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Messaggi del 19/07/2015

Er buzzico

"Er buzzico" è un recipiente di latta, con il lungo becco, nel quale veniva conservato l'olio per l'uso quotidiano. Nei sonetti del Belli il termine ricorre quattro volte, con due grafie diverse, e viene menzionato in nota ad un sonetto (il numero 685 della raccolta completa), quale spiegazione di altro termine. Riporto qui di seguito tutti e cinque i sonetti.

1 392     |  che gguardi drent’ar buzzico, (5)  ancinella (6) ~tutt’imbottita
2 685 (4)|                         Il buzzico è qui un piccolo vaso d’
3 1373   | trenta ggiorni ar mese~cor buzzico, (5) lo schifo (6) e la stadera.~ ~
4 1688   | Sí, gguarda un po’ in ner buzzico, (5) ma cquesto,~siconno mé,
5 466     | Nova nova~ ~Trapassanno cor bùzzico (1) dell’ojjo~pe annà da la


392. La zitella strufinata (1)



Brutta serva de Ddio, bbocc’a ssciarpella, (2)
sconciatura de Popa e de Falloppa, (3)
che ddopp’ess’ita sediscianni zoppa
mo attacchi a la Madonna la stampella; (4)

che gguardi drent’ar buzzico, (5) ancinella (6)
tutt’imbottita de bbammasce e stoppa,
che cquanno te se smiccia (7) in ne la groppa
pari l’arco pe ddio de la sciammella; (8)

tanta smania te viè de fatte sposa?
Ma cchi vvôi che tte pijji? Basciaculo? (9)
o er zor Jaià: (10) pe tté nun c’è antra cosa.

Cuanno vojji però ppropio l’assarto,
pijja in affitto er buggero d’un mulo,
ché ssi nnò, bbella mia, mori de parto.

Giuseppe Gioachino Belli
3 febbraio 1832 - De Pepp’er tosto

Note:
1 Che si esibisce.
2 Bocca-torta.
3 Maschere ordinarie del teatro romano, oggi andate in disuso.
4 Uso votivo.
5 Losca.
6 Da uncino, uncinello.
7 Ti si guarda.
8 Una specie di emiciclo, avanzo delle terme di Agrippa.
9 Nome di spregio.
10 Simile dato agli stupidi.



685. Lo specchio der Governo

Cuanno se vede ch’er Governo nostro
cammina senza gamme, (1) e ttira via:
cuanno se vede che mmanco Cajjostro (2)
saprebbe indovinà cche ccosa sia:

cuanno er Zommo Pontescife cià mmostro (3)
che cqualunque malanno che sse dia
s’abbi d’arimedià co un po’ d’inchiostro,
co un po’ d’incenzo e cquattro avemmaria:

cuanno se vede che lo Stato sbuzzica, (4)
e cch’er ladro se succhia tutto er grasso,
e ’r Governo lo guarda e nnu lo stuzzica;

tu allora che lo vedi de sto passo,
di’ cch’er Governo è ssimil’a una ruzzica, (5)
che ccurre cure sin che ttrova er zasso.

Giuseppe Gioachino Belli
Roma, 28 dicembre 1832 - Der medemo

Note:
1 Gambe.
2 Giuseppe Balsamo, siciliano, cognominato Cagliostro, famoso impostore del sec. xviii, e tenuto dal volgo per stregone, il quale implicato nella celebre causa della Collana in Parigi, sotto Luigi xvi, morì poi a Roma nel Castel S. Angiolo.
3 Mostrato.
4 Il buzzico è qui un piccolo vaso d’olio per uso giornaliero di familia. Quindi il verbo sbuzzicare, cioè: «versare e sparger (nel nostro caso) danaro».
5 Ruzzola, disco.



1373. Sentite, e mmosca (1)

Istoria de Don Màvero. (2) Lui era
fijjo d’un artebbianca (3) pirolese (4)
che gguadaggnava trenta ggiorni ar mese
cor buzzico, (5) lo schifo (6) e la stadera.

Vedenno dunque che in ner zu’ paese
è un cojjone capato (7) chi cce spera,
pe ffà ssorte pijjò la strada vera,
e ss’aggnéde (8) a vvistí Ccamannolese. (9)

Da frate poi fu eletto Ggenerale,
e slargò er dindarolo, (10) e ssímir (11) cosa
arifesce (12) creato Cardinale.

