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Messaggi del 02/03/2018

 

Ma Pasolini non stava con i poliziotti da la stampa

Post n°14333 pubblicato il 02 Marzo 2018 da Ladridicinema
 

Il 1° marzo ’68 gli scontri di Valle Giulia che gli ispirarono la famosa (e fraintesa) poesia contro gli studenti borghesi

Gli scontri di Valle Giulia, a Roma, tra gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura e la polizia chiamata a sgomberarli: è il 1° marzo 1968

GIOVANNI DE LUNA

Si è aperto una sorta di supermarket Pasolini. Ognuno prende dai suoi lavori quello che gli serve: brandelli di frasi, spezzoni di poesie, piegando le argomentazioni pasoliniane alle proprie strumentalizzazioni, distorcendone il senso, in un’operazione che somiglia molto al modo in cui oggi si confezionano le fake news.  

 

Ma fu così anche 50 anni fa, quando ancora non c’era la Rete con le sue bufale. Fu subito dopo gli scontri di Valle Giulia, infatti, che Pasolini pubblicò, sull’Espressodel 16 giugno, la sua poesia Il Pci ai giovani. L’emozione suscitata dalle botte che erano volate il 1° marzo 1968 tra la polizia e gli studenti che avevano occupato la facoltà di Architettura era stata molto forte: dai moti antifascisti del luglio ’60 in poi, mai le forze dell’ordine erano state contrastate con tanta efficacia proprio sul piano della violenza fisica.  

 

Mentre lo stesso movimento studentesco si mostrava come sbigottito dalla radicalità degli scontri e dalla sua stessa capacità di reazione, Pasolini sentì il bisogno di prendere posizione rispetto a una situazione politica che presentava aspetti largamente inediti. Lo fece a modo suo, con una poesia che oggi come allora appare tutta immediatezza e spontaneità.  

 

Una poesia lunga che, nel discorso pubblico, fu precipitosamente etichettata come una invettiva contro gli studenti e una difesa dei poliziotti. L’invettiva c’era, esplicita fragorosa: «siete paurosi, incerti, disperati […] ma sapete anche come essere prepotenti, ricattatori e sicuri». E c’era anche la scelta a favore degli agenti: «Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti».  

 

Ma se non ci si ferma a questi versi e si legge il seguito della poesia…  

 

I versi che Pasolini dedica ai poliziotti sono esattamente questi: «E poi, guardateli come li vestono: come pagliacci, con quella stoffa ruvida che puzza di rancio, fureria e popolo. Peggio di tutto, naturalmente, è lo stato psicologico in cui sono ridotti (per una quarantina di mille lire al mese): senza più sorriso, senza più amicizia col mondo, separati, esclusi (in una esclusione che non ha eguali); umiliati dalla perdita della qualità di uomini per quella di poliziotti (l’essere odiati fa odiare)». 

 

Vestiti come pagliacci, umiliati dalla perdita della qualità di uomini: no, Pasolini non «sta con i poliziotti», e non poteva essere altrimenti, viste le persecuzioni a cui era continuamente sottoposto. In quel momento, Pasolini sta con il Pci e sta con gli operai. E quella poesia è una sollecitazione per gli studenti a lasciarsi alle spalle la loro appartenenza borghese e andare verso il Pci e verso gli operai. Quando questo succederà, l’anno dopo, nel 1969, quello dell’autunno caldo, Pasolini accetterà di fare un film sulla strage del 12 dicembre, quella di piazza Fontana, insieme con i giovani di Lotta Continua. Ma questo nessuno lo ricorda. 

