – non sono eterne, ma sottoposte ad un ciclo storico vitale e quindi ad una perenne trasformazione. Cultore degli studi storici e profondo conoscitore degli assetti istituzionali antichi moderni e contemporanei, Miglio ha avuto lo sguardo sempre rivolto al futuro: quali saranno le forme di organizzazione della politica non tra dieci, ma tra cento o mille anni? Critico verso la storia ed il costume nazionale, non è stato tuttavia un anti-italiano: il “caso italiano” lo considerava tutto sommato marginale rispetto alla vicenda millenaria della tradizione politica occidentale.

Oltre che forzatamente solitario, il suo percorso scientifico-culturale è stato discontinuo e tutt’altro che lineare. Come ogni studioso di rango, Miglio non temeva di mettersi in discussione e di rivedere le sue posizioni. Dopo essere stato un teorico del decisionismo e della sovranità, negli ultimi anni, convintosi dell’ineluttabile declino del modello politico dello Stato-nazione, aveva abbracciato posizioni al limite dell’anarchismo politico ed era divenuto un fautore ad oltranza del pluralismo politico-istituzionale. Segno ulteriore di grandezza ed onestà, rispetto ad un costume medio intellettuale che teme la revisione e l’auto-analisi. Ma nemmeno temeva le contaminazioni e la polemica, gli incontri ed i confronti, la ricerca di nuovi terreni d’indagine e di discussione: sempre curioso, e sicurissimo di sé, non ha mancato di incrociare cavallerescamente le armi con gli esponenti della sinistra post-marxista, di fustigare un certo quietismo cattolico, di cogliere in fallo i federalisti dell’ultima ora, di laureare con tesi sul terrorismo degli estremisti di sinistra, di interessarsi alle posizioni della “nuova destra”, di mettere in contraddizioni certi liberali troppo sicuri di sé, di stigmatizzare il conformismo intellettuale dei suoi colleghi.

La sua fama presso il grande pubblico è derivata dal suo impegno nella politica attiva, maturato tuttavia solo dopo aver abbandonato la cattedra e l’insegnamento. Senatore per tre legislature, dall’esperienza parlamentare Miglio ha in effetti ricavato delusioni ed incomprensioni, peraltro largamente prevedibili alla luce dei suoi stessi insegnamenti. Perché dunque ha accettato di correre il rischio? Dopo anni di studi e di tentativi, andati a vuoto, di formare una classe dirigente all’altezza delle sfide della politica contemporanea – il più organico fu quello condotto a fianco di Cefis, per conto del quale diresse per alcuni anni la scuola di formazione dell’Eni –, aveva intravisto, nel quadro scaturito dalla crisi della Prima repubblica, la possibilità, l’ultima ai suoi occhi, di un reale cambiamento della struttura statuale italiana, in direzione di un avanzato ordinamento federalista basato sul patto volontario tra libere comunità territoriali: solo nell’elezione dei “governatori” regionali aveva tuttavia visto il primo segnale di una concreta trasformazione del sistema politico italiano. Deluso ma pur sempre indomabile, negli ultimissimi anni Miglio aveva cominciato a profilare, tra le rovine di uno Stato giunto ormai alla sua fase storicamente terminale, l’abbozzo di un nuovo modello politico policentrico nel segno del mercato, del privato e del libero contratto, simile a quello delle città-stato mercantili nord-germaniche del Seicento. Il suo ultimo libro, purtroppo mai scritto, avrebbe voluto intitolarlo L’Europa degli Stati contro l’Europa delle città: il sogno di un visionario o la lucida anticipazione di una fertile mente scientifica

Nell’attesa che il suo pensiero divenga oggetto di studi e di approfondimenti, si può solo ricordare le parole che egli stesso scrisse in memoriam del suo amato Carl Schmitt e che bene si attagliano anche alla sua avventura intellettuale: “i traguardi scientifici da lui raggiunti, proprio perché corrispondenti a altrettanti alti problemi, costituiscono porte aperte sul futuro della conoscenza scientifica. Quasi ogni sua teoria suggerisce nuove ricerche, nuove ipotesi da verificare, nuove avventure del pensiero”. A chi, nel corso degli anni, gli è stato vicino e ne ha meditato gli insegnamenti, spetta adesso l’onere di rendere il dopo-Miglio più fecondo e vitale dell’età su cui egli ha esercitato, in maniera libera e creativa, la sua straordinaria intelligenza.



Tratto da: http://www.alessandrocampi.it/Miglio.htm

 
 
 

Comunitaristi e Localisti

Post n°7 pubblicato il 30 Gennaio 2008 da theriddle
 

di Edoardo Zarelli

La globalizzazione, ha fortemente ridotto l’importanza dello Stato, delle leggi e dei confini. Eppure. la megamacchina mondialista non arresta la sua invadenza. Quali sono, allora, le alternative possibili?

