RUGIADA

LUCE D'ERBA

 

 

L'inizio del volo

Post n°71 pubblicato il 01 Giugno 2008 da aidanred
Foto di aidanred

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

  … Sabbia a perdita d'occhio, tra le colline e il mare - il mare – nell'aria fredda di quel pomeriggio quasi passato, e benedetto dal vento che sempre soffia da nord.La spiaggia e il mare.Potrebbe essere la perfezione….. (Da oceano mare di Baricco)

 Odilia lasciò che il libro le scivolasse dalle mani, chiuse gli occhi, e per un attimo lungo quanto un sospiro, vide il mare increspato dal vento del nord. Ebbe un brivido freddo su per le braccia, rapido e scivoloso le salì al collo per poi fermarsi dietro la nuca dove i capelli erano più radi. Non si oppose alla gentile carezza e rimase immobile per assaporarne ogni tocco leggero. Ad occhi chiusi poteva vedere il mare e sentire il profumo secco dell'acqua salata.

Un attimo, lungo quanto un sospiro. Riaprì gli occhi, si guardò intorno: nella stanza c'erano solo lei e il respiro lungo, trascinato del vento. Soffiava con tutto il fiato che aveva in corpo e la sua voce si moltiplicava in un eco infinito tra i rami docili e ubbidienti dei larici e delle bianche betulle.

Scese un velo d'ombra. Il cielo, fuori, non prometteva niente di buono. Come avrebbe trascorso il pomeriggio? Non cercava risposte. Era lì, nelle braccia del vento e ciò le bastava per cancellare ogni indolente desiderio.

L'abito scomodo delle responsabilità se l'era tolto con spontanea consapevolezza, senza rimpianti e per sempre. Un  nuovo sentire si stava impossessando di lei come un figlio che da troppo tempo era rimasto lontano ed ora la porta della sua casa si era riaperta per indurlo ad entrare. La lucida visione del suo essere presente, si rivelò nel momento in cui qualcuno le venne incontro e l'aiutò a togliere le valigie dal baule dell'automobile. Osservò con indifferenza il vestito pesante del suo passato e lo lasciò spiegazzato, senza cura, come quando si abbandona qualcosa che non potrà più servire.

«Prego, le faccio strada, pochi gradini per entrare…». «Mi segua, pochi passi, ci siamo…».

«Camera singola con vista sulla montagna».

«Va bene frau?… Signora?».

S'era innamorata subito di quel piccolo albergo che le era apparso all'improvviso alla fine della lunga salita; come un rifugio nascosto nelle pieghe delle rocce, aveva deciso di farsi scoprire solo a chi dimostrava il coraggio di sapersi arrampicare fino lassù e lei, chissà per quale strano disegno del destino, c'era arrivata.

Alla fine di una spirale di tornanti l'attendeva la cima del colle e dietro si ergeva la montagna che dall'alto guardava e disegnava nel cielo la meta più ambita.

Incredula, di fronte al muro bianco, volse lo sguardo sul crocifisso di legno proteso verso il basso, nelle pieghe contratte del corpo di Cristo riconobbe lo spasimo della sofferenza  impotente che si lascia morire. Abbassò gli occhi per allontanare il dolore e quel senso di solitudine che da tempo le aveva scavato dentro le sue ferite e si incamminò seguendo ubbidiente la sua guida.

 

L'albergo, nelle stanze, s'era portato il profumo del bosco, fresco di muschio, acre di resina e caldo di legno levigato dagli anni. Quanti ne fossero trascorsi lo potevano dire gli oggetti antichi che ovunque, sui mobili o appesi alle pareti, tessevano trame di un tessuto intrecciato da eventi.

Odilia avrebbe voluto fermarsi per osservare curiosa ogni piccola cosa, ansiosa come sempre di comprendere il linguaggio muto di quelle presenze che le avrebbero restituito il senso del tempo.   

In camera ebbe da subito una sensazione piacevole e rassicurante; il letto, l'armadio e il cassettone erano lì da sempre ad attendere il suo arrivo. Quella stanza non le sembrò del tutto sconosciuta: le capitava di giungere in un luogo e scoprire che in esso c'era un non so che di familiare, ancestrali ricordi che non pesavano addosso ma infondevano fiducia.