 

Così come vengono ignorate le sue argomentazioni su fascismo e antifascismo, tanto da permettere a Salvini, in un comizio, di «usare» il poeta friulano per svelare «l’impostura» dell’antifascismo, tenuto in vita dalle sinistre per far dimenticare «i veri problemi del paese». Il ragionamento pasoliniano del 1974, quello da cui nascono le citazioni di Salvini, scaturiva dalla constatazione del successo ottenuto da due «rivoluzioni»: quella delle infrastrutture e quella del sistema di informazione. Le distanze tra centro e periferia si erano notevolmente ridotte grazie alle nuove reti viarie e alla motorizzazione; ma era stata soprattutto la televisione a determinare in modo costrittivo e violento una forzata omologazione nazionale, provocando un tramestìo che aveva colpito in alto come in basso, ridefinendo contemporaneamente gli assetti del potere e quelli dei suoi antagonisti.  

 

Il nuovo Potere, nonostante le parvenze di tolleranza, di edonismo perfettamente autosufficiente, di modernità, nascondeva un volto feroce e repressivo e appariva, «se proprio vogliamo conservare la vecchia terminologia, una forma totale di fascismo al cui confronto il vecchio fascismo, quello mussoliniano, è un paleofascismo». «Nessun centralismo fascista», aggiungeva Pasolini, «è riuscito a fare ciò che ha fatto il centralismo della civiltà dei consumi. Il fascismo proponeva un modello reazionario e monumentale che però restava lettera morta. Le varie culture particolari (contadine, sottoproletarie, operaie) continuavano imperturbabili a uniformarsi ai loro antichi modelli: la repressione si limitava a ottenere la loro adesione a parole […]. Ora, invece, l’adesione ai modelli imposti dal centro è totale e incondizionata. I modelli culturali reali sono rinnegati - l’abiura è compiuta -, si può dunque affermare che la tolleranza della ideologia edonistica voluta dal nuovo potere è la peggiore delle repressioni della storia umana». 

 

Per Pasolini c’era un nemico esplicito anche in questo caso: ed era il mercato, con la sua logica implacabile di «religione dei consumi»; esattamente quella che ha permesso alla Lega di avanzare con successo la sua proposta agli italiani di sentirsi tutti «figli dello stesso benessere», portando a termine la parabola «dalla solidarietà all’egoismo» che Pasolini aveva intravisto e aveva cercato inutilmente di contrastare.  

 
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La Siria che non vedete in tv: dall’incontro con Assad a Damasco ai bombardamenti di Ghouta Est da spondasud

Post n°14332 pubblicato il 02 Marzo 2018 da Ladridicinema
 

 

di Alessandro Aramu

I cosiddetti “ribelli” di Ghouta Est per tutta la giornata di ieri, come accade quotidianamente da anni, hanno lanciato missili su un ospedale civile, un carcere femminile e altre strutture di Damasco, provocando morti e feriti. Nella capitale vivono, come è noto, oltre 8 milioni di persone. Di tutto ciò non vi è traccia nelle corrispondenze dei giornalisti italiani. Nessuno racconta all’opinione pubblica che i ribelli (che in realtà sono sigle jihadiste che il buon senso, oltre che la correttezza giornalistica, imporrebbe di chiamare sic et simpliceter “terroristi”)  impediscono ai civili di abbandonare Ghouta Est attraverso i corridoi umanitari creati da Russia e Siria. Le Nazioni Unite sono le prime responsabili di questo crimine.

Sia chiaro: l’aviazione militare siriana sta bombardando pesantemente l’area di Ghouta Est, lo fa con la forza e la convinzione di proteggere la capitale e una popolazione esausta  (ripeto, parliamo di oltre 8 milioni di persone) che non tollera più i lanci quotidiani di missili da parte dei terroristi verso le proprie case. I civili di Ghouta Est sono vittime prima di tutto dei ribelli e non di Assad. E questo lo insegna anche la storia di Aleppo, città liberata e ritornata alla vita.

Lungi da me dal fare una santificazione del Presidente siriano che ha evidenti responsabilità, soprattutto passate. Lui peraltro è consapevole di aver commesso degli errori. Ad esempio, quando poteva, non ha avviato riforme in grado di assicurare più diritti e maggiore giustizia sociale nel paese. Ha tentato di farlo, anche con la via istituzionale, all’inizio del conflitto, ma era troppo tardi, Occidente e Monarchia del Golfo avevano già deciso di distruggere la Siria finanziando le rivolte armate. Tra le colpe anche quella di non aver combattuto la corruzione nel paese. Ma chi sa qualcosa di Siria, sa bene che lo stesso presidente è stato più vittima che artefice dell’ingordigia di certi funzionari del partito Ba’th. Quel partito dopo la guerra non potrà essere più lo stesso. Quando ha potuto, il presidente siriano ha fatto licenziare in tronco ministeri che si erano macchiati di gravi colpe. Lo ha fatto attraverso rimpasti di governo che era un chiaro segnale per l’opinione pubbblica siriana. Anche questo è passato sotto silenzio. Noi siamo stati tra i pochi a raccontarlo.

Sempre noi del Centro Italo Arabo e del Mediteraneo e della rivista Spondasud abbiamo incontrato Assad all’inizio del conflitto, era il 2012, quando per tutti era già spacciato. Le cronache, ma sarebbe meglio dire la propaganda, assicurava che “il dittatore siriano” sarebbe caduto da lì a pochi mesi. Le cose non stavano così ma era utile, da parte dei nemici di Assad, parlare di diserzioni di massa nell’esercito governativo e di collasso del sistema di difesa nazionale siriano. Era chiaramente falsità che la politica, anche nazionale, ha utilizzato per convincere e convincersi  dell’imminente fine di una guerra che, invece, tanti altri morti avrebbe provocato in seguito. Detto questo, in quell’incontro nella sua residenza privata, Assad disse che non escludeva di poter fare un passo indietro ma prima doveva sconfiggere i terroristi e garantire sicurezza e integrità al suo paese. E’ evidente che nessuna condizione per una sua uscita di scena si è avverata.

Assad eroe, Assad santo, Assad criminale, Assad dittatore. Solo il trascorrere del tempo consentirà di scrivere le pagine sulla figura di un presidente che è amato dalla maggioranza del suo popolo, non solo quello sciita ma anche quello sunnita che non ne può più delle ingerenze whabite dell’Arabia Saudita e della Fratellanza targata Qatar e Turchia. Poi ci sono anche le altre minoranze religiose, tra le poche a essere tutelate e difese nel complicato mondo arabo. La Siria è sempre stato un modello di integrazione, tolleranza e laicità. L’ho visto con i miei occhi. Lo sa chiunque sia andato laggiù.

Si parla di democrazia con un’idea tutta occidentale, poi quando si tenta di spiegare che in quel paese ci sono state elezioni politiche e presidenziali non truccate ma libere, come hanno potuto verificare molti osservatori internzionali che non fossero al soldo delle Nazioni Unite e delle loro agenzie corrotte, in molti sbrigativamente parlano di Regime, nell’accezione più negativa del termine.

Chi non frequenta certe aree del mondo non riesce a comprendere come la presenza di “uomo forte” alla guida di paese sia l’unica garanzia per tenere assieme una nazione che altrimenti sarebbe frazionata in più entità etniche e religiose. La Libia di Gheddafi è forse l’esempio più vicino a noi, il più facilmente comprensibile visto il caos in cui si trova quel paese dopo i bombardamenti voluti dalla Francia di Sarkozy.

La Siria è sotto attacco dei terroristi e Bashar al Assad è l’unico presidente oggi in grado di assicurare la libertà e sovranità di una nazione che non ritornerà mai pià come prima. E per salvare la Siria deve utilizzare le armi. Perchè le armi di Assad fanno ribrezzo e quelle dei curdi dell’ YPG sono valorose? Non sono forse i curdi quei coraggiosi combattenti che hanno perseguitato i cristiani in alcune aree sotto la loro influenza? Perchè i bombardamenti su Mosul e Raqqa non vi hanno indignato come queli su Ghouta Est pur avendo fatto una quantità di morti tra i civili ben maggiore? E perchè non vi stupite dei disastri che sta facendo l’aviazione americana Deir ez-Zor per conquistare una zona che altrimenti finirebbe nelle mani dell’esercito siriano?

