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La gatta

Post n°47 pubblicato il 02 Luglio 2014 da IlContaFiabe

Correvano le dita sopra la tastiera del computer in quella luminosa mattina di tarda primavera. Ad ogni tocco si staccava una lettera dall’albero delle sue storie nuove, o forse dallo stesso da cui ne aveva già colte parecchie. Le sue storie, la sua stessa vita. La gatta in un angolo della casa, sorniona, poltriva sul suo cuscino preferito.

La guardò con un moto d’invidia mista ad amore. Avrebbe voluto esser “quella” gatta in quello stesso momento. Staccare con la testa e via, a dormire i sonni attesi, quelli pieni di sogni di ragazza o forse di bambina. Quelli in cui tutto è ancora puro, cristallino, intatto. Il tempo invece l’aveva trasformata in gatta quello si, ma solo per la sua naturale diffidenza o ritrosia nel concedersi pienamente. Uno strusciar di gamba e via, lungo la linea della sua vita, quella stessa linea che a volte le pareva più che altro un cornicione o la balaustra di qualche balcone quelle che, come i gatti, percorreva sempre al limite del burrone.

La lavatrice, poco lontana, scandiva il tempo del suo lavaggio. Ancora un centrifuga ed avrebbe potuto stenderlo. Ancora il tempo di un periodo allora, una manciata di parole.

Scrivere l’annoiava quasi era come un gesto consumato dove si consumava, appunto, il suo rincorrersi di attimi, frazioni di istanti. Momenti lunghi quanto il batter d’ali d’una farfalla.

Un tempo era stata farfalla anche lei, si, magari con le ali di lana. Poi, il tempo, l’aveva trasformata in falena, sempre alla ricerca di una luce che la potesse illuminare per un istante, ed in ogni istante dopo s’era schiantata, da falena, su una lampada o in cero o un lume, scoprendo quanto sia vuoto il vuoto dentro ad ogni luce apparente.

Ancora le dita a scorrere sui tasti, ancora un altro morso della sua anima buttato su quel foglio che appariva dentro al monitor. Un altro attimo di lei a cristallizzare, come un coriandolo che si sarebbe sparso nell’aria di lì a poco, cadendo quasi senza far rumore a costruire un angolo del suo passato.

Si sentì strana in quel pensiero. Mentre tutto procedeva verso il tempo a venire lei, in ogni momento, si sentiva come quella che costruiva, in divenire, solo attimi che avrebbe trascorso solo per ricordare.

“Io sono stata”-pensò di sé. Si la vita le scorreva addosso in ogni istante, il suo presente era lì, tangibile, come la sua gatta, come il suo bucato, come il morso che avrebbe dato alla sua pizza seduta al tavolo con i suoi amici, o quelli che chiamava tali. Lei sarebbe stata lì in ogni fotogramma di quel filmato. Lei o una sua parte, una delle mille e mille che ben riconosceva e che chiamava, ognuna con il suo nome diverso.

“Io sono stata” se lo sentì forte spandersi sul palato quel frusciar di lettere che non aveva scritto ma che pure sentiva emergere da dentro di sé come la più impellente delle verità.

Lai, il suo presente immobile fatto di aria lattiginosa e aghi, a volte, graffi sopra la pelle. Passò l’indice destro sopra le vene dei suoi polsi. Ruscelli azzurrini. Ne immaginò il sangue scorrere copioso dentro. Ne carezzò il percorso immaginando, ‘un tratto, di poterne deviare il flusso e di coglierne lo spettacolo della sua emorragia. Era lì la vita? L’avrebbe davvero vista, per una volta, in faccia la sua vita? A quel modo? A quel prezzo?

“Io sono stata”. Rovistò mentalmente nei sussulti e fremiti che aveva provato e generato. Io sono stata”. Era tutto diverso, ogni volta un passo, o sembrava soltanto un passo- “Io sono stata”. Che non si vive poi, che una volta soltanto. E non seppe se questa frase fosse più minaccia o liberazione.

“Che peso è la vita quando non si sa dove condurla?”. Il cestello della lavatrice roteava vorticoso. Guardò dentro l’oblò i panni multicolore mescolarsi in un vortice sempre più rapido. Abbracciati, mescolati. Promiscui.

Quella era lei, il suo passato, i suoi pensieri. Una brace, un cespuglio di rovi, una fiumana informe, policroma, eppur nettata di ogni lordore. Quella era lei. Lei la gatta sopra il cornicione o la grondaia e la sua vita il di sotto come le auto assordanti che sfuggivano sul nastro asfaltato secondo i ritmi d’un semaforo che, alla fine, era regolato solo dalla sua attenzione, dal battito del suo cuore, a volte, dalla sua noia. Dalla semplice paura di perdersi o di perdere il simulacro di quella libertà.

Quella era lei, il suo bucato steso e la voglia di quel profumo di nuovo.

Quella era lei, mescolata dentro a quel pugno di parole sparse che la tingevano a volte santa a volte troia, con i colori che si mescolavano e lasciavano nette solo le ombre nella luce abbagliante del mezzogiorno.

Quella era lei, o almeno una sua parte, anch’essa con sopra il suo nome, un nome che le aveva già dato ma che, a pensarci bene, forse poteva cambiare ancora.

 

 

 

 
 
 
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