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Messaggi del 10/07/2015

Luigi Carrer

Il Leone di San Marco aveva da pochi anni imbellemente raccolto il volo di quelle dorate ali che dall' Adriache sponde eransi nel prisco tempo gloriosamente spiegate sull' ora contrastato Eusino, sull' incantata città di Costantino, su Cipro e su Candia, quando nel 1801 nasceva framezzo le sue lagune dalla fortuna abbandonate Luigi Carrer. La sua fanciullezza trascorse fra le folte selve ed i ridenti poggi della magnifica terra cui fanno splendida scena le azzurre balze dello scosceso Cadorre, la verdeggiante vallata di Quero, il rapido corso dell' argentea Piave. Là circondato da quella natura in un silenziosa ed animata nudrì lo spirito alle misteriose ispirazioni che, frutto della solitudine e della contemplazione, male si rivelano nelle popolose città o fra le mura di un collegio. E il carme suonò ispirato sulle labbra di Luigi Carrer perchè moveva da un cuore puro come i ruscelli delle patrie colline. Essendo a Venezia dove l'improvvisare di alcune tragedie lo avea fatto noto ai cultori delle lettere che ancora serbavano ricordanza di Foscolo, si diede a severi studii piegando la giovine Musa ad una scuola veramente più ecclettica che romantica, la quale sulle traccie del Jonio poeta incedendo, signoreggiava e tuttavia signoreggia nel campo letterario d' Italia. E di questa sua predilezione per quella forma di poetare dava saggio nella Fidanzata di Messina; mentre poi nel Canto il Libano e nelle sue Canzoni e nei Sonetti mostrò come di fondo fosse maestro negli studii classici, additando libera via e raccogliendo così in suo viaggio fiori da tutte scuole, se belli. Eletto nel 1830 supplente alla cattedra di filosofia nella Università di Padova, lo studio delle severe discipline non valse a staccarlo dall' arpa giovanile, che anzi in quel tempo pubblicò le Odi, i Sonetti, le Ballate, poesie piene d' affetto e d' immagini meste e gentili quanto le memorie delle cento sue isole, quanto i fiori del natio suo lido. È nella Poesia dei Secoli Cristiani ove campeggia precipuamente l' intelletto del veneziano poeta, il quale avrebbe certamente spiegato sublime il volo del patrio amore se la tirannide dell' Austria non rendesse mute le libere fantasie degli Italici bardi. Luigi Carrer era uomo di sensi generosi, l'assenza dei quali rende vano, se non dannoso, l'ufficio del Poeta; e questi sensi gli furono sempre guida, sia che col Gondoliere si facesse giornalista, colla Vita di Foscolo, colla Piccola morale, e col' Anello di sette gemme, si rendesse maestro di virtù e narratore immaginoso del glorioso passato della sua patria. Ritornato un raggio di libertà a benedire la fronte del Leone alato, Carrer salutò con entusiasmo l' alba dello sperato risorgimento.
Testimonio delle forti pugne combattute in quelle nobili lagune s'accingeva forse a guisa degli antichi Bardi, a cantarle, quando stremata di forze, vinta dalla fame e dalla peste, Venezia cadeva ultimo baluardo dell' Italiana libertà. Il vessillo giallo e nero fu visto sventolare più insolente sotto gli atrii del Palazzo dei Dogi, ed a Manin, a Tommaseo, a Mengaldo e ad ogni più nobile figlio della caduta città la via dell' esilio fu amaramente tracciata. Lo spettacolo miserando della patria preparò forse all'Adriaco Vate l'ultima ora di sua vita, la quale suonò nel seguente anno aggravatrice di quel grande infortunio.

La visione

Appiè d' un'ampia scala,
In chiuso manto avvolta,
Bianco a veder com' ala
Testé dal fianco tolta
Di giovin cigno, apparvemi
Incognita beltà.

Apparvemi tra il grave
Sopor di notte estiva ;
La vision soave
L' intenta alma rapiva
Nell' infocato palpito
Della mia prima età.

La man le porgo, e: Cara,
Dirle pareami incerto,
Il nome tuo m' impara,
Fammi il tuo riso aperto ;
0 sii tu donna od angelo.
Parla,t'adorerò.