«Adesso chiudo la porta, mi sdraio sul letto e mi abbandono nell'abbraccio morbido del piumino». Così pensava, quando si ricordò la domanda che le aveva rivolto gentilmente il cameriere.

«Tutto bene signora? Se le servisse qualcosa chiami con il telefono, guardi, è qui, schiacci lo zero per parlare».

«Tutto bene, grazie…o, scusi, tenga. Se avrò bisogno alzerò la cornetta e schiaccerò lo zero».

L'uomo piegò la testa e ritirò con garbo la mano.

«Prima colazione dalle sette alla dieci, cena alle diciannove, sala grande in fondo al corridoio a destra, superata la porta della veranda».

«Da noi ha alloggiato la principessa Sissi, conosce la sua storia? Lei era la nostra principessa…, bella e infelice, ha dormito due notti nella camera delle genziane. Sebbene sia trascorso più di un secolo, il suo ricordo rimane immutato! C'è chi afferma che le pareti odorino ancora del profumo che si metteva tra i capelli. Un'essenza di fiori…, leggera, si fa riconoscere e poi fugge come una folata di vento. Io lo cerco questo profumo, un giorno o l'altro so che lo sentirò. Mi scusi, a volte parlo troppo, vorrà restare da sola, se posso esserle utile mi chiami, ora la lascio. Le auguro una buona permanenza. Questo è un luogo magico, chi viene una volta, poi ci ritorna. Starà bene».

Odilia lo accompagnò con un sorriso.

L'uomo chiuse la porta dietro di sé e i suoi passi si allontanarono lungo il corridoio.

Ora che si trovava lì, sola, nella stanza di un albergo, in un luogo di cui non conosceva ancora il nome, tutto le appariva così naturale, non sentiva il peso del viaggio, aveva chiuso la porta e la mente s'era svuotata di ogni pensiero. Il piacevole vuoto del silenzio, avvolgente quanto un velo di morbido cotone. Era stato facile arrivare. Poche parole, il tempo di lasciare un documento alla signorina della reception e la consegna delle chiavi della camera.

Ora ci sarebbe stata solo lei, sconosciuta agli occhi di tutti.

Sorrise e si passò una mano sulla guancia, se fosse una carezza non so, fu certo un modo per confermare a se stessa che tutto andava bene.

Le valige se ne stavano, ingombranti, tra la porta e il letto, non era quello il momento per aprire i bagagli e sistemare ogni cosa con ordine e meticolosità. Più tardi, magari, ora lei desiderava solo sdraiarsi sul letto, lentamente come piuma su piuma, chiudere gli occhi al mondo e al freddo vento del nord.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

                                                             

 
 
 

IL PRIMO MAGGIO

Post n°70 pubblicato il 01 Maggio 2008 da aidanred
Foto di aidanred

Anche la conoscenza del fascismo e di ciò che il regime rappresentò per i dissidenti, crebbe insieme con me nelle battute e nei tanti episodi che mia nonna ricordava con precisa memoria ricca di particolari.

 Lei visse con coraggio la tragica morte del nonno, barbaramente ucciso a manganellate, a soli 29 anni, sugli spalti del castello di Brescia.

 Quando rimase vedova lei ne aveva 27 e da allora pensò solo a sua figlia e al lavoro che doveva affrontare per poterla crescere.

Mia nonna era la madre di mia madre, visse fino a 93 anni, tutti noi la pensavamo eterna e quando ci lasciò fummo costretti ad ammettere che la morte non dimentica nessuno.

Il giorno del suo funerale mio zio disse - E’ morta la donna di ferro!

Con quelle semplici parole seppe rappresentare ciò che ella fu veramente nella sua vita, una donna unica che sapeva allontanare il dolore e la paura con energia e coraggio. 

La sua filosofia di vita, del tutto personale, avrebbe potuto eguagliare in conoscenza e saggezza l’intera sapienza Zen e non solo.