Finarmente è ssalito ar terzo scelo. (13)
Mó cch’è Bbeatitudine sce (14) tosa,
e er zu’ bbarbiere sce dà er contrapelo.

Giuseppe Gioachino Belli
6 dicembre 1834

Note:
1 Zitto.
2 Don Mauro Cappellari, oggi Gregorio xvi felicemente regnante.
3 Venditore di paste, risi, olio, canape, candele di sevo, pignatte, scope, ecc, ecc.
4 Tirolese.
5 Vaso da olio, con becco, fatto di latta.
6 Arnese di legno da mondar minestre, e da altri usi domestici.
7 Distinto.
8 Andò.
9 Camaldolese.
10 Salvadanaro.
11 Simil.
12 Rifece.
13 Cielo.
14 Ci.



1688. Mariuccia la bbella

È una bbella regazza scertamente:
cqui ppoi nun c’è da repricacce (1) affatto.
Lei se pò vvenne (2) p’er vero ritratto
der paradiso o ppoco indiferente. (3)

L’unica cosa..., ma nnun guasta ggnente,
pare che ffrigghi er pessce e gguardi er gatto, (4)
c’abbi un occhio ar bicchiere e un antro ar piatto,
c’uno azzenni a llevante, uno a pponente.

Sí, gguarda un po’ in ner buzzico, (5) ma cquesto,
siconno mé, l’ajjuta e jje dà ggrazzia
ppiú de la bbocca e ttutto quanto er resto.

Perché la bbocca cor barbozzo (6) e ’r naso
pareno un chincajjúme che sse sdazzia, (7)
lettre de stampa messe inzieme a ccaso.

Giuseppe Gioachino Belli
29 settembre 1835

Note:
1 Replicarci.
2 Si può vendere.
3 O consimil cosa.
4 In questo e ne’ tre seguenti versi, dicesi per vari modi essere ella losca.
5 Vaso di latta da tenere olio a mano per uso minuto e continuo.
6 Mento.
7 Si sdazia.



466. Una Nova nova

Trapassanno cor bùzzico (1) dell’ojjo
pe annà da la Petacchia a Ttor-de-specchi, (2)
te vedo una combriccola de vecchi
lí a le Tre-ppile, (3) appiede ar Campidojjo.

Staveno attenti a ssentí llegge un fojjo
co ccert’occhi ppiú ggrossi de vertecchi, (4)
e in faccia a ttutti mascilenti e ssecchi,
je se scropiva (5) er zegno der cordojjo.

Uno trall’antri a l’improviso strilla,
dannose in zu la fronte una manata:
«Ah ppovera Duchessa de Bberilla! (6)

A ccosa t’è sservito, sciorcinata, (7)
de sapé sscivolà (8) com’un’inguilla?
Sti nimmichi de Ddio t’hanno fregata». (9)

Giuseppe Gioachino Belli
Roma, 20 novembre 1832 - Der medemo

Note:
1 Vaso di latta con sottilissimo e lungo rostro, da riporvi olio per uso giornaliero.
2 Due contrade di Roma, laterali al Campidoglio.
3 Piccolo spazio che prende nome da una colonna su cui sorgono le tre pignatte, stemma di un Pignatelli, papa.
4 Vedi la nota 2 del Sonetto [421] intit° Monziggnor Tesoriere, ove si dà la spiegazione di questo vocabolo [C’è stato a Rroma a ttempo der vertecchio (1): "A tempo antico: modo proverbiale. Il vertecchio è a Roma un anello di legno di forma sferoidale, che si aggiunge al basso del fuso per dargli peso, e valore al girare."].
5 Scopriva.
6 Di Berry.
7 Disgraziata (ciorcinata con la prima c strisciante).
8 Sdrucciolar via.
9 Te l’han fatta: t’hanno oppressa, presa ecc.

 
 
 

La Festa de Noantri

Post n°1851 pubblicato il 19 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

"La festa dura alcuni giorni, definiti scherzosamente «otto giorni di caciara» e coinvolge un po’ tutti, trasteverini, appartenenti agli altri rioni e turisti, mentre si rinnovano le tradizioni, ritornano caratteristiche cerimonie e si ripetono antichi riti.

La devozione alla vergine del Carmelo è un elemento essenziale della festa che sorse in suo onore e che è detta «de noantri» in quanto la Madonna del Carmelo (o Carmine) è nostra protettrice (dicono i Trasteverini).