IL COMUNITARISMO
Quali possono essere, in questo scenario nichilistico, i motivi di una inversione di rotta? È possibile un'altra modernità che disarcioni l'estroversa cavalcata prometeica della globalizzazione? Noi pensiamo all’introversione pudica di un ritrovato senso del limite, di un orizzonte limitato ma reale, sostanziale, certi che, oltre ogni astrazione cosmopolita, in ogni luogo, esista - per dirla con Mircea Eliade - un “centro del mondo” possibile. L'unico reincantamento praticabile passa giocoforza attraverso la risacralizzazione della natura e, gli elementi che ci fanno pensare a un futuro non scontato e in controtendenza sono: l'impossibilità di sostituire permanentemente la razionalità all'intelligenza, dal momento che la seconda ha una dimensione più ampia della prima, si esprime sempre e comunque nella vita individuale e, inevitabilmente, si riproduce in ogni atto creativo dell'essere umano; l'impossibilità di estirpare il senso della comunità che, in mille rivoli carsici, si ripropone al di sotto del reticolo delle istituzioni e negli interstizi della società contrattuale nella necessità di partecipare e identificarsi; la sopravvivenza di ambiti di reciprocità nella vita quotidiana. Nonostante tutto, gli uomini e le donne spontaneamente offrono e donano gran parte di ciò che ottengono dallo scambio per la necessità profonda di essere ricambiati in termini di amore e rispetto; l'evidenza dei guasti ecologici e sociali prodotti dalla megamacchina. Per quanto minimalizzati, pongono in grave imbarazzo lo stesso approccio razionale, che in una perfetta rispondenza alla legge dell'entropia è costretto ad accorciare sempre più i tempi di reazione per evitare catastrofi, l'esaurirsi delle forme energetiche e riparare i guasti sociali apportati. L'essenza di una prospettiva olistica sta nella volontà di riconnettersi col proprio luogo, sottraendolo al controllo della megamacchina, per ristabilire il corretto rapporto con il mondo naturale. È possibile ritrovare la connessione intima con l'intera trama della vita e rinunciare a porsi in posizioni di dominio – peraltro apparente e temporaneo – ricreando reciprocità ed armonia tra l'uomo e la natura. È possibile, però, solo se si torna ad essere abitanti del luogo, se cioè si recuperano solide radici tramite le quali acquisire una nuova consapevolezza del Pianeta come essere vivente. Si tratta di sviluppare una sensibilità ecocentrica con cui costruire, nel ventre stesso della società dello scambio, una rete di ambiti di reciprocità in cui possano svilupparsi comunità locali rigenerate - in grado di autogovernarsi e di rielaborare o ritrovare la propria cultura indipendente dalla omogeneizzazione globale - legate strettamente alla compatibilità ambientale. La megamacchina opera per affermare la propria cultura unica, il suo stile di vita universale. Il suo obiettivo è quello di ridurre tutti i popoli ad una unica grande massa omogenea e quindi malleabile a piacimento. Cerca di raggiungere questo obiettivo con la metabolizzazione e sterilizzazione culturale, sociale e politica. La cultura dominante sostiene che le leggi di natura sono pure astrazioni, che, non a caso, sussume nelle leggi economiche. In realtà, vivere secondo le leggi di natura significa porsi il problema di come non ferire la sensibile trama della vita che ci circonda, di come ridurre nel migliore dei modi l'impatto dovuto ai nostri consumi, ai nostri bisogni. Se c'è qualcosa che la natura indica perentoriamente, è il senso del limite, la sobrietà.

IL PROGETTO LOCALE
Se la dimensione mondiale dei processi in atto non può essere realisticamente rimossa, si avrà sviluppo locale dove la società locale saprà resistere attivamente alla globalizzazione costruendo reti solidali. In tal senso adoperiamo il controverso neologismo glocalismo. Questo non ha valore finalistico ma di semplice stimolo dialettico concettuale. La globalizzazione esclude l'autosostenibilità del locale imponendo la competitività contro la cooperazione, lo sfruttamento delle risorse contro la valorizzazione del patrimonio identitario, la polarizzazione economica del sociale contro la socializzazione dell'economico. Il locale, come comunità delle comunità, in aree geopolitiche omogenee, è l'unica credibile eterogenesi dei fini della globalizzazione, del suo centralismo tecnocratico, della sua mercificazione economica e omogeneizzazione culturale. I punti qualificanti di tale prospettiva possono essere: sistemi produttivi locali autosostenibili fondati sulla valorizzazione del patrimonio, che si relazionano nello scambio come agenti attivi di produzione qualitativa della ricchezza e come agenti di modelli originali di produzione e consumo; relazioni commerciali che sviluppino reti locali di mercato contro la liberalizzazione di quest'ultimo; legami finanziari fondati su principi di sussidiarietà e complementarietà; rafforzare la ri-costruzione del legame sociale (in grado di autoalimentarsi) e la sua capacità di esprimere peculiarità nello stile di sviluppo autosostenibile; ciò richiede lo stimolo di una cultura basata su di un principio di simbioticità con i riferimenti di ciclicità della natura. Una comunità locale, nel suo rapporto con il territorio, rimanda alla sua identità e quindi alla capacità di saper riconoscere le proprie frontiere. La frontiera dell'identità locale è un limite naturale, esattamente come la pelle per il corpo umano o come le membrane che assicurano ad ogni singola cellula la propria autonomia, ma anche la relazione con il resto dell'organismo. La pratica bioregionalista, in tal senso, si pone come vera avanguardia delle tendenze più interessanti espresse dal movimento della “ecologia del profondo”. Le frontiere dell'identità locale, rigidamente indisposte verso l'alto – nei confronti cioè della megamacchina – sono il luogo dell'incontro e dello scambio culturale ed economico. Nessuna identità locale può essere esclusivamente autosufficiente; in una società olistica, la piccola scala dell'organizzazione sociale porterà all'interno a forme di collaborazione, mentre all'esterno i rapporti saranno orientati verso forme di federazione e sussidiarietà, non di egemonia o espansionismo. La soppressione delle differenze, comunque perseguita, oltre ad essere omicida – perché alla biodiversità deve necessariamente corrispondere la diversità culturale – genera mostri con l'esaltazione della diversità fine a se stessa, autoreferenziale, che si percepisce superiore, misantropica, e quindi aggressiva. L'integralismo, il neo-tribalismo e lo sciovinismo vanno di pari passo e, più probabilmente al traino, della schiacciante arroganza egemone dell'occidentalizzazione del mondo. Cosa differenzia quindi un sentimento comunitario aperto, cosmogonico, da una comunità chiusa, tribale? Nella sua estroversione la considerazione per cui le altre comunità non negano la propria ma, anzi, la confermano nella necessità – questa sì universale – di radicamento. Nella sua introversione mostrandosi aperta e “libertaria”, verso chi si sottragga ai valori e ai modelli espressi nella consuetudine, limitandosi ad affermare il bene comune in positivo, quale scelta individuale, di coscienza, non coercitiva. Logica conseguenza di una prospettiva olistica è il quadro complessivo in cui sviluppare i molteplici cerchi concentrici che legano relazionalmente le comunità più piccole alle più grandi, sviluppando gli anticorpi naturali all'inclusione come all'esclusione. Comunità naturali, culturali, religiose e civili muovono sul piano dell'identità. Il respiro continentale deve esercitare quell'equilibrio tra il piccolo e il grande spazio che coniughi universalità e particolarità in una comune tensione etica e politica.

 
 
 

Wikipedia

Post n°6 pubblicato il 28 Gennaio 2008 da theriddle
 

Alcuni componenti della nostra associazione stanno collaborando allo sviluppo delle voci riguardanti la Valle Camonica, le sue caratteristiche, i paesi, i personaggi, etc. presenti su WIKIPEDIA.

Chiunque volesse collaborare può farlo, basta seguire le linee di comportamente previste da www.wikipedia.it

Un primo passo può essere fatto visitando il portale wiki sulla Valle Camonica http://it.wikipedia.org/wiki/Portale:Val_Camonica

 
 
 

Leggende dalla Val Saviore

Post n°5 pubblicato il 28 Gennaio 2008 da theriddle
 

tratto da http://digilander.libero.it/leggendeitaliane/nord.htm

Le streghe dell'Androla

Nella leggenda si raccontano parecchie storie sulle "streghe dell'Androla ", ( località di Cevo ). Si parla infatti dei "bùs de le strie" (buchi delle streghe) che erano delle miniere di ferro di molti anni fa, poi successivamente furono usate per nascondersi dai partigiani della seconda Guerra mondiale. Sono questi buchi che nella leggenda avrebbero ospitato le streghe.

Il "Cavra bezol "

Credevano nel "cavra bezol", caprone urlante imparentato col diavolo che si poteva incontrare nelle notti di plenilunio

I fantasmi colpevoli

Una delle leggende di Saviore dell'Adamello racconta che durante le notti invernali, le strade del borgo siano percorse da una processione di fantasmi. Secondo la leggenda si tratterebbe delle ombre dei morti, dannati per aver rubato durante la loro vita.Tra gli abitanti del paese di Saviore c'è anche chi giura di avere assistito a tale macabro spettacolo: " le anime avanzano lente, in processione facendosi luce con fiammelle che bruciano sulla punta delle loro colpevoli dita".

 
 
 

29 maggio La Canzone di Legnano: il Parlamento

Post n°4 pubblicato il 27 Gennaio 2008 da theriddle
 
Tag: Poesia

Giosuè Carducci

I
Sta Federico imperatore in Como.
Ed ecco un messaggero entra in Milano
da Porta Nova a briglie abbandonate.
"Popolo di Milano", ei passa e chiede,
"fatemi scorta al console Gherardo."
Il consolo era in mezzo de la piazza,
e il messagger piegato in su l'arcione
parlò brevi parole e spronò via.
Allor fe' cenno il console Gherardo,
e squillaron le trombe a parlamento

II
Squillarono le trombe a parlamento:
ché non anche risurto era il palagio
su' gran pilastri, né l'arengo v'era,
né torre v'era, né a la torre in cima
la campana. Fra i ruderi che neri
verdeggiavan di spine, fra le basse
case di legno, ne la breve piazza
i milanesi tenner parlamento
al sol di maggio. Da finestre e porte
le donne riguardavano e i fanciulli.

III
"Signori milanesi," il consol dice,
"la primavera in fior mena tedeschi
pur come d'uso. Fanno pasqua i lurchi
ne le lor tane, e poi calano a valle.
Per l'Engadina due scomunicati
arcivescovi trassero lo sforzo.
Trasse la bionda imperatrice al sire
il cuor fido e un esercito novello.
Como è coi forti, e abbandonò la lega."
Il popol grida: "L'esterminio a Como."

IV
"Signori milanesi," il consol dice,
"l'imperator, fatto lo stuolo in Como,
move l'oste a raggiungere il marchese
di Monferrato ed i pavesi. Quale
volete, milanesi? od aspettare
da l'argin novo riguardando in arme,
o mandar messi a Cesare, o affrontare
a lancia e spada il Barbarossa in campo?

V
Or si fa innanzi Alberto di Giussano.
Di ben tutta la spalla egli soverchia
gli accolti in piedi al console d'intorno.
Ne la gran possa de la sua persona
torreggia in mezzo al parlamento: ha in mano
la barbuta: la bruna capelliera
il lato collo e l'ampie spalle inonda.
Batte il sol ne la chiara onesta faccia,
ne le chiome e ne gli occhi risfavilla.
È la sua voce come tuon di maggio.

VI
"Milanesi, fratelli, popol mio!
Vi sovvien" dice Alberto di Giussano
"calen di marzo? I consoli sparuti
cavalcarono a Lodi, e con le spade
nude in man gli giurâr l'obedienza.
Cavalcammo trecento al quarto giorno,
ed a i piedi, baciando, gli ponemmo
i nostri belli trentasei stendardi.
Mastro Guitelmo gli offerì le chiavi
di Milano affamata. E non fu nulla."


VII.

«Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
«Il dí sesto di marzo? Ai piedi ei volle
Tutti i fanti ed il popolo e le insegne.
Gli abitanti venian de le tre porte,
Il carroccio venía parato a guerra;
Gran tratta poi di popolo, e le croci
Teneano in mano. Innanzi a lui le trombe
Del carroccio mandâr gli ultimi squilli,
Innanzi a lui l'antenna del carroccio
Inchinò il gonfalone. Ei toccò i lembi.»


VIII.

«Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:
«Vestiti i sacchi de la penitenza,
Co' piedi scalzi, con le corde al collo,
Sparsi i capi di cenere, nel fango
C'inginocchiammo, e tendevam le braccia,
E chiamavam misericordia. Tutti
Lacrimavan, signori e cavalieri,
A lui d'intorno. Ei, dritto, in piedi, presso
Lo scudo imperïal, ci riguardava.
Muto, col suo dïamantino sguardo.»


IX.

«Vi sovvien,» dice Alberto di Giussano,
«Che tornando a l'obbrobrio la dimane
Scorgemmo da la via l'imperatrice
Da i cancelli a guardarci? E pe' i cancelli
Noi gittammo le croci a lei gridando
- O bionda, o bella imperatrice, o fida,
O pia, mercé, mercé di nostre donne! -
Ella trassesi indietro. Egli c'impose
Porte e muro atterrar de le due cinte
Tanto ch'ei con schierata oste passasse.»


X.

«Vi sovvien?» dice Alberto di Giussano:
«Nove giorni aspettammo; e si partiro
L'arcivescovo i conti e i valvassori.
Venne al decimo il bando - Uscite, o tristi,
Con le donne co i figli e con le robe:
Otto giorni vi dà l'imperatore -.
E noi corremmo urlando a Sant'Ambrogio,
Ci abbracciammo a gli altari ed a i sepolcri.
Via da la chiesa, con le donne e i figli,
Via ci cacciaron come can tignosi.»


XI.

«Vi sovvien» dice Alberto di Giussano
«La domenica triste de gli ulivi?
Ahi passïon di Cristo e di Milano!
Da i quattro Corpi santi ad una ad una
Crosciar vedemmo le trecento torri
De la cerchia; ed al fin per la ruina
Polverosa ci apparvero le case
Spezzate, smozzicate, sgretolate:
Parean file di scheltri in cimitero.
Di sotto, l'ossa ardean de' nostri morti.»


XII.

Cosí dicendo Alberto di Giussano
Con tutt'e due le man copriasi gli occhi,
E singhiozzava: in mezzo al parlamento
Singhiozzava e piangea come un fanciullo.
Ed allora per tutto il parlamento
Trascorse quasi un fremito di belve.
Da le porte le donne e da i veroni,
Pallide, scarmigliate, con le braccia
Tese e gli occhi sbarrati al parlamento,
Urlavano - Uccidete il Barbarossa -.


XIII.

«Or ecco,» dice Alberto di Giussano,
«Ecco, io non piango piú. Venne il dí nostro,
O milanesi, e vincere bisogna.
Ecco: io m'asciugo gli occhi, e a te guardando,
O bel sole di Dio, fo sacramento:
Diman la sera i nostri morti avranno
Una dolce novella in purgatorio:
E la rechi pur io!» Ma il popol dice:
«Fia meglio i messi imperïali.» Il sole
Ridea calando dietro il Resegone.

NOTE:

I. Sta Federico ecc.: essenziale e vigoroso, il verso d'apertura
delinea la sempre paurosa potenza di Federico Barbarossa e
insieme fa quadro. Disceso per la quinta volta in Italia
nell'ottobre 1174, dopo avere vanamente tentato di assalire
Alessandria ed essersi fortunosamente liberato dalla cerchia
dei "latini acciari" nell'aprile 1175, secondo cantano le quartine
Su i campi di Marengo, l'imperatore riparò dapprima a Pavia,
poi, nella primavera del 1176, a Como, per raccogliervi gli
eserciti di rinforzo provenienti dalla Germania e in un secondo
tempo per unirsi alle milizie alleate di Pavia e del marchese
Guglielmo di Monferrato. La scena è a Milano, alla vigilia della
battaglia di Legnano (29 maggio 1176).
3. da Porta Nova: una delle sei porte che aveva allora Milano,
quella verso Monza e Lecco (le altre: Romana, Ticinese,
Comasca, Vercellina, Orientale). Da Monza o Lecco, non da
Como, viene il messaggero, che dunque reca a Milano un
messaggio dei confederati lombardi, non un'intimazione
dell'imperatore, come immaginava il Manzoni. Lo confermano
d'altra parte i versi originari: "Ed ecco un messager lombardo a
briglia / abbandonata entrar da Porta Nova"; e lo ha dimostrato il
Gandiglio nella sua felice analisi del contesto carducciano. - a
briglie abbandonate: a briglia sciolta, e perciò a gran carriera.
4. passa e chiede: passa chiedendo, chiede senza fermarsi.
5. fatemi scorta: guidatemi. - al: fino al, dal - console
Gherardo: personaggio storico, il più insigne cittadino milanese
del tempo: Gherardo o Gerardo Cagapisto, detto
abbreviatamente Pisto, giureconsulto e oratore, più volte
console di Milano tra il 1150 e il 1179, anche se non proprio
nell'anno di Legnano, e rappresentante dei Milanesi in tutti gli
atti importanti della Lega Lombarda.
6. Il consolo: la forma latineggiante (mentre dicono "console" i
vv. 5 e 9 e la prima redazione; "In mezzo de la piazza il console
era") serve ad evitare i due e consecutivi, ma anche ritaglia la
parola con aulica nettezza.
7. arcione: la parte anteriore della sella; per sineddoche, sella.
8. parlò: transitivo: disse, - spronò via: "Il cenno al cavallo, che
dice anche l'impazienza del cavaliere, e nulla più. La corsa è
tutta in quel via, come uno non anche mosso che è già lontano".
9. fe' cenno: fece un gesto di comando, diede ordine ai
trombettieri del Comune.
10. a parlamento: chiamando il popolo a riunirsi in piazza.
11. Squillarono ecc.: ripresa, con lievi varianti ma con efficace
effetto complessivo, del v. 10: la quale "accentua il carattere di
epopea popolaresca, la sciolta narratività del racconto detto e
non letto (per così dire)".
12-20. ché non anche ecc.: il parlamento viene convocato
all'aperto con squilli di tromba perché, dopo la demolizione di
Milano ordinata dal Barbarossa quattordici anni innanzi (1162),
non erano stati ancora (anche) ricostruiti il palazzo del Comune
(con espressione nobilmente arcaica, palagio) e la sala delle
pubbliche riunioni (arengo) e la torre con la campana che
chiamasse i cittadini a raccolta. Accenna sì il poeta al palazzo
pubblico, poi della Ragione, che verrà edificato soltanto nel
1233, su' gran pilastri; nel Broletto Nuovo, poi piazza dei
Mercanti, traendo egli nozione e suggestione storica da parole di
G. Giulini, autore di Memorie spettanti alla storia [...] di Milano
nei
secoli bassi (1870); "ampio edificio quadrilungo, il quale di sotto
ha un gran portico con due ordini d'archi sostenuti da grossi
pilastri". E dai particolari delle fonti la suggestione s'allarga a
visione, a pittura, della città in rovina, tra il nero dei ruderi e
il
verdeggiar dei rovi, in quella misera piazza attorniata da casipole
di legno. - Da finestre e porte ecc.: "queste donne, questi
bimbi, fermi su le porte, affacciati alle finestre che sono appena
più su delle porte, danno a questa adunata un aspetto
novissimo e come un tono domestico e dimesso, e
un'aspettazione più dolorosa. Gli ultimi sono già fuori".
22-24. La primavera in fior ecc.: la primavera matura conduce tra
noi, nelle nostre terre, torme di tedeschi, come è accaduto tanto
spesso, come accade secondo il costume delle genti
ermaniche (pur come d'uso). Evidentemente il console riferisce
ai suoi concittadini, qui e nei versi successivi, quanto ha saputo
dal messaggero, e così ora s'intende il significato di quel
messaggio, che è d'informazione e d'allarme: scendendo dalle
Alpi sono arrivati rinforzi all'imperatore, e tutto l'esercito
imperiale è in movimento; preparatevi a ricevere questa nuova
invasione e aggressione, e, se potete, prevenite e attraversate le
mosse del nemico. - lurchi: ingordi, rapaci, come lupi che alla
buona stagione escono dalle loro tane per scendere a valle e far
bottino.
25-26. Per l'Engadina ecc.: due arcivescovi ghibellini, Filippo di
Colonia e Wichmann di Magdeburgo, scomunicati dal papa
Alessandro III, nemico del potere imperiale e sostenitore della
Lega (ma qui, nel discorso del console, la parola "scomunicati",
come oserva il Valgimigli, "aggiunge al suo senso specifico un
tocco iroso e ingiurioso"), guidarono gli eserciti (trasser lo
sforzo, bella espresione arcaica, ove "sforzo" significa forza
raccolta d'armi e d'armati, esercito, come spesso "vis" latino)
per l'Engadina, cioè per la valle dell'Inn, fino al lago di Como. In
verità i rinforzi attesi dall'imperatore discesero, pare, per la
valle
del Reno e poi per quella del Ticino, se Federico uscì da Como
per andare loro incontro fino a Bellizona: "Sarebbe una piccola
offesa alla verità poetica".
27-28. Trasse la bionda imperatrice ecc.: Beatrice di Borgogna,
seconda moglie di Federico, venne a sua volta in Italia, recando
all'imperatore se stessa e un altro esercito, composto di nuove
leve e perciò fresco e gagliardo (novello). Senonché nella
primavera del 1176 l'imperatrice doveva già essere in Italia
accanto al marito, e all'estate del 1159, al tempo della seconda
spedizione in Italia di Federico e dell'assedio di Crema, le
cronache ascrivono invece la discesa di ici nella penisola con
un nuovo esercito: altra e certo consapevole infrazione di
Carducci alla storia; ché, come sempre o quasi sempre,
spostamenti di tempi e concentrazioni di fatti rispondono a fini
estetici e drammatici, in una coincidenza di verosimile storico e
vero poetico. Peraltro non insisterei eccessivamente sulla
gentilezza e sul fascino dell'"eterno femminino regale" connessi
con l'aggettivo bionda, come fa il Valgimigli, né essendo
quell'aggettivo pronunciato dal console di Milano, vi avverto,
come suggerisce il De Robertis, un lieve sapore d'ironia. Bionda
è detta l'imperatrice dalle antiche cronache, e bionda è tipico
attributo, da canzone di gesta e da ballata romantica, di una
donna nordica e di nobile sangue; così come, più avanti, la
bruna chioma di Alberto di Giussano entra nella
caratterizzazione tipica del prode guerriero latino.
29-30.Como è co' i forti ecc.: diserzione, tradimento di Como: ha
abbandonato la Lega passando dalla parte del più forte,
l'esercito imperiale. Donde un grido di esecrazione e una
minaccia di distruzione (esterminio, altro arcaismo), - Como: "a
prima era all'inizio del verso, qui è alla fine: come un suggello e
una minaccia decisa"
32. fatto lo stuolo: "altra espressione tecnica dell'antico
linguaggio militare": raccolte e ordinate le sue schiere.
33-38. l'oste: altro arcaismo, "che accentua la storicità e la
poesia". - il marchese di Monferrato ed i pavesi: che, al pari di
Como, avevano abbandonato la Lega e fatto causa comune con
l'imperatore. - Quale volete: quale cosa volete, quale proposta
scegliete. E tre sono le proposte che ora il console enuncia:
testare sulla difensiva, venire a patti, affrontare il nemico in
campo aperto. - l'argin novo: quello che aveva sostituito la cinta
difensiva distrutta. Così, in armi dietro i bastioni, i Milanesi
avevano accolto Federico nel 1158 e nel 1159, ricevendone l'una
e l'altra volta assalto e assedio. - mandar messi: che significa
inchinarsi all'autorità e ai diritti dell'imperatore (Cesare) e
conclusivamente accettare il solo accordo possibile con lui, la
resa. La seconda proposta è "fatta senza persuasione, anzi, per
incitamento e inasprimento, onde poi la terza, la decisiva" - il
Barbarossa: ora Federico è designato col nomignolo, che riduce
a un tratto la maestà prima conferitagli dal titolo di Cesare e lo
riconduce al ruolo di tiranno, di nemico.
39-40. A lancia e spada ecc.: "non voglio lasciare di mettere in
rilievo la diversa interpunzione del v. 38 e del v. 40, che pure
nelle parole uguali; ma quello deve correr rapido, senza
spezzamenti, dietro alla foga della conclusione in forma
interrogativa, e questo, con le pause delle due virgole, riproduce
la risolutezza della risposta che rimbomba come tuono
nell'assemblea".
41. Alberto di Giussano: il giovane capitano della Compagnia
della Morte, drappello di guerrieri che avevano giurato di vincere
o di morire. Le cronache parlano dell'alta statura e della forte
corporatura di alberto, e da queste replicate notizie, che forse si
uniscono a momenti e immagini di letteratura medioevale,
nasce e campeggia il ritratto monumentale della quinta strofa.
42. tutta la spalla: cfr. l'immagine di Franceschino Malaspina in
I.G.I. XIV Poeti di parte bianca. 42-43: "tu dritto in piedi tutta /
ergei =
la testa su i minor baroni". - soverchia sopravanza. Il Valgimigli
vi riconosce una reminiscenza dei Fatti di Enea, là dove frate
guido da Pisa parla di Turno: "Era lo più bello di tutta Italia ed
era
sì grande che dalle spalle in su era maggiore di tutti gli altri
uomini".
43. gli accolti ecc.: i cittadini riuniti intorno al console: in
piedi, a
definire interamente la statura di Alberto.
45. torreggia: si leva come torre, domina come torre: all'altezza
si unisce la robustezza.
46. la barbuta: elmo prolungato nella parte anteriore fino a
coprire tutto il volto. Ma Alberto è a testa scoperta, e quell'"elmo
in mano è solo come un ricordo di più, o un annuncio, di guerra".
Ed è un tocco che accresce la storicità del quadro forse senza
rispettare la storia, che molto più tardi, a quanto pare, i guerrieri
milanesi adottarono un simile elmo. Così come, subito
appresso, la cappelliera che scende copiosa sul collo e sulle
spalle di Alberto richiama certo tempi più avanzati, addirittura, in
Milano, il secolo seguente. I consueti anacronismi carducciani,
felicemente poetici e rappresentativi.
47. lato... ampie: si accentua il ritratto in ampiezza e gagliardia.
48. chiara onesta: due aggettivi che ai tratti tipici ed esteriori
del
poderoso guerriero lombardo aggiungono la franchezza e la
nobiltà dell'espressione, e umanizzano e rischiarano il ritratto
incontrandosi con la luce del sole che lo colpisce.
50. È la sua voce ecc.: "la voce ha l'impeto e la freschezza di un
tuono di maggio che annunzia tempesta ma anche promette un
rinverdire della terra e del ciclo".
51. Milanesi ecc.: indirizzandosi ai Milanesi, a esordio della sua
commossa e impetuosa orazione, Alberto rivela
un'immediatezza e un trasporto d'amor fraterno che certo non
aveva il netto e composto "Signori milanesi" del console.
52. Vi sovvien: vi torna in mente. Espressione ripetuta altre
cinque volte al principio di ognuna delle strofe successive,
ognuna delle quali rievoca un episodio di umiliazione subita dai
Milanesi.
53. calen di marzo: il primo marzo del 1162, quando Milano,
stretta d'assedio e allo stremo delle forze, mandò all'imperatore
acquartierato in Lodi gli otto consoli che con le spade sguainate
gli giurarono obbedienza, cui seguirono, tre giorni dopo, trecento
cavalieri che ai piedi dell'imperatore deposero gli stendardi, e
mastro Guitelmo (o, come dice un cronista, Guintelino) che a lui
consegnò le chiavi della città. - sparuti: emaciati, abbattuti, per
la fame patita e la pena del momento.
55. obedienza: "per effetto della dieresi ha suono stanco, e dice
prostrazione grande, sacrificio e strazio".
56. Cavalcammo: "o ci fosse anche Alberto fra quei trecento, o
sè accomuni, nel racconto e nell'animo, con quelli", come
dicono i cronisti, non "gli stendardi", come interpreta il
Valgimigli,
che ama credere in un altra voluta deviazione di Carducci dalle
fonti storiche.
60. E non fu nulla e non bastò.
 
 
 

LA BATTAGLIA DI LEGNANO

Post n°3 pubblicato il 26 Gennaio 2008 da agpcamuni
 
Tag: STORIA

Alberto da Giussano - 29 maggio 1176

La decisione di muovere contro il Barbarossa da parte della Lega Lombarda era maturata da tempo. Nell'ultima settimana di maggio era opinione diffusa che il nemico non fosse ancora arrivato a Bellinzona, quindi la mattina dello scontro una parte delle truppe era in marcia sulla strada di Legnano, mentre il grosso della fanteria era ancora di stanza Milano. Invece Federico I era molto piu' vicino di quanto pensassero, e dopo aver passato la notte accampato a Cairate si rimise in marcia per raggiungere Pavia e attraversare il Ticino.
In testa alla colonna dell'esercito tedesco quella mattina c'era un gruppo di cavalieri che andava dai trecento ai cinquecento, che passando a sud del comune di Busto Arsizio finirono per incappare in una squadra di esploratori lombardi.
Il primo contatto avvenne sul territorio di Borsano: documenti dell'epoca dichiarano che l'avanguardia tedesca era numericamente inferiore, ma presto fu raggiunta dal grosso dell'esercito imperiale.
Nonostante che al Barbarossa fosse stato consigliato di ordinare la ritirata egli attacco' con vigore i cavalieri lombardi e li costrinse alla fuga. Secondo i cronisti dell'epoca l'intenzione dei lombardi era quella di ripiegare fino al Carroccio, per ricongiungersi col grosso della cavalleria che era di stanza a Legnano, invece la ritirata si trasformo' in una fuga disordinata e l'esercito dei Comuni fu investito dal panico.
I cavalieri abbandonarono il campo lasciando scoperto un lato del Carroccio, mentre dall'altra parte restarono solo i fanti.
A quel punto le linee dei fanti si strinsero seguendo istintivamente il modello della falange latina , ma le cariche della cavalleria tedesca si fecero via via piu' devastanti.
Le prime quattro linee di difesa crollarono una dopo l'altra, mentre la quinta riusci' a resistere. Le cariche della cavalleria imperiale durarono a lungo, e nel frattempo i cavalieri lombadi che secondo una fonte attendibile si erano fermati a meno di un chilometro oltre il Carroccio, si ricongiunsero con le truppe fresche che nel frattempo erano arrivate da Milano.
I lombardi si riorganizzarono, quindi decisero di soccorrere i fanti che ancora difendevano il carro attaccarono di sorpresa le truppe gia' fiaccate dai ripetuti assalti.
Grazie alla forza ed al valore dei cavalieri che difesero il Carroccio, la bandiera resistette agli attacchi degli uomini del Barbarossa e cosi' la compagnia della Morte, guidata dal leggendario Alberto da Giussano, ebbe modo di sferrare l'attacco decisivo con i suoi cavalieri che in un'unica azione uccisero il portatore delle insegne imperiali e costrinsero il Barbarossa a fuggire abbandonando il proprio cavallo. La scomparsa dell'imperatore e delle insegne getto' nel panico il resto dell'esercito, che si lancio' in una disordinata fuga in direzione del Ticino.
I tedeschi scapparono per 14 chilometri, ma la rotta non salvo' le centinaia di guerrieri che furono trafitti o annegarono nel fiume.

Il sole ormai stava per calare e l'esercito imperiale aveva subito una delle sue disfatte piu' rovinose.

IL CARROCCIO

Il carro sacro di battaglia fu ideato dagli eserciti dei grandi centri economici e militari dell'alta Italia, che lo utilizzarono per circa trecento anni a partire dall'XI secolo.
L'uso del carro era diffuso soprattutto in pianura, dato che le dimensioni della sua struttura erano tali da renderne particolarmente difficile l'impiego sui pendii.

Le citta' che per tradizione ricorsero all'uso del Carroccio furono Brescia, Cremona, Milano, Padova e Vercelli, e in tutti i casi il sacro carro e' descritto come un mezzo dalle dimensioni superiori alla norma.
Per tirare i carri da guerra di ognuna delle cinque citta' sopra menzionate occorrevano da tre a quattro paia di buoi, perche' il pianale era tanto alto da permettere al capitano d'armi di controllare lo svolgimento della battaglia e al tempo stesso tanto robusto da resistere agli attacchi dei nemici e alle insidie dei campi.
Le descrizioni concordano pure nel menzionare per ciascuno dei carri un pennone, una campanella ed una croce:
in tutti i casi il pennone serviva a reggere il vessillo dell'esercito raccolto attorno al Carroccio, mentre la campana ("martinella" per i milanesi, "Nola" per i cremonesi e "Berta" per i padovani) serviva a scandire i tempi del trasferimento e a chiamare a raccolta gli armati durante la battaglia. La croce aveva invece il valore simbolico che anche oggi le e' universalmente riconosciuto dalla cristianita':
posta solitamente alla base del pennone serviva a richiamare i valori della fede e del sacrificio, ricordando al tempo stesso a fanti e cavalieri che Dio era sceso in campo al loro fianco.

Fonte: www.padania.it

 
 
 

No Razzismo

Post n°2 pubblicato il 26 Gennaio 2008 da agpcamuni
 

Lettera aperta a tutti coloro che odiano le culture locali

di Angelo Veronesi


L'amore che i padani portano per la pluralità delle culture, delle musiche, delle storie e delle lingue locali non ha nulla a che vedere con il nazionalismo di marca italiana.
L'italianità, come la si considera di solito, odia e disprezza tutte le manifestazioni culturali locali fino alla falsificazione storica e accademica bollando come "popolari", "volgari" e "infime" lingue e culture con millenni di gloriosa storia alle spalle.
Se durante il Risorgimento italiano fossero prevalsi i federalisti, oggi l'italianità vorrebbe dire pluralità di culture locali viste come un arricchimento stesso della specificità del nostro stato.
In Svizzera parlare il tedesco, il lombardo, il toscano, il romancio o il francese non viene vissuto come avvilente del cosiddetto sentimento nazionale o come anti-statale, ma come specificità stessa della loro identità legata a doppio filo con le culture locali che la compongono e ne sono parte integrante.
Purtroppo non è successa così in Italia e da più di 150 anni l'italianità odia e disprezza di un odio feroce e con metodi oppressivi da regime dittatoriale ogni forma di autonomia locale fosse anche solo culturale o linguistica.
Quando si parla di locale lo si fa sempre in un'ottica folklorica, quando non ironicamente, quasi con un sentimento compassionevole di qualcosa che si vorrebbe far diventare a tutti i costi passato, ma che fortunatamente non è ancora morto e resiste perchè e' parte di noi stessi.
Le culture locali non tolgono nulla nè all'italianità nè alle altre culture.
E' difficile farlo capire soprattutto agli italiani etnici che, pur parlando a casa loro la propria lingua locale (romano, napoletano, siciliano, pugliese, ecc..), non tollerano, e si sentono offesi, che qui da noi, in Padania, si parli lombardo, piemontese, veneto, tedesco o francese, come se togliessimo o offendessimo qualcuno parlando la nostra lingua madre.
Mai sentito dire da nessun padano che chi parla napoletano o romano deprime il sentimento nazionale.
Perchè noi padani dovremmo offenderci o incollerirci?
Noi amiamo le culture e le lingue locali e pensiamo che siano un arricchimento per le nostre società da valorizzare e promuovere.
L'italianità non è così.
Fino ad un recente passato l'Italia proibiva anche il solo parlare in lingua locale, come se chi lo facesse e l'aveva sempre fatto, dall'oggi al domani fosse diventato un criminale incallito degno delle patrie galere.
In Val D'Aosta addirittura il regime italiano sradicò le lapidi tombali scritte in arpitano o francese e ne installò di nuove scritte in toscano.
Sicuramente se in Italia vi fosse stato almeno un benchè minimo rispetto per le culture locali e non l'odio fossennato che c'e' stato, non vi sarebbero state leggi razziste come quella contro le lingue locali o addirittura quelle razziali contro le comunità locali di ebrei padani e italiani da sempre presenti sul nostro territorio.
L'Italia venne qui da noi e cambiò i nomi dei paesi perchè si sentiva -ingiustamente diciamo noi- offesa se a casa nostra parliamo la nostra lingua.
Visto che l'italianità è da sempre intesa come odio per le diversità e le pluralità, sono fiero di essere padanista ed amare invece le pluralità ed essere convinto oppositore di ogni becero nazionalismo centralista italiano.

 
 
 

Associazione Giovani Padani - Valle Camonica

Post n°1 pubblicato il 26 Gennaio 2008 da agpcamuni
 

L'associazione non ha finalità di lucro ed è finalizzata a promuovere la riscoperta e lo studio delle origini dei Popoli della Padania: a questa attività unisce quelle di ricerca sulle ragioni ecomoniche e politiche dell'Indipendentismo Padano e di riflessione sul significato delle lotte liberitarie di comunità e individui.

L'Associazione promuove inoltre tutte quelle iniziative volte a difendere il diritto allo studio, al lavoro ed alla casa nonché il recupero e la difesa degli usi, dei costumi e della cultura delle terre natie.

CONTATTACI:

La Sezione Camuna si trova a Capo di Ponte, in Via Italia n° 34

e-mail: mgp@giovanicamuni.com 
Fax: 02.700449839 oppure 0364.2631196 
Segreteria telefonica: 02.303124599

 
 
 
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