Era una filosofia che nasceva dal vissuto popolare,   formata e plasmata nell’esperienza quotidiana, segnata da lunghe ore di lavoro, privazioni e risparmi rivolti ad un futuro non suo.

 La nonna parlava un dialetto ricco di termini arcaici o spesso inventati, che la rendevano unica nel raccontare la realtà e la fantasia.

Ricordo parole che con la loro espressività riuscivano a rappresentare in senso altamente metaforico e immediato complesse situazioni, che diversamente non avrebbero avuto descrizione migliore.

Anche nell’inveire usava espressioni non traducibili, capaci però di cogliere nel segno.

Di lei si potrebbe parlare per giorni senza riuscire a darne un’immagine completa e ciò ha reso incancellabile  dentro di me la sua presenza.

Una vicenda che amava raccontare con dovizia di particolari, la riportava nel periodo in cui, dopo la marcia su Roma, nella nostra città, ma anche nel resto d’Italia, gli aderenti al partito Fascista mostravano con orgoglio la  camicia nera e si sentivano grandi, forti e padroni di tutto.

 Camicie e stivali facevano di loro dei violenti  gradassi, pronti ad intimidire o punire chi avesse mostrato interessi diversi e non si fosse conformato alle nuove disposizioni del governo.

In quel periodo nonna s’innamorò dell’uomo sbagliato, un socialista romantico che a dispetto delle leggi fasciste teneva nascosti nel cassone in soffitta gli scritti di Turati e Labriola, articoli e manifestini considerati sovversivi e la bandiera rossa del suo partito.

Il nonno e la nonna erano cresciuti insieme nello stesso cortile. La sera, dopo l’ave Maria, salivano la  scala di legno che portava sulla loggia e da questa nelle camere delle tre famiglie che avevano le cucine col soffitto a volto giù  in basso, sotto il portico.

 Di fronte alla porta delle camere si salutavano, per ritrovarsi il mattino seguente all’uscita del portone che si apriva sulla strada in centro al paese.

In piazza il tram a cavalli li aspettava per portarli al limite della città, dove vi erano le filande e le prime grandi fabbriche metalmeccaniche.

Il nonno nel 1915 partì per assolvere all’obbligo di leva e ritornò solo tre anni dopo a guerra finita. Si ritrovò in un mondo nuovo, diverso, incapace di impedire  il tramonto delle ideologie anarchiche e socialiste. 

Il fascismo iniziava a farsi strada a scapito della democrazia e delle più elementari libertà e per i dissidenti la vita era diventata un inferno.

In paese tutti sapevano delle sue convinzioni politiche e negli agguati notturni che si facevano frequenti contro la sua persona, riconobbe più di una volta, armati di manganelli, i vecchi compagni di gioco. Erano dei morti di fame che per una trippa calda o un bicchiere di vino d’osteria divenivano gli esecutori ignoranti di  vili pestaggi.

Fu intorno al 1920 che mio nonno e mia nonna si  unirono in matrimonio e quale data migliore per consacrare il loro amore se non quella del primo Maggio!

Il loro fu un matrimonio clandestino, consumato velocemente fuori porta, con la certezza di essere inseguiti e controllati.

La casa in affitto sul colle San Giuseppe fu disertata dal nonno, che visse gli ultimi anni della sua vita nascosto in soffitte d’amici, perché ricercato come colpevole di essere fedele al socialismo.

Se l’amore che nonna provava per il nonno era profondo, quello per il cibo lo era ancor di più e per salvare un piatto di polenta ella avrebbe sfidato qualsiasi pericolo.

Per festeggiare il primo maggio del 1922, mi raccontava di aver organizzato con alcuni fedeli compagni una gita in Maddalena.

Il nonno, per l’importante occasione, voleva concedere alcune ore di libertà alla sua latitanza e, certo di essere ben protetto, avrebbe raggiunto l’allegra compagnia in quello che tutti a Brescia conoscono come il pascolo della cascina Margherita sul monte Maddalena, dove i castagni si alzano al cielo in cerchio, per disegnare il naturale confine del prato.

Nell’erba le donne stesero le tovaglie bianche di fiandra, dai cesti di vimini tolsero posate, bottiglie di vino buono, bicchieri e l’arrosto di carne, per quel pranzo importante e ben organizzato.

Nonna si era portata ben stretto, su per il sentiero rosso di terra, il paiolo nero di fuliggine e pesante di polenta calda, che per ben quaranta minuti aveva mescolato piegata sulle fiamme del camino di casa.

Al sudore di quel lavoro ingrato, si sommava quello della fatica nel camminare su un percorso accidentato e tutto in salita.

La polenta non poteva mancare, in quei tempi di grandi ristrettezze era sovrana sulle tavole dei poveri, che in qualche modo dovevano riempirsi lo stomaco.

Quando parlava di polenta la nonna deglutiva e anche dopo una lunga vita non si era mai stancata di cucinarla e mangiarla con immenso e rinnovato piacere.

Il ricordo del paiolo portato come un trofeo e pronto ad essere capovolto sul tovagliolo bianco di bucato, rendeva ancor più vivo il racconto del momento in cui, ancor prima di assaporare il cibo, dal folto del bosco, sul sentiero alto, si scorsero alcune camicie nere.

 I compagni s’improvvisarono in un rapido  fuggi, fuggi, in cerca di un nascondiglio tra gli alberi e mentre le sagome nere si facevano sempre più nitide e chiare, nei loro volti si leggevano le tristi intenzioni.

Lei seduta nell’erba li guardava e sentiva il suo cuore  battere forte. In quella posizione i fascisti le apparivano ancor più alti, brutti, robusti e minacciosi.

Solo quando le chiesero dove fossero sparite tutte le persone che poco prima stavano in sua compagnia, realizzò seriamente di essere rimasta sola, unica ancella in difesa della tavola riccamente imbandita. - Non so niente io!-  rispose, - Li avete fatti scappare, per me erano clienti, chi mi pagherà ora tutta questa roba!.

Così dicendo, in fretta fece della tovaglia un fagotto, se lo mise in spalle e furibonda si allontanò lasciando quei bravi signori senza parole.

La genialità della nonna stava nella capacità di improvvisazione e quella volta l’amore per il cibo le evitò dei seri problemi.

 Non ho mai saputo che fine avesse fatto tutto quel ben di Dio. Lei raccontava delle maledizioni che aveva lanciato a quei neri caproni col manganello e della povera moglie di un compagno, che nel correre giù verso valle, per i ripidi sentieri, si ruppe entrambe i tacchi e giunse in paese zoppicando e piangendo  la perdita delle sue belle e uniche scarpe.

Il nonno era riuscito ancora una volta a salvarsi dall’arresto, ma la sua fine era segnata: sulla lista dei sovversivi il nome di Giuseppe Lombardi era ben evidenziato con una croce nera.

I fascisti sapevano come snidare i loro nemici, bastava comunicare ai parenti il giorno e l’ora in cui avrebbero stabilito l’appuntamento su in Castello.

Chi riceveva tale comunicazione sapeva della propria fine e per impedire tragiche ripercussioni sui propri familiari, si presentava puntuale e consapevole.

Così finì la vita del nonno a soli 29 anni.

Per me era ed è ancora un grande eroe e sono sempre stata  fiera delle sue scelte di vita e del suo nome che ancor oggi, in lettere d’oro, è riportato sulla bandiera del socialismo bresciano. 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 
 
 

IL GIORNO DELLA LIBERAZIONE

Post n°69 pubblicato il 23 Aprile 2008 da aidanred
Foto di aidanred

 

Il 25 aprile era giunta la notizia della liberazione, ma per me non ci fu festa nel cuore. La guerra non si cancella con un colpo di spugna. Sulla lavagna della mia vita il dolore aveva inciso i ricordi amari, le notti insonni, le corse disperate alla ricerca di un rifugio e il suono sordo delle bombe, si moltiplicava come un'eco dentro un burrone.

I miei sogni di bambina si erano tinti di nero. I giochi dell'infanzia non riuscivano a distrarmi dalla tensione che mi strozzava il respiro.

La guerra non segnò solo l'esistenza degli adulti, anche chi come me si affacciava all'adolescenza, respirava il suo sapore acido, e il sole nel cielo non teneva lontane le nubi delle nostre paure.

A quel tempo io abitavo con i miei genitori sulla strada che dal fondo del paese portava verso la città. Era una via poco battuta e sul percorso che si perdeva nei campi, per poi finire ai piedi della Maddalena, c'era il poligono di tiro. Mi ero abituata al suono secco dei proiettili che si fermavano sul muro alto, grigio, dall'aspetto funereo quanto quello dell'attesa della morte, ma m'avevano convinto che lì si sparava solo per gioco.

Gli spari facevano eco e dal muro rimbalzavano secchi fino da me, dentro la mia casa. Era un rumore familiare, quanto i rintocchi delle campane della chiesa che scandivano le ore delle giornate e, ormai, non ci facevo più caso.

La guerra mi aveva regalato il boato dei bombardamenti, il rombo agghiacciante degli aerei e Pippo me lo sognavo tutte le notti. Le sirene dell'allarme erano un incubo costante e ad esse si accompagnava il pensiero della mia casa distrutta da una bomba. Nel sonno spalancavo gli occhi e mi mettevo a piangere.

Ora, si diceva che la guerra fosse finita, ma il 25 aprile non si vestì con i colori della primavera.

Ricordo un clima teso, confuso; Tedeschi e repubblichini scappavano disordinati nella speranza di trovare una via libera di fuga. I Tedeschi da una parte, i partigiani dall'altra, su un terreno aperto e alla luce del giorno, si potevano guardare in faccia. 

Le truppe nemiche da noi c'erano ancora e nella disperazione più totale fuggivano con la triste certezza d'aver perduto la guerra.

Volevano bruciare tutto, mettere a fuoco le nostre case e suor Viola li aveva convinti a lasciare il paese, senza commettere quel gesto ingiusto e ingrato.

Le suore non avevano opposto resistenza, quando si decise che lì, nel loro convento doveva stanziarsi il Comando tedesco e si ritirarono in un'ala appartata lasciando il resto dell'edificio agli ufficiali.

Ora, i Tedeschi non potevano dimenticare o negare la gentile ospitalità e disponibilità delle monache.

La gente del posto non aveva mai fatto del male ai soldati e perciò infierire sul paese, mettendolo a fuoco, sarebbe stato un atto di incivile crudeltà.

Il comandante ascoltò le parole di suor Viola e ordinò ai suoi uomini di lasciare tutto così com'era e di non perdere tempo.

I motori delle motociclette, dei camion e delle camionette militari alimentavano la confusione e alzavano nuvole spesse di polvere nera.

Cosa stesse succedendo di preciso lo sapevano in pochi; che strano! La guerra era finita ma io non mi sentivo felice.

Vidi passare sotto casa dei soldati tedeschi in borghese con degli zaini a spalle, camminavano veloci lungo la strada che portava alla Maddalena, in quel modo avrebbero superato la città, dove c'erano gli Americani e i partigiani pronti ad aspettarli.

Allora non mi posi domande, se ne andavano e questo bastava; ora, mi auguro che anche per loro ci sia stato un ritorno a casa e i miei sentimenti, lavati da ogni traccia di umana paura, sono di profonda pietà: il valore della vita è unico e universale.

 

Fu però proprio in quel clima di fuggi fuggi generale che  si compì l'ultima disumana tragedia. Secondo il codice di guerra nazista, l'uccisione di un soldato tedesco doveva essere pagata con la morte di dieci Italiani, tanto poco valevamo: dieci Italiani per un Tedesco morto.

Così fu, quando venne ritrovato il corpo di un loro soldato ucciso.

La matematica della guerra, le ragioni del nazismo, il potere centrato sulla paura.

E' la paura che ci fa dimenticare chi siamo, la paura scappa, insegue, è un gatto che ruota intorno a se stesso e finisce per mordersi la coda.

In quanti modi ho coniugato le mie paure: ora la guerra era finita, ma esse rimanevano accese come fari nel buio del mio domani.

Nei giorni della libertà si versò nuovo sangue innocente.

Li avevo uditi gli spari, ad essi seguì un breve silenzio e poi una successione di colpi, ben scanditi.

Ne avevo sentiti tanti, uno in più o in meno, che differenza poteva fare?

Ore dopo, quando vidi mio papà entrare in casa con la faccia contratta dalla rabbia e dal pianto, compresi che qualcosa di tragico era accaduto vicino a noi.

«Hanno assassinato i Boccacci», ci disse «sono là, al poligono, tra i corpi c'è anche quello della figlia…, povera ragazza, morire adesso che la guerra è finita. E' una tragedia, una vergognosa vendetta».

Ricordo che salii le scale, entrai in camera, mi buttai sul letto e piansi disperata.

Nel poligono i Tedeschi cercavano le armi e i partigiani nascosti.

Dovevano essere lì gli assassini del loro camerata e perciò chi viveva in quel luogo era colpevole e per questo avrebbe pagato.

Assurdo destino attese coloro che furono costretti a morire nei giorni della liberazione.

Quando li invitarono a vestirsi bene, a pettinare i capelli, lei, la figlia dei custodi del poligono, ci aveva creduto alle fotografie che i nemici le avrebbero scattato tra le viti del campo, e nei capelli s'era messa un fermaglio e un velo di rossetto sulle labbra.

Non sorrideva l'immagine fissa della sua morte, la mia mamma mi descrisse i suoi occhi aperti nello stupore dell'inaccettabile fine.

Era una bella ragazza e nel giorno della gioia aveva dato addio alla vita.

 

Quella sera in città il cielo si coprì di cascate di colori. Stelline rosse bianche verdi illuminavano la nuova notte di pace e potevamo guardarle senza paura perché non erano bengala.

Non avevo mai visto i fuochi d'artificio, ma pur essendo ragazzina non provai emozioni di gioia, anzi, rimasi indifferente.

Quando finì lo spettacolo e l'ultimo scoppio fece eco nell'aria, rientrai in casa, mi coricai nel letto con l'inseparabile paura nel cuore e devo confessare che quell'appiccicosa tensione non mi abbandonò per lunghi anni.   

Un sogno, sempre lo stesso: aerei…, sirene d'allarme, corse affannose per la ricerca di un rifugio e bombardamenti.

 Tratto da Filomena e le altre

 Storie vere delle donne del mio paese

 
 
 

PER OGNI UCCELLO UN NIDO

Post n°66 pubblicato il 19 Aprile 2008 da aidanred
Foto di aidanred

Per ogni uccello un nido

perché mai allora uno Scricciolo

si aggira in timida ricerca?

Perché mai se i rami soni lì vuoti

e in ogni albero famiglie di uccelli

continua il suo pellegrinaggio?

Che sia troppo in alto

Dio! L'aristocrazia!

La casa che lo Scricciolo vuole per sé?

Che sia un ramoscello tanto delicato

un filo estremamente sottile,

quello cui punta il suo orgoglio

L'allodola invece non si vergogna

di costruire sulla terra nuda

la sua umile casa

Eppure di quella folla

che danza intorno al sole

chi sarà altrettanto felice?

                                        Emilly Dickinson

 
 
 

A PIPPA

Post n°65 pubblicato il 15 Aprile 2008 da aidanred
Foto di aidanred

GRAZIE A SALVO CHE MI HA INVIATO QUESTA POESIA DI ALDA MERINI, QUALI OCCHI SUL MONDO, QUALI SENTIMENTI PROFONDI POTREBBERO INTERPRETARE LA MIA AMAREZZA.

A Pippa

Abito bianco
per andare a nozze con la tua morte
e con quella di noi tutti
Ti sei vestita di bianco
ma siccome la tua anima mi sente
ti vorrei dire che la morte
non ha la faccia della violenza
ma che è come un sospiro di madre
che viene a prenderti dalla culla
con mano leggera
Non so cosa dirti
bontà della gente
ho già sperimentato tanto dolore
ma è come se vedessi la mia anima
vestita a nozze
che scappa dal mondo
per non gridare

(Alda Merini)



 
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Data di creazione: 21/10/2007
 

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