Fu un appartenente all’ordine dei carmelitani, Simone Stock, a creare questa festa della Madonna che fu detta del Carmine (forma più comune del termine Carmelo, il monte della Palestina dove vivevano alcuni religiosi).

La Vergine apparve nel 1251 allo Stock che volle ogni anno ricordare l’evento miracoloso; e dal 1386 si celebrò questa festa alla metà di Luglio e venne estesa, dopo il 1394, a tutte le chiese da Benedetto XIII.

La statua della Madonna, vestita da terziaria carmelitana non reca in braccio il Bambino, ma protende le braccia in basso.

Ha un ricchissimo corredo di abiti di seta celesti, gialli, bianchi con ricami in oro, tre manti che le donò, la principessa Bianca Caracciolo del Fiorino e corone d’argento o di metallo decorate con gemme.

Ogni anno la vestono con abiti diversi le suore oblate agostiniane di S. Pasquale del convento di Via Anicia.

Due leggende sono all’origine della festa: alcuni pescatori trassero un giorno dalle acque del Tevere la statua della Madonna e la portarono nel loro quartiere per festeggiarla; la Madonna apparve a Simone Stock che istituì la «Confraternita dello Scapolare» in quanto la Madonna aveva fatto la promessa che tutti quelli che avessero indossato lo scapolare, o abitino, sarebbero stati da Lei protetti nel momento della morte.

Alla sacra statua è legato il ricordo dei due còrsi, non altrimenti menzionati, due fratelli scultori del Seicento che acquistarono fuori Porta del Popolo un grande albero, per scolpirvi l’immagine che ancora oggi è oggetto di venerazione.

La processione è solenne e affascinante: la statua è preceduta da un drappello di guardie di pubblica sicurezza a cavallo ed è portata su una «macchina» già attribuita al Bernini, ma attualmente sostituita da un’altra del Novecento, sostenuta dalla robuste spalle di baldi giovanotti. Seguono un corteo di bambine con l’abito della prima Comunione o con le ali da angioletti, le comunità religiose, le confraternite, la banda comunale, le autorità cittadine tra i gonfaloni rionali retti da «fedeli di Vitorchiano» e poi il popolo.

La statua, dopo aver attraversato le vie del rione Trastevere, viene portata nella chiesa di S. Crisogono, dove resta esposta, per la devozione dei fedeli per tutto il tempo dei festeggiamenti e infine è riportata a Sant’Agata.

Quando la processione giunge davanti al convento delle oblate agostiniane di S. Pasquale in via Anicia, i portatori piegano in avanti la «macchina», per far inchinare la Madonna in segno di saluto verso quelle suore che hanno il compito di vestirla con begli abiti.

Nei tempi passati la processione veniva chiamata dei Bucaletti perché curata dalla compagnia dei fabbricanti di bucaletti o boccali; ma i bucaletti c’entravano anche perché pieni di vino venivano offerti dalle donne ai portatori della «macchina»."

Brano tratto da: Carpaneto G., Villa C., Cerchiai C., Quercioli M., Manodori A. (2005), I rioni di Roma - Storia, segreti, monumenti, leggende, curiosità, Volume III, Newton & Compton Editori, Roma

 
 
 

Tre strozzini - Un macellaro

Post n°1850 pubblicato il 19 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

Tre strozzini

I

Un macellaro

Fra li tanti strozzini,
che presteno quatrini
ar novanta per cento, c'è un amico
(er nome nu' lo dico)
che fa un doppio mestiere:
macellaro e banchiere.

Se faccia mejo questo o mejo quello
io nu' lo so davero e lui nemmanco:
der resto nun ce preme de sapello;
è banchiere ar macello
e macellaro ar banco.
Tutti l'affari sui li fa a bottega,
e da questo se spiega
come una vorta me scontò un effetto
mentre tajava un chilo de filetto.

Incominciò cór di': - So' tempi brutti
che va male per tutti:
ciò avuto già tre o quattro fregature
da persone per bene,
da persone sicure.
So' dolori! Credeteme! So' pene!...
V'abbasti a di' che ne la cassa-forte
ce stanno più cambiali che bajocchi.
Eppoi che firme! firme co' li fiocchi!
Principi... duchi... Pare un ballo a Corte!
Vengheno a piagne l'animaccia loro:
chi mille, chi dumila... E a la scadenza:
- Scusa, nun posso: aspetta... abbi pazzienza... -
E sempre 'sto lavoro!
Ma già l'ho detto a l'avvocato mio:
o fòra (1) li quattrini o fate l'atti (2),
perché si nun rispetteno li patti
je fo er precetto (3) quant'è vero Dio!

