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SINDACO SUBITO!!

Post n°30 pubblicato il 31 Ottobre 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

Sul suo passaporto c’è scritto: attore. In verità è anche regista, sceneggiatore, riduttore di romanzi per la televisione e autore teatrale. Alcuni dicono di lui che dovrebbe fare solo l’attore; altri pensano che dovrebbe limitarsi allo scrivere; i più maligni sostengono che dovrebbe esonerarsi dalla regia teatrale.

Chissà come il maestro di Fiesole saprebbe ritagliarsi indosso gli abiti a sindaco di Roma.

Ipotesi irreale, ma verosimile e auspicabile per una città come Roma.

Nell’epoca delle candidature “novella 2000”, la nomina di Giorgio Albertazzi al Campidoglio donerebbe  dignità alla rappresentatività nostrana in generale, e alla amministrazione capitolina in particolare.

Dobbiamo intanto augurarci che la baraonda del toto nomine post vacanziero si risolva  in uno shakespeareiano molto rumore per nulla, e nessuno come Albertazzi potrebbe interpretarne… le soluzioni.

Alleanza Nazionale sa che con Storace e Alemanno non andrà da nessuna parte, e via della Scrofa peccherebbe di intelligenza se tentasse di scalare il Campidoglio dopo il trattamento dell’elettorato romano alle regionali; avrebbe ragione Teodoro Buontempo nell’accusare il centro-destra di intraprendere la tattica dello “sconfittismo-vittorioso”, destinato a candidare uomini battuti in partenza ma in grado di incassare notorietà in breve tempo. Ciò che in fondo Baccini – che per fortuna pare aver rifiutato spontaneamente  l’offerta – e Luciano Ciocchetti avevano pensato con la Lista per Roma come laboratorio del nuovo grande Centro nazionale.

Per la città eterna, Albertazzi non è più opportuno del professor Zichichi? E non potrebbe meglio rivaleggiare la popolarità a basso costo raccolta dall’uomo delle notti bianche? Magari a suon di notti di mezze estati ed i suoi sogni.

L J

 
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Italiani guardoni incurabili

Post n°28 pubblicato il 18 Luglio 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

Esistono gli integralisti del velo, e gli integralisti del veDo: non nudisti integrali ma guardoni integralisti.
La nostra liberalità non sa più vendersi se non attraverso la brochure del voyeurismo sessuale, del feticismo “guardone” che guarda ma non tocca, e per finire dell’onanismo più becero. La campagna Piaggio recentemente apparsa su copertine e muri cittadini è l’emblema forse mai raggiunto di questa deriva non all’osceno, ma al gratuito. Cos’è la gratuità se non vizio peggiore dell’oscenità?
Nell’immagine “geniale” del pubblicitario Piaggio (mi chiedo quanto danaro spetterà ad un cacasenno di tal fatta) appaiono le natiche in dettaglio di una giovane per l’occasione misurata con fettuccia e meticolosità dalle mani esperte del tecnico che le ritaglierà sul vaso di Pandora una sella per il ciclomotore. Roba da piangere insomma, dove alla mancanza di fantasia si è aggiunta l’ignoranza totale dell’abbecedario di comunicazione. Di solito i messaggi pubblicitari sfruttano la metafora, si sforzano di creare un doppio piano del senso nell’utilizzo di anafore o altri espedienti semiotici, mai di tracciare banalmente inutili e vuote tautologie come il nesso “sella-culo”. Un bambino avrebbe inventato qualcosa di meglio per l’azienda, e senza offrire ulteriori spunti d’erotismo a buon commercio a questa inguaribile società di onanisti impenitenti.
In un’epoca dove la comunicazione pubblicitaria si afferma come rigorosa scienza, appaiono del tutto banali e puerili questi esempi di reclutamento – per fini commerciali di eterogenea natura- dall’arsenale genericamente anatomico, specificamente ginecologico. Così specificamente ginecologico, che pare diffondersi a macchia d’olio la tendenza ad un “guardismo” flagellatore, ad un feticismo vivisezionante che preferisce osservare l’organo (o la parte) più che la donna; che accomuna le psicosi del mostro di Firenze al commesso di Canevattì.
Società aperta quanto ci pare; ma chi ci suggerirà che mostrare il culo nudo e crudo finanche di una bella giovane per vendere uno scooter è in fondo in fondo il segno di una malattia collettiva prima ancora che una grandissima stronzata? Agli integralisti del velo ci opponiamo noi. Occidentali integralisti della velina. Senza velo se possibile.