Quete cose gli inviati in Medio Oriente, con poche eccezioni, non ve le raccontano. Preferiscono andare a pescare le notizie sui siti dei gruppi armati dell’opposizione, quei gruppi jhadisti che sarebbero ben felici di tagliare la gola a noi europei, perchè il nostro stile di vita offende la loro idea di Islam radicale e oscurantista. Che Allah li punisca e li faccia andare all’inferno, diceva quella donna all’angolo della strada della capitale in una fredda sera di febbraio del 2015. Una donna, come le tante che quei terroristi hanno comprato e stuprato e anche ucciso dopo aver soddisfatto i loro bassi istinti. Carne da macello per sollevare l’umore dei terroristi. Povere donne. E anche poveri noi, complici di questi criminali attraverso un sistema dell’informazione malato e corrotto.

 

 

Alessandro Aramu – Giornalista professionista, direttore della Rivista di geopolitica Spondasud. Autore di reportage sulla rivoluzione zapatista in Chiapas (Messico) e sul movimento Hezbollah in Libano, ha curato il saggio Lebanon. Reportage nel cuore della resistenza libanese (Arkadia, 2012). Per il quotidiano La Stampa ha pubblicato il reportage “All’ombra del muro di Porta di Fatima”, mostrando per la prima volta in Italia la nuova barriera che ha diviso il Libano da IsraeleÈ coautore dei volumi Syria. Quello che i media non dicono (Arkadia 2013), Middle East. Le politiche del Mediterraneo sullo sfondo della guerra in Siria (Arkadia Editore 2014) con la prefazione di Alberto Negri. E’ autore e curatore del volume Il genocidio armeno: 100 anni di silenzio – Lo straordinario racconto degli ultimi sopravvissuti (2015), con Gian Micalessin e Anna Mazzone. Autore, insieme a Carlo Licheri, del docu -film “Storie di Migrantes” (2016), vincitore del premio speciale del pubblico all’ottava edizione dello Skepto International Film Festival. E’ Presidente del Coordinamento Nazionale per la Pace in Siria, responsabile delle relazioni internazionali del Centro Italo Arabo e del Mediterraneo Onlus, Vice Presidente del Centro Italo Arabo e del Mediterraneo della Sardegna.

 
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15 - GIUSTIZIA

Post n°14331 pubblicato il 02 Marzo 2018 da Ladridicinema

La rivendicazione di una nuova legislazione più attenta ai bisogni delle fasce economicamente più deboli della società sarebbe inutile senza un sistema giudiziario che ne possa garantire il rispetto con efficacia e celerità.
Anche la giustizia è un bene comune, ed è per questo motivo che riaffermiamo l’essenzialità dell’amministrazione pubblica della giustizia come argine di difesa dei diritti, rigettandone ogni forma di privatizzazione.
Migliaia di persone, negli ultimi anni, si sono trovate colpite da procedimenti penali o misure di polizia perché lottavano per il diritto all’abitare, al lavoro, alla salute, allo studio, per il rispetto dell’ambiente e del territorio. In pratica, grazie ad una politica corrotta e a certa stampa, la “legalità” ha colpito chi lottava per la giustizia sociale. Invece del riconoscimento politico delle rivendicazioni, la risposta dello Stato e della stessa magistratura è stata solo repressiva: chi lotta viene processato e arrestato, chi è bisognoso o più semplicemente ha comportamenti considerati, a ingiusto titolo, devianti o pericolosi, viene represso e condannato.
L’ovvia conseguenza è che le carceri, come ci dicono le statistiche, sono sovraffollate di immigrati, malati psichici, persone senza dimora e tossicodipendenti.