Parte di te mi svela
La vivida pupilla,
Che per la bianca tela
Com' astro in ciel sfavilla ;
E un nome il cor mi mormora,
Ma proferir nol so.

Tace; e la man mi stende,
E in essa il cerchio aurato
Testimonianza rende
Del volto ancor celato.
Sei desso! Oh fido indizio!
Il cor non mi menti.

Troppa è la gioia! Appresso
La mano al labbro ansante,
E si vel tengo impresso,
Ch' ivi lo spirto errante
Tutto par voglia accogliersi
Poiché dal cor fuggì.

Sorgi, l' indugio è molto,
Quindi parlarmi udia,
E nel levar del volto
Un paradiso apria
Alla mia vista il candido
Manto caduto al pie.

Sull'innocente viso
Scorrean le brune anella;
Raggianti eran nel riso
Gli occhi e la bocca bella,
Che tali più non risero
Come in queill' ora a me.

Seco la scala ascesi,
Né delle membra il pondo
Punto gravarmi intesi.
Era un salir giocondo,
Come le zolle a premere
Di florido sentier.

A sommo giunti: Siedi,
Diceami; ed io: Deh! teco
Restarne mi concedi.
Qui teco, sempre. - Oh cieco!
(L'altra proruppe)immobile
Fra noi sorge il Dover.

Ma, ti conforta, ancora
Vedermi t' è concesso;
Ancor potrai brev' ora
Sederti a me da presso
E favellarmi, e molcere
L'acerbo tuo destin.

E allor sovra l'ardente
Mia guancia errar le chiome
Sentia soavemente
Dell' amor mio, siccome
Foglie olezzanti e roride
Del gelo mattutin;

Ed alitar un lieve
Spirto su' labbri miei....
Oh vita! E perchè un breve
Sospir d' amor non sei?
Ah ! tutto il resto è tedio,
Oltraggio e vanità.

E un sogno sol fu questo?
Misero! E a me da canto
Più non ti trovo? E, desto,
Ti cerco invan tra il pianto?
Né a me più colle tenebre
Quel gaudio tornerà?

Vagheggerò solingo
Le stelle a te pensando.
Per erme vie ramingo,
Crederò udirti quando
Da lungo udrò di tibia
Un dolce lamentar.

Ma se mi torni innante,
Oh! pel desio, pel duolo
Mio lungo, anco un istante,
Prego, un istante solo
Quel dolce riso arridimi
Che l'ombre mi mostrar.

Tratto da:
I Poeti Italiani Selections from the Italian Poets forming an historical view of the development of Italian Poetry from the earliest times to the present. With Biographical notices by Charles Arrivabene Deputy Professor of the Italian Language and Literature in the London University College. London: P. Rolandi - Dulau & C, 1855

 
 
 

De claris mulieribus 008

Capitolo VIII
Iside, Reina d'Egitto.

Isis, la quale innanzi fu chiamata Io, fu non solamente reina degli Egizj, ma finalmente fu sua santissima e venerabile Dea. E nondimeno fu dubbio di che parenti, e in che tempo nata fosse appresso degli antichi scrittori delle storie. Furono alcuni che dissero, quella essere stata figliuola d’Inaco, primo re degli Argivi, e sirocchia di Foroneo; i quali è manifesto avere signoreggiato al tempo di Jacob, figliuolo di Isac. Altri affermano, che ella fu figliuola di Prometeo, essendo signore d’Argo Forbante, lo quale fu molto dopo lo primo tempo. Alcuni affermano, che ella fu al tempo di Cecrope re degli Ateniesi; e alcuni dicono che ella fu al tempo di Liceo, re degli Argivi: le quali varietadi oppresso dei valenti uomini non sono senza ragione. Che questa fosse fra l’altre donne al suo tempo nobile e degnissima di ricordazione, tutti lo affermano. Veramente lasciando le discordie degli scrittori, io ho in animo di seguire quello che i più pensano, cioè, quella essere stata figliuola d’Inaco, la quale benchè gli antichi poeti fingano che ella sia piaciuta a Giove per la sua bellezza e da lui sforzata, e per nascondere il fallo fosse trasmutata in vacca; e sia stata conceduta a Giunone, domandandola ella, e Argo suo guardiano stato ammazzato da Mercurio, e a quella vacca essere stato dato un assillo da Giunone, e ella sia stata condotta in Egitto fuggendo, e in quel luogo ricoverata la prima forma, e dal nome di Io istata chiamata Iside; non si discordano le predette cose dalla verità degli scrittori; essendo alcuni che dicono, quella vergine, fatta corrotta da Giove, e quella per paura del padre stimolata con alcuni dei suoi per lo commesso peccato essere entrata in nave, per la quale era per insegna una vacca; e atta a molte cose, stimolata di cupidità di signorie con prospero vento passò in Egitto, e in quel luogo, trovando la regione atta a suo desiderio, vi si fermò. E non trovandosi per che modo ella acquistasse l’Egitto, è riputato quasi certo che che ritrovasse in quel luogo genti grosse, senza arti, e quasi ignoranti di tutte cose umane e piuttosto viventi a modo di bestie che d’uomini; non senza fatica, e ingegno, e industria di maestria ammaestrasse quegli a lavorare la terra, seminare, e finalmente, ricolta la biada a tempo, ridurla a farne cibo. Ancora mostrò a quegli vagabondi e quasi selvatichi, ridursi insieme, dando legge a quegli civilmente. E (più meraviglioso in una femmina) ridotto a sottilità lo suo ingegno, trovò lettere convenienti al volgare di quegli del paese, e trovò il modo d’insegnarle, e con che ordine quelle s’accozzassero insieme. Le quali cose, tacendo le altre, parvero sì maravigliose a quella gente, che non era usata, che lievemente pensarono, quella non essere venuta di Grecia, ma mandata dal cielo, e per questo le deputarono tutti li divini onori. La cui deità (certamente ingannando il diavolo gl’ignoranti) pervenne dopo la morte in sì grande e famosa reverenzia, che le fu deputato un tempio grandissimo a Roma, già donna del mondo, e fulle deputato, che in ciascun anno le fosse fatto solenne sacrificio secondo il costume d’Egitto. E non è dubbio, che quest’onore trascorse infino alle barbare nazioni di Ponente. E certamente questa così famosa donna ebbe per marito Apis, il quale la erratica vecchiezza pensò essere stato figliuolo di Giove e di Niobe, figliuola di Foroneo, il quale, dicono, che avendo conceduto il regno ad Agtaleo fratello di Actaja, poichè egli era stato re trentacinque anni, andossene in Egitto, e insieme con Isis fu signore, e similmente riputato Dio, e fu chiamato Osiris ovvero Serapis. Benchè siano alcuni che dicono che il marito fu un uomo chiamato Tellogone, e di quello ingenerò Epafo, il quale dappoi fu re d’Egitto: e fu pensato che ella l’avesse generato di Giove.

Giovanni Boccaccio

De claris muljeribus
VOLGARIZZAMENTO
DI MAESTRO DONATO ALBANZANI DA CASENTINO
[ca. 1336 - fine secolo XIV]

 
 
 

La pace der lupo

Post n°1826 pubblicato il 10 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

La pace der lupo

- Correte ché c'è un Lupo che ce scanna! -
strillaveno le Pecore dar monte.
Er Pecoraro, che scoprì l'impronte,
pijò er fucile e uscì da la capanna.
- Lo farò secco come Dio commanna
con una palla in fronte! -

Ma er Lupo ch'era furbo,
viste le brutte, disse: - Famo pace!
So' stato boja, sì, ma me dispiace
e, te domanno scusa der disturbo...
Anzi, da 'sto momento,
sarò più bono, metterò giudizzio
e aggirò con un antro sentimento...
- Nun se frega er santaro (1)!
- rispose er Pecoraro -
Tu perdi er pelo, ma nun perdi er vizzio:
e, a costo de qualunque sacrifizzio,
finché nun sposti, miro,
finché nun caschi, sparo!

Nota:
1 A me non la fanno. Frase originata dalla storiella del santaro (venditore d'immagini sacre) il quale nel giorno d'una canonizzazione gridava in piazza San Pietro: «Un bajocco er Santo novo, e 'r Papa auffa! ("a ufo")» così che venne messo in prigione. Liberato, e ammaestrato dall'esperienza, a chi gli chiedeva perché non gridasse più a quel modo, rispose: «Nun se bùggera (o: nun se frega) er santaro!».

Trilussa

 
 
 
 
 

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Data di creazione: 26/04/2008
 

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