 
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La Guerra dei Mondi

Post n°27 pubblicato il 08 Luglio 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

A Londra è atterrato di nuovo il nemico dell’altro mondo, portando morte e terrore in mezzo alle nostre case. Forse stavolta l’alieno non ha raggiunto l’effetto sperato di seminare panico come un germe infettivo.

La reazione di Londra è stata stoica, con gente che non si strappava le vesti, con media che non caricavano oltre il dovere d’informazione la recrudescenza delle immagini. È indubbio che se il terrorismo globale ha una natura parassitaria - che opera il logoramento del nemico utilizzando strumenti di quest’ultimo –, il modo migliore per debellare il parassita è impedirlo nell’appropriazione di tali mezzi.

Molte voci difendono il diritto d’informazione – anche quella drogata e spettacolarizzata che fa il gioco di Al Qaeda – prima di ogni diritto alla vita, alla sicurezza e del “diritto” boteriano della Ragion di Stato.

La Bbc ha preso esempio dagli Usa che - oscurando le immagini di marines rimpatriati dal fronte dentro una bandiera - altro non fanno che servire quella “Ragion di Stato” che per il Gesuita Giovanni Botero “anche  tra l’api regna e forma lor di dominare insegna”.

Orson Welles con la trasmissione radiofonica ispirata da La Guerra dei Mondi dello scrittore H.G. Wells, creò la sua leggenda personale innescando un fenomeno di panico totale a livello nazionale che ebbe – sessantasette anni fa – carattere essenzialmente sperimentatale e al più esorcizzante; Welles scoprì come gli alieni potevano vincerla anche senza esistere. Col solo esistere del sistema mediatico.

Oggi, dopo il periodo incluso tra l’11 settembre di New York e il 7 luglio di Londra,  il valore e l’influenza

dei media sono irrevocabilmente mutati, così come la stessa finzione e verità hanno finito per diluirsi in una mescolanza insolubile. È per questo che la lotta al terrorismo deve passare attraverso il controllo dell’informazione e dei media, vanificando quel cavallo di troia entro cui si annida la strategia del terrore islamico.

Nelle sale italiane è in scena l’ultima fatica di Steven Spielberg – che riprende l’eredità di Wells e Welles - nella sua versione cinematografica de La Guerra dei Mondi: il cineasta di Cincinnati utilizza l’incontro-scontro violento tra la nostra cultura ed una cultura aliena, rendendo chiaro il suo intento metatestuale.

Se da sempre al cinema, come nell’arte in genere, la metafora serve per comunicare realtà, mai come oggi il cinema si è inestricabilmente confuso con la vita, la fiction con il dossier, la Città delle Luci con le Luci della Città.

Gli alieni cinematografici non ci immergono più – com’era nelle intenzioni del cinema d’origine – in dimensioni oniriche, fantascientifiche ed in qualche modo esorcizzanti. Dopo l’11 settembre anche il cinema esce stravolto, non più deputato ad una diegetica della fantasia bensì costretto ad introdurci ad una realtà che supera ormai ogni confine e capacità d’immaginazione.

Se non ché i londinesi sono apparsi assuefatti dal terrore - come ogni altro occidentale del terzo millennio bersaglio di questa vigliacca guerra; vaccinati per certi versi come non potevano esserlo gli occhi terrorizzati di Ground Zero.

Ecco che una sorta di atarassia o vaccinazione rappresenterebbe un letale affronto agli alieni del terrore, da neutralizzare in ultimo oscurando le telecamere sulle loro bravate.

La classe politica italiana dovrebbe invece, in vista della votazione sul rifinanziamento delle truppe, prendere esempio dal Tom Cruise de La Guerra dei Mondi che non si lascia terrorizzare dagli alieni: “Scappare, è questo che uccide. Ed io voglio vivere da morire!”

 

 

 

 
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La Forma e le Sostanze

Post n°26 pubblicato il 19 Aprile 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA


Nuovi assetti sorreggono la rappresentanza politica dopo il cataclisma Mani-pulite.

Un bipolarismo “apparente” da allora è stato citato come legittimo successore di quel Moloc cui la storica Democrazia cristiana sacrificava - coi tripli, quadri, penta partiti e parallele convergenti-, la sana alternanza rappresentativa.

Nella seconda Repubblica, d’altro canto, la polverizzazione degli storici riferimenti valoriali ha determinato una politica che tradisce il suo significato d’origine nel vocabolario della rappresentanza: chi/cosa dovrebbero rappresentare i partiti nella società orfana delle ideologie? Che funzioni restano ai partiti storici all’indomani dell’ultimo “breve” e “sterminato” XX secolo? Quali valori o idee riusciremo a conservare oltre quello spartiacque che per Francis Fukuyama si chiama “fine della Storia”?

Oggi sembra che la lineare rappresentazione dell’elettorato, sulla base di una “condivisione” di Valori, stia estinguendosi, determinando una politica sempre più incapace di rappresentare se stessa: costretta a commissionare il volto - immagine e contenuti dei propri programmi-, a terzi.

Attraverso questa “traslitterazione”, gli anni ’90 hanno favorito il ricorso alla chirurgia estetica, trapiantandola dalla sfera individuale alla sfera pubblica. Il  bisturi simboleggia la crisi d’identità della politica, allegorizzandola con la crisi intima (e estetica) dell’individuo novecentesco. Conseguenza pure di questo generazionale disagio –o “disturbo del comportamento”- è la confusione fra “jet set” e tribune politiche; fra “vetrina” e sede di partito. Fra cortina e contenuto.

Una decadenza da fa rimpiangere per assurdo l’era Tangentopoli, le cui aberrazioni –se non altro-, erano l’estrema ratio di dirigenti che non riuscivano a far quadrare il cerchio: l’ingerenza degli imprenditori nella politica – come degenerazione delle “rappresentanze d’interessi”-, trovava il suo “perché”, nell’idea –storicamente fallita ma originariamente nobile- di un’armonia sociale di memoria “corporativista”; in tal senso Tangentopoli potremmo considerarla come un corporativismo fascista, degenerato dall’egoismo utilitarista, e sterilizzato fino all’antisocialità.

Tra gli altri responsabili del declino del sistema rappresentativo, un ruolo decisivo gioca la crisi del “vivaio” nei partiti politici. La politica soffre lo stesso deficit “d’allevamento” che vede le squadre di calcio versare capitali all’estero per l’acquisto di personale specializzato. Rimpingua i propri scranni dal mercato del “real Tv”, sacrificando idee e valori non alla trasversalità (che sarebbe d’auspicio), ma ad una neutralità spesso  insipida e disorientante per gli elettori. E nella Babele della polis, un ruolo importante giocano i media in genere, la televisione in particolare: esasperando e rimescolando i simulacri dei rapporti politici cosicché non è possibile nessun distinguo fra “elettore” e “spettatore”, fra “politico” e “intrattenitore”.

Molti dichiarano impropriamente Silvio Berlusconi emblema di questa nuova èra, quando la sua esperienza è più quella di un deus ex machina, di qualcuno che ha agito sulla trama politica imponendo se stesso dall’alto. Da sinistra, il meccanismo si presenta all’inverso: la classe dirigente commissiona a “terzi” – “ha mandato Marrazzo” -, declassando al baratro la politica.

E Francesco Storace requiescat in pace. Colpevole di merito e… d’orbace.

 
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Il funerale MediAvale

Post n°25 pubblicato il 05 Aprile 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

È accaduto questo nel triste circo dell’abbuffata mediatica dei nostri tempi. Un Uomo, uno di quelli grandi, muore e si porta nella tomba il pianto filisteo di un popolo (mi riferisco a quello italiano) indegno. Come giustamente scrive Marcello Veneziani nel suo ultimo libro, Giovanni Paolo II rappresenta il Vinto per antonomasia del ‘900, al di là della innegabile fama internazional-popolare.
Ha attirato sul proprio carisma irresistibile, la fede e l’empatia di popoli –quelli del secondo e terzo mondo- forte di una evangelizzazione, unica capace di riscattare il senso di povertà, di inadeguatezza sociale. Dall’altro, nelle lande opaline del nostro mondo, non ha attirato su se – e in specie sul suo messaggio- che uno sterile “affetto paterno”, capace di misurarsi, per l’efficacia e l’influenza prodotte, con altri “nonni” della tivù italiana dei giorni nostri; in Italia, è divenuto la quint’essenza di un “nonno televisivo” e nulla di più; capace di competere pateticamente con gli altri nonni della Tv, come nonno Libero-Banfi, e non prima dell’annunzio di morte.
Non si può spiegare, il fenomeno di questo insospettato “assedio” in Piazza San Pietro, se non attraverso una diagnosi critica del sistema mediatico, ed una considerazione –anche non troppo profonda- del sempiterno adagio tutto italiano del volemose ‘bbene.
La morte del Papa ha potuto così prendere posto nei copioni del reality “la Fattoria”, provocando, ne più ne meno, quella commozione di bassa –bassissima suggestione- che il “pubblico a casa” è abituato a godere nei vari format del “mio pianto libero”, vedi Carrambà, De Filippi… e delle prefiche da telecomando.
Le braccia armate di video telefonini, istantanee e video camerine sono la triste conferma ufficiale della giusta lettura –non edificante- di questo fenomeno: l’italiano ‘doveva esserci’, presenziare allo
spettacolo raro (ogni morte di Papa) di una morte eccellente, con lo stesso voyeurismo morboso che lo costringe a rallentare in autostrada per guardare la vittima sul bitume. L’italiano stavolta restava fermo nella folla, e il morto “traslava” attorno la sua curiosità, mista a bassa –o perlomeno tarda- suggestione.
Contraddizioni del secolo, si sta accompagnando l’esequie di un uomo, con un piagnisteo indegno, spiegabile certamente più tramite una “psicologia delle folle” tardiana, tosto che per un sentimento sincero, e non soltanto motivato sulla scorta di una drogata (dai mass media) suggestione di massa.
Quanto a coloro che hanno attraversato il mondo per dare l’ultimo saluto a colui che, unico fra i predecessori, andò a cercarli portando loro il vangelo e il messaggio del riscatto nell’Amore, tanta stima e rispetto.
Tutti gli altri – italiani e romani in testa- hanno potuto approfittare dell’evento solo per rompere la monotonia dei fine settimana della Capitale, ritrovandosi a dar luogo ad un carnevale funereo dove col Pontefice, accluderanno nella tumulazione ogni residuo del suo messaggio meta-evangelico, già violentato dalla recente Costituzione Europea.
Un “Vinto”, scrive Veneziani, al quale non s’è dato nemmeno l’onore della armi, ma solo il tedio acre di opportuniste lacrime di coccodrillo; i manifesti della Margherita –d’omaggio ma chiaramente pre-elettorali-, affissi per tutto il centro dalla Domenica mattina (preparati con necessario anticipo sulla morte del Papa), meritano una denuncia di sdegno più perentoria.
Finito il grande circo mediatico, l’italiano afflitto dimenticherà il messaggio di Karol, così com’è stato fino un attimo prima della sua morte; si daranno trasmissioni alla sua memoria, retrospettive sulle sue “battaglie” (e solo retrospettive saranno), e si ricorderà il giorno dei suoi funerali medi(A)vali tralasciando come inutile dettaglio venticinque anni di scuola spirituale; così che se la sua morte diventa un evento per tutti, la sua vita non è che l’esempio per pochi. La storia del suo ispiratore più illustre, che ebbe tanti amici solo in cima ad una croce, ecco che si ripete.

 
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Il Processo - di Franz Kafka per Boccaccini

Post n°24 pubblicato il 29 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

In dicembre (2003), al teatro Sala 1 di Porta San Giovanni è andato in scena il Processo di Franz Kafka, diretto dal Claudio Boccaccini. Dopo il successo per la rappresentazione in Campo de' Fiori, del suo Giordano Bruno, il regista raccoglie nuovi consensi di pubblico, trattando la materia narrativa non certo di facile lavorazione di uno dei maestri della letteratura del secolo appena scorso. Portare Kafka in scena significa comlplicarsi la vita già per l'ambito prettamente scenografico, e Boccaccini è riuscito ad affrancarsi da gravi oneri affidandosi alla scelta del Sala 1, teatro endemicamente affine alle esigenze del rigore alla fonte letteraria; è questo un dato importante se si tiene conto che Kafka è passato alla Storia della Letteratura grazie ad uno stile che non permette ai lettori mai di discernere tra reale ed immaginario, e ancora meno di fissarne universalmente una univoca significazione letterale, per quanto insigni esegeti -come Theodor Adorno nei suoi Appunti su Kafka del '53-, abbiano difeso una simile eventualità.

L'atmosfera del Sala 1 è dominata dalle volte romaniche del complesso della Basilica di San Giovanni, e ciò ne rende ottimo l'utilizzo per la rappresentazione del capitolo nono Nel Duomo; la platea un pò infelice nella sua sistemazione, per un pubblico pagante, è perfettamente funzionale al senso di claustrofobia che nel romanzo ragna; le volte, gli archi, e le colonne creano formidabili coni e zone d'ombra simili a quelli da cui, tra le righe di Kafka sbucano d'improvviso personaggi improbabili come il cancelliere capo. La scelta topica della rappresentazione è del tutto esente da leggi che possano definirsi casuali, e, addirittura il pubblico è inserito in scena come inconsapevole comparsa a rappresentare quegli astanti che nel romanzo assistono alle udienze in tribunale del protagonista Joseph K.; Kafka li ritrae come spettatori angariati con le spalle al muro e il soffitto sulla testa. Le condizioni affini sono non casuali e di forte suggestione, capaci di far eco a quel discorso di affettività - che sempre Adorno rimarcava - secondo il quale il processo d'identificazione dei lettori con i personaggi, va oltre ogni limite nel caso kafkiano e dove per inciso, sostiene Adorno, il lettore o lo spettatore tramite l'estro di Boccaccini, "teme che ciò viene narrato gli si possa avventare contro, per quello stesso investimento affettivo che in cinematografia può esser dato dall'effetto filmico della locomotica". Il disappunto dell'uomo e il suo scombussolamento dinanzi ai mostri che l'era moderna ha ingenerato è ciò che Kafka ha evidenziato nel suo romanzo, ma essendo la sua un'arte e non una scienza esatta, anzi proverbialmente umana, è pure possibile scorgervi innumerevoli angoli di dubbio, di contraddizione, di vera e propria -riferendosi in particolare alla tecnica stilistica del romanzo - antinomia letteraria. In alcuni momenti della narrazione Joseph K., che pure dall'origine è consapevole d'essere vittima di un crudele e sibillino Leviatano, di inestricabile e viziato sistema burocratico che dovrebbe servire l'uomo e invece lo perseguita, giunge quasi a giustificarne la legittimità, in un processo di autocolpevolizzazione; è ciò che accade anche all'etica sociale dell'autore praghese, compressa e alternativamente diluita tra il caldeggio delle nuove libertà moderno-borghesi, ed un socialismo, al tempo stesso eroico e puerile, molto affine a quello del nostro Italo Svevo.

In comune con l'autore del romanzo psicologico italiano, Kafka conserva e dosa con genio l'ironia, che è un pò come il cucchiaino di miele propinato al bimbo malato prima dell'amaro sciroppo, per lenirne l'assunzione. Francesco Pannofino lascià nel pubblico un bel ricordo, con l'interpretazione del monologo di rammarico di Joseph Kappa, costretto in quell'asfissiante spazio tra i muri dell'industrializzazione e dello stato moderno; una realtà che recide di netto l'individuo dalla comunicazione con se stesso in quello stato meglio conosciuto dalla tradizione marxista come alienazione, o hegelianamente come oggettivazione. La società quindi come alterazione viziata e alogena, quando non diabolica dei rapporti umani.

Pannofino commuove quando rivela quanto Joseph K. abbia sete di semplice e diretta comunicazione con i suoi simili, siano essi colleghi, predicatori, inquisitori o donne; il suo struggimento angoscioso di maggiore portata risiede in quest'atto di disillusione, e non appena accortosi di come sia impossibile comunicare faccia a faccia con chi gli cheide conto di qualcosa, arriva quasi ad accettare quell'insensata accusa pendente irragionevolmente sul suo capo, forse perché si convince, esortato dalle parole del sacerdote nel Duomo, che egli non sia in grado di vedere oltre più di due passi il suo naso, e Joseph Kappa muore certo che la società e quel sistema di uomini a lui simili e pari- che Kafka cita sovente col sostantivo allegorico di Castello - , non permetta all'uomo di vedere oltre quel limite. Il nome del nostro attuale guardasigilli vorrà essere solo lo scherzo della suddetta kafkiana ironia della sorte.

Lj

 
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Ricordati di me

Post n°23 pubblicato il 29 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

I film di Muccino possono considerarsi esempi di neo-neo-realismo (per il vizio del cinema italiano fatto di susseguitisi nei... ), di un'atipica maniera fabulatrice che si limita ad una messa in scena affrancata da definiti intenti critici, e non - dichiaratamente - in grado di perseguirne.

Ricordati di me è un documentario di psicologia sociale, e il successo del suo regista è giustificato dalla sua modestia disarmante di raccontare come fotografare, di esaltare semplicemente riportando. Il suo è finora un cinema di reportage che non giudica nessuno e che, al limite, unica pretesa analitica muove nella collocazione del Dolore, come unico luogo di reale e possibile comunione degli attori sociali.

Ma proprio per il suo essere privo di pretese tendenziose di giudizio, stimola lo spettatore alla riflessione, dotandolo di quell'appagamento proprio di chi è conferito della facoltà di giudicare. Non tutti i film lo permettono così apertamente, e in ciò sussiste il segreto del suo successo.

L J (25 feb 03)

 
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Clint ci ha deluso!

Post n°21 pubblicato il 14 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

Ecco la storia di un Guerriero dei nostri tempi tragicamente svilito, forse, in una vecchiaia non delle migliori. Adesso lo ricopriranno di Oscar alla carriera, giustamente, ma incenseranno come già fanno, un film che non vale l’ombra di tutta una passata carriera. Parlo di Clint Eastwood, di quel mito vivente che da “Per un pugno di dollari” in poi, ci ha regalato esempi unici di “nuova epica”, pur in salsa western o metropolitana, di quel tipo di cinema che fece di Eastwood un attore “riconosciuto” gelosamente a Destra. Se si pensa a film come “Impiccalo più in alto” si potrebbe pure pensare ad una “Destra Anarchica”, ma insomma quello che mi preme rilevare è che la sinistra certo non aveva mai avuto modo –e pure nella storia di furti di iconolatria ne ha compiuti - di rivendicarne anche solo una lontana rappresentanza. E invece, quando meno te lo aspetti, quando vai tranquillo al cinema convinto che il film potrà solo “confermarti” ma non “sorprenderti”, figurarsi tradirti, succede il patatrac.

“Million dollar baby”, avrei fatto bene a non vederlo.

Facendola breve, al termine di una storia a tratti macchiettistica, il Grande Clint s’è perso nel  messaggio poco edificante, quasi oltre il limite negativo di un nichilismo come quello di Sartre –mi viene da dire-, dove l'eutanasia è propinata con la facilità di un Capezzone.

In più, la strada che porta E. a optare per la Dolce-morte (non so se ha visto il film, sicuramente lo vedrà), è scelta al di là di reali condizioni di malessere fisico. La protagonista non soffre particolarmente dolore fisico, ma mentale; non vuole accettare una vita a-normale. Mi ha inorridito la faciloneria di un film che è il Manifesto dell'Eutanasia, così come della strisciante Cultura Eudemonica da cui essa  trae nutrimento.

La "necessità di morte" è strumentalmente data a bere, come necessità di sfuggire al Dolore fisico, quando invece - se si è attenti al film e non mossi da pregiudizio - si dovrebbe vedere lapalissiano l'incolmabile vuoto a vivere di una psiche mal integrata. Una ragazza evidentemente depressa prima di salire alla ribalta dello sport; lo sport le darà la sensazione di un riscatto come una qualunque illusione; l’incidente fisico la ricondurrà al malessere iniziale. Tutto molto banale e chiaro.
L’epilogo invece è ingiustamente mistificatore, mischia le carte indecorosamente tra la “noia di vivere” (o depressione), con il problema –assolutamente estraneo-  dell’eutanasia. Con questa straordinaria  mistificazione politica, Eastwood dà  l’autorizzazione a tutti i depressi del mondo per farla finita, e agli sbandieratori dell’eutanasia di applicarla. Il fatto curioso è che lo  premieranno per questo.

 

 

 
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Dio creò l'uomo. La donna lo sta eliminando.

Post n°20 pubblicato il 12 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

Ieri, OTTO MARZO.
Per l'occasione ho assistito ad uno spettacolo in teatro, rappresentazione di un discorso del '28 di Virginia Woolf. Il monologo ha riportato al 2005 tematiche circa la posizione della Donna rispetto all'Uomo. Dalle parole della famosa scrittrice, giunge a noi l'eco di un bisogno forte di EMANCIPAZIONE, suggerito dalla storica RIFORMA inglese del '18, che estendeva il suffragio al "sesso-debole".
I lamenti della Woolf, erano certo giustificati al suo tempo, oggi sono suggestivi ma non attuali.
Mi rivolgo quindi alle ragazze, alle donne del sito.
Avete o non avete ridotto quest'Uomo a essere inferiore con le vostre scalate alla emancipazione radicale? Penso alle donne che oggi per essere sempre più simili all'uomo rifiutano in massa la maternità (guardate i dati di natalità), e credono nel traguardo nell'aborto, come pratica che avvicina i due sessi, con un meccanismo di "neutralizzazione" dei sessi. Gaurdate pure alla fecondazione, per procreare ora non serve più nemmeno "papà" e il figlio se lo fa mamma da sola se vuole. Un tempo si diceva BELLO DI PAPA', in fututo si dirà: A BELLO DI PROVETTA.
Certo c'è anche una parte di aspetti positivi, ma nel computo dei pro e contro, direi che l'EMANCIPAZIONE così come effettivamente perseguita, ad oggi segna rosso. LA PARITA' fra donna e uomo è in realtà una NEUTRALIZZAZIONE dei SESSI, e attenzione, non è la stessa cosa.
Oggi nel ricco occidente, una donna su tre possiede un vibratore in casa, a dimostrazione del fatto che l'uomo non serve nemmeno più per l'utilizzo più vieto: il sesso tanto per "scopare". Il coso di gomma è lungo quanto vuole LEI e dura all'infinito.
Oggi le donne pur diventando magistrato, presidente della camera, ecc.ecc., vorrebbero ancora di più perché sostengono di non essere ancora trattate col giusto metro.
Un tizio scrisse queste parole un giorno, quando la donna era ancora -effettivamente- subalterna all'uomo: "NON BADARE SE IL DIRITTO GIURIDICO TI NEGA POTERE... PERCHé LA NATURA TE NE HA DOTATO DI TROPPO.
Ebbene voi, donne di tutto il mondo, sapete che questa è una verità incrollabile. Aver ottenuto potere, oggi, anche nel diritto, ha condotto a questo risultato di disequilibrio devastante con uomini in perenne crisi di nervi: Un uomo frustrato, intimidito, con l'ossessione del sesso e pur incapace di praticarlo in modo sano e frequente. Una babele dei generi insomma. Retrocedete, vi chiedo... Accorgetevi che la vostra Emancipazione non è stata che uno sparare sulla croce rossa!

L J

da TrAmp.it

 
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Giovani: apolitici metafisici

Post n°19 pubblicato il 12 Marzo 2005 da LuvelioJUSA
Foto di LuvelioJUSA

“Giovani e politica” è un binomio che assomiglia sempre più ad un ossimoro.

Senza includere quelle minoranze impegnate in ranghi costituiti, ad hoc, dai vari partiti, l’interesse della gioventù di massa verso le cose della polis, appare evidentemente trascurato.

Ad oggi, gli appassionati apparentemente spontanei di politica, nella realtà della gioventù per così dire “senza tessera”, sono rappresentati per la maggiore dai famigerati centri sociali che, invero, travalicano la suddetta ipotesi dell’ossimoro, per raggiungere un’antinomia delle più aberranti: cosa svolgono di “socialmente” utile i cosiddetti centri “sociali”, non è chiaro a nessuno.

La destra, di contro, ha i suoi “Giovani”, che, pur nella legalità delle proprie manifestazioni, non riescono a bucare mai la coltre della invisibilità, e il fascino sui media è determinato con grave sbilanciamento dai gruppi di sinistra, spesso gauchisti ma non meno sfruttati all’uopo dalla sinistra di palazzo. Si guardi solo alle ultime vicende di giovani sciacalli che, defraudando a viso coperto centri commerciali del nord Italia, non soltanto non  hanno subìto una requisitoria mediatica adeguata alla gravità del caso, ma sono diventati - per l’arcano potere di quella “scatola magica” che li presenta al mondo come tenebrosi paladini della Libertà -, esempi per migliaia di giovani. Il web affollato da esternazioni di plauso verso questi delinquenti sociali, ne è la testimonianza esplicita; teppisti quindi, impropriamente ridipinti anche a mezzo (cattiva)informazione, come eroi del sogno rivoluzionario, romanticamente dannati e demagogicamente terzomondisti.

Di qui, tutto l’aspetto negativo dell’avvicinamento dei giovani alla politica, per altro già episodica, che dimostra di esserci non senza una pericolosa fascinazione mistificatoria, e retta dall’avallo indegno del sistema mediatico.

Tutta l’iconografia di sinistra, del resto –dal Guevara al marchio Feltrinelli - è uno degli emblematici e contraddittori esempi di “cocacolonizzazione” di quei principi e di quelle strutture  note sotto “marchio registrato” No-Global.

Ma andando oltre questo esempio certo poco augurabile di “giovani per la politica”, non si può fare a meno di constatare l’assenza, quasi “omertosa”, di una “politica per i giovani”.

Le cause di una disaffezione tale devono essere addebitate ad alcuni vettori che hanno agìto sinergicamente dalla fine degli anni di piombo ad oggi, e che davvero rischiano di determinare nei giovani d’Italia, una sorta di quint’essenza dell’ “Uomo Qualunque”, assolutamente distante, incapace di evitare il “ torchio mosso da mani ignote che schiaccia i semplici cittadini”, secondo quanto scriveva Guglielmo Giannini.

Georg Simmel invece aveva utilizzato, nel suo “Filosofia del Denaro”, l’aggettivo blasé per dipingere l’individuo novecentesco che, anestetizzato in ogni sua facoltà patetica dal vortice dell’iper-consumismo, perdeva capacità di appassionarsi per ogni cosa non rientrasse in quel che Marx chiamava il “feticismo delle merci”.

Se in parte, la diagnosi simmeliana del blasé è omologabile alla condizione dei giovani nel rapporto con la politica, è pur vero che il  problema non si esaurisce affatto nella retorica marxista, come del resto non può nella tesi qualunquista.

Gravi responsabilità pesano sul capo di quanti hanno governato il paese dalla fine degli anni ‘70 ad oggi, e, soprattutto, nei pressi di quei ministeri dell’Istruzione Pubblica che mai hanno saputo incidere nel fornire un’adeguata sensibilizzazione degli studenti  verso la politica e la cronaca socio-culturale; di quanti dalla stanza dei bottoni della cultura hanno preferito, per decenni,  “dogmatizzare” una “certa” visione politica, attraverso la mistificazione dei libri di testo, evitando con vera “omertà” lo studio sistematico e continuativo della politica come fatto e “coagulo” sociale. Il “quotidiano in classe”,  come da più parti giustamente suggerito è ad oggi una realtà ancora lontana.

Qualora non volessimo davvero avallare la ipotesi papiniana di “scuola” come “inutile casamento”, sarebbe doveroso investire nella crescita di un’istituzione, qual è la scuola appunto, in perenne declino, oggi tentata in una riforma troppo attenta alla “professionalizzazione”, ma imperdonabilmente restia a sottrarre i “suoi” giovani ad altri ufficiosi istituti (centri sociali, gruppo dei “pari”, media di massa), i quali s’arrogano indisturbati il ruolo di forgiare le gioventù, magari non a propria immagine e somiglianza, certamente a proprio uso e consumo.

L J

 

 
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