Al contrario, quando sono i settori popolari a reclamare giustizia, questa non arriva mai, a causa del sostanziale classismo del nostro ordinamento giuridico. Anche l’accesso ai tribunali amministrativi è costosissimo; non solo i privati cittadini, ma anche i piccoli comuni spesso non riescono a far valere i propri diritti contro le amministrazioni più forti o, peggio, i privati con maggiori mezzi economici a disposizione (pensiamo per esempio alla multinazionale Tap in Salento).
Il costo della giustizia ordinaria è aumentato anche a causa di marche da bollo e di contributi unificati sempre più esosi; i cittadini sono inoltre costretti, per molte materie, a tentare accordi stragiudiziali (con mediatori o arbitri a pagamento). L’obiettivo è scoraggiare totalmente il ricorso alla giustizia da parte delle classi popolari.
Le campagne d’odio contro il diverso, visto come deviante,  portate avanti anche da alcune amministrazioni locali, istigano all’acquisto di armi. Sono così triplicate in dieci anni le licenze per il porto d’armi, arrivando al dato allarmante che quindici italiani su cento detengono una pistola o un fucile.

Per questo lottiamo per:
• l’amnistia per i reati legati alle lotte sociali, sindacali e ambientali;
• la depenalizzazione di una serie di reati, ereditati dall’ordinamento fascista del Codice Rocco e da sempre nuove leggi speciali;
• la riforma di alcune misure sanzionatorie e di regole procedurali (fogli di via, sorveglianze speciali, avvisi orali);
• l’abrogazione delle norme che hanno aumentato il potere dei sindaci in materia di sicurezza e decoro urbano (es. cosiddetto Daspo Urbano previsto dalla legge Minniti);
• l’abrogazione della legislazione speciale di natura emergenziale risalente agli anni 70 e 80 (legge Reale);
• la legalizzazione delle droghe leggere e la depenalizzazione del consumo di sostanze;
• il contrasto dei fenomeni corruttivi diffusi e della reimmissione di capitali di provenienza mafiosa, inasprendo le pene e allungando i termini di prescrizione per riciclaggio e autoriciclaggio;
• l’educazione all’antimafia, chiedendo ai Comuni di ottemperare all’obbligo di informare la cittadinanza sui beni confiscati, e favorendo le amministrazioni che risocializzino questi beni;
• la smilitarizzazione della guardia di finanza e la trasformazione in polizia specializzata in contrasto alla corruzione, all’evasione ed elusione fiscale e tributaria;
• l’introduzione dei codici identificativi per gli agenti di polizia in servizio di ordine pubblico;
• la modifica della insufficiente legge sul reato di tortura, approvata dal parlamento a luglio 2017;
• contrastare fortemente la libera disponibilità di armi;
• l’abolizione dell’ergastolo, sia condizionale che ostativo: l’assenza di ogni possibilità di uscita è incompatibile con la finalità rieducativa della pena, prevista dall’art. 27 della Costituzione;
• l’abolizione del 41 bis, riconosciuto quale forma di tortura dall’ONU e da altre istituzioni internazionali, adottando al suo posto misure di controllo, per i reati di stampo mafioso, allo stesso tempo efficaci ed umane, che non permettano la continuità di rapporto con l’esterno
• l’emanazione di un provvedimento di amnistia e indulto che risolva il problema del sovraffollamento carcerario;
• una riforma della vita carceraria, soprattutto attraverso un più ampio utilizzo delle misure alternative e di validi percorsi per il reinserimento dei detenuti;
• l’abbattimento dei costi di accesso alla Giustizia al fine di  consentire la tutela dei propri diritti anche alle  fasce economicamente più deboli della popolazione.

 
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14 - UNA NUOVA QUESTIONE MERIDIONALE

Post n°14330 pubblicato il 02 Marzo 2018 da Ladridicinema

La crisi in cui versa il nostro Paese da oltre un decennio colpisce con particolare violenza i territori storicamente più svantaggiati, il Sud e le Isole. Il tasso di disoccupazione in queste aree è quasi il doppio di quello nazionale; un giovane meridionale su due è senza lavoro, a fronte di livelli di istruzione e formazione molto alti. I salari sono mediamente più bassi e il lavoro è più precario, a fronte di un costo della vita che negli ultimi anni è salito vertiginosamente, specialmente nelle aree metropolitane. Il disinvestimento dello Stato dai settori strategici, quando non è coinciso con una svendita, come nel caso dell’ILVA, ha trasformato porzioni enormi di territorio, come Bagnoli, in cimiteri industriali, preda di interessi speculativi senza alcuna prospettiva di sviluppo, martoriati da livelli altissimi di inquinamento ambientale. L’inquinamento è l’altro denominatore comune del Sud, da Bagnoli all’ILVA, dalla mega discarica di Terzigno al fiume Sarno, a Priolo; quando i territori non sono inquinati da residui industriali o da discariche, sono selvaggiamente occupati da foreste di pale eoliche, impianti di produzione di energia da CDR, oppure diventano territorio d’elezione per lo stoccaggio di scorie nucleari, o per l’allargamento e la costruzione di nuove basi militari.

I livelli sanitari garantiti sono inferiori alla media nazionale, così come le risorse destinate a istruzione e formazione che nel Sud e nelle isole diminuiscono. In questo contesto è comprensibile la ripresa drammatica dell’emigrazione da Sud a Nord – a volte forzata, come nel caso degli insegnanti – e dell’emigrazione verso l’estero, che vede i meridionali e gli isolani in testa alle classifiche di chi parte per non tornare. Noi riteniamo che la questione meridionale debba tornare ad essere questione centrale sul piano nazionale ed europeo. Va invertita la rotta: il Sud e le Isole non vanno visto più come un problema, ma come una grande opportunità per il paese, liberandone positivamente le energie.

Per questo lottiamo per:

  • una politica di investimenti pubblici in settori produttivi mirati allo sviluppo dei territori più svantaggiati, contrastando il ricatto inaccettabile che vorrebbe barattare il lavoro con la salute e la tutela dell’ambiente, e perché le ragazze e i ragazzi del Sud abbiamo il pieno diritto di studiare e lavorare nella propria terra;
  • livelli sanitari realmente equiparati a quelli del resto del paese;
  • una rete di infrastrutture e trasporti pubblici radicalmente potenziata;
  • un forte investimento in istruzione e formazione orientato al Sud;
  • la fine di una strategia che vede nel meridione una mega discarica, o una mega centrale elettrica per il paese;
  • la difesa dei territori dagli appetiti speculativi di imprenditori nostrani e grandi multinazionali.
  • l’affermazione di un modello di economia alternativo, che accanto a produzioni qualificate valorizzi la bellezza, la storia, la terra, le nuove tecnologie, la cultura di città che sono da sempre luoghi di pace, crocevia di popoli e culture.

 
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Novità in libreria/ Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso da spondasud

Post n°14329 pubblicato il 02 Marzo 2018 da Ladridicinema
 

 

Un Paese sospeso tra un passato fragile e un futuro incerto: questa è oggi la Libia. Il presente non c’è. Manca dal 2011, quando gli attori internazionali, con il consenso delle Nazioni unite, decidono di intervenire nelle rivolte in corso nel Paese per mettere le mani sulle sue risorse. Oggi quelle stesse mani che volevano giocare con le pedine del nuovo risiko libico si ritrovano “con un pugno di mosche”. Uno Stato controllato dalle milizie, in piena crisi economica, terreno fertile per gli jihadisti e per i gruppi criminali che lucrano sul traffico dei migranti diretti verso l’Italia.

Le rivolte del 2011 hanno decretato la fine del potere di Gheddafi chiudendo un capitolo durato più di quarant’anni. Qualcuno, allora, si era illuso che il Paese potesse incamminarsi verso un sistema democratico. Non è stato così e oggi stiamo pagando il conto dei nostri “calcoli errati”.

Che ne sarà, dunque, della Libia? Come siamo arrivati a questo punto? A che gioco stanno giocando le potenze mondiali? Quali sono i rischi che stiamo correndo? Ripercorrendo le fasi salienti della storia del Paese fino ai fatti più recenti, il volume Incognita Libia. Cronache di un Paese sospeso (Franco Angeli Editore) di Michela Mercuri, con la prefazione di Sergio Romano, spiega incognite e contraddizioni di una nazione che cerca faticosamente di uscire da una fase difficile della sua storia.  Michela Mercuri, docente universitario, editorialista per quotidiani e commentatrice per Rai Radio 1, è esperta di Mediterraneo e Medio Oriente e analista di politica estera.

Il libro di Manuela Mercuri evidenzia come la Libia sia oggi pericolosamente in bilico tra un passato fragile e un futuro incerto, preda di divergenti interessi occidentali, delle velleità degli jihadisti e dei giochi sporchi di gruppi criminali. Con la popolazione in sofferenza per una grave crisi economica e migliaia di disperati che rischiano la vita per sfuggire via mare.

<<Michela Mercuri appartiene al gruppo degli storici italiani che meglio conoscono la storia libica dalla guerra italo-turca del 1911 alle sue fasi più recenti. Ma è probabilmente la studiosa che più attentamente ha seguito le vicende libiche e italo-libiche dalla guerra civile del 2011 ai nostri giorni. I risultati delle sue analisi sono spesso sorprendenti.>>
Sergio Romano – storico, scrittore, giornalista e diplomatico italiano

Indice

Sergio Romano, Prefazione
Le fratture del passato che ritorna
(Tra Tripoli e Bengasi. Frammenti dell’Impero ottomano; La tribù. Attore fondante della Libia; L’occupazione coloniale italiana e la mai raggiunta unità; La riconquista fascista; La Libia di re Idris, il “monarca suo malgrado”; Note)
La Libia di Gheddafi
(La rivoluzione del rais; La Jamahiriya. Terza via universale del nulla istituzionale; La società divisa; La religione e lo “strano rapporto” con l’islam; L’economia di un rentier State; Note)
La primavera araba libica e le sue anomalie
(Le cause; Gli attori protagonisti; La natura del conflitto; Il contesto; Le prime conseguenze; Note)
Sarraj, Haftar e gli altri. Chi comanda davvero in Libia?
(La spaccatura tra Tripoli e Tobruk; Il progetto unitario a marchio Onu; Un governo che non governa; Haftar. L’uomo in divisa che vorrebbe prendersi la Libia; Chi sta con chi. Il sistema di alleanze regionali; Note)
Il grande risiko internazionale
(La Francia a caccia di petrolio; Barak Obama e il fallimento del “leading from behind”; Putin e il tassello mancante della politica egemonica; Europa, la grande assente; Note)
I rapporti italo-libici. Una storia complicata
(Da Moro a Berlusconi. Quello che sappiamo e quello che non sapremo mai; Il petrolio e altri “affari di famiglia”; La guerra del 2011. L’Italia nella “coalizione dei coscritti”; L’accordo sui migranti. Un piano per evitare le morti in mare che fa acqua da tutte le parti; Note)
Da al-Qaeda allo Stato islamico. La riemersione del jihadismo libico
(La repressione del rais e l’opposizione islamista; Le sollevazioni del 2011 e la deriva securitaria; Jihad andata e ritorno. Il radicalismo libico; Lo Stato islamico; Le possibili evoluzioni del fenomeno jihadista; Note)
Conclusioni
(Oltre lo Stato islamico. Ci siamo davvero liberati del terrorismo?; Il petrolio e la crisi economica. Rinascerà l’ex rentier State?; La Russia. Il nuovo paciere del Mediterraneo?; L’Italia è dalla parte sbagliata?; Che ne sarà della Libia?; Note).

 
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Film nelle sale da ieri

Post n°14328 pubblicato il 02 Marzo 2018 da Ladridicinema
 

 
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