E voi? volévio (4)? cinquecento (5) tonne (6)?
Va be', faremo cento (7) per un mese...
So' troppe?... Eh, lo capisco, ma d'artronne
avete da pensà che ciò le spese... -
E così me contò cinquanta carte
da dieci lire l'una,
e ce lassò su ognuna
un'impronta de sangue da una parte...

Note:
1 Fuori.
2 Gli atti legali.
3 Intimo di pagamento.
4 Volevate?
5 Sottinteso «lire».
6 Nette.
7 Lire d'interesse.

Trilussa
1912

Trilussa tutte le poesie, a cura di Pietro Pancrazi Note di Luigi Huetter, con 32 illustrazioni dell'Autore e 3 facsimili, Arnoldo Mondadori Editore, V Edizione: settembre 1954, pag. 398

 
 
 

Rime eteree 11-20

Post n°1849 pubblicato il 19 Luglio 2015 da valerio.sampieri
 

XI

I freddi e muti pesci avezzi omai
ad arder sono, ed a parlar d' amore,
e tu Nettuno, e tu Anfitrite or sai
come rara bellezza allacci un core,

da che 'n voi lieto spiega i dolci rai
il Sol che fu di queste sponde onore:
il chiaro Sol, cui più devete assai
ch' a l' altro uscito del sen vostro fuore.

Ché quegli ingrato, a cui non ben soviene
com' è da voi cortesemente accolto,
v' invola il meglio, e lascia il salso e 'l greve.

Ma questi con le luci alme e serene
v' affina, e purga e rende il dolce e 'l lieve,
e molto più vi dà che non v' è tolto.

XII

Erbe felici, che già in sorte aveste
di vento in vece, e di temprato sole,
il raggio di duo luci accorte oneste,
e l' aura di dolcissime parole;

che già dal bianco piè presse cresceste,
e qualor più la terra arsa si duole,
pronta a scemar il vostro ardor vedeste
la bella man, che i cori accender suole;

ben sete dono aventuroso e grato,
ond' addolcisco il molto amaro, e sazio
il digiuno amoroso a pieno i' rendo.

Già novo Glauco in ampio mar mi spazio
d' immensa gioia, e 'l mio mortale stato
posto in oblio, divina forma i' prendo.

XIII

Poi che madonna sdegna
fuor d' ogni suo costume
volger in me de' suoi begli occhi il sole,
qualch' arte, Amor, m' insegna,
ond' io del vago lume
alcun bel raggio ascosamente invole,
e gli occhi egri console.
Né giusto fia che teco ella se 'n doglia:
ché se furommi il core,
fia 'l mio furto minore
quando in dolce vendetta un guardo i' toglia.

XIV

Amor l' alma m' allaccia
di dolci aspre catene:
né mi doglio io perciò, ma ben l' accuso
che mi leghi ed affrene
la lingua, acciò ch' io taccia
anzi a madonna timido e confuso,
e 'n mia ragion deluso.
Sciogli pietoso Amore
la lingua, e se non vuoi
che mi stringa un sol men de' lacci tuoi,
tanti n' aggiungi in quella vece al core.

XV

Aura, ch' or quinci intorno scherzi, e vole
fra 'l verde crin de' mirti e de gli allori,
a destando ne' prati i vaghi fiori
con dolce furto un caro odor n' invole;

deh se pietoso spirto in te mai suole
svegliarsi, lascia i tuoi lascivi errori,
e colà drizza l' ali, ove Licori
stampa in riva del Po gigli e viole.

E nel tuo molle sen questi sospiri
reca, e queste querele alte amorose
là 've già prima i miei pensier n' andaro.

Potrai poi quivi a le vermiglie rose
involar di sue labra odor più caro,
e riportarlo in cibo a' miei desiri.

XVI

Chi di non pure fiamme acceso ha 'l core,
e lor ministra esca terrena immonda,
chiuda l' incendio in parte ima e profonda,
sì che favilla non n' appaia fuore.

Ma chi infiammato d' un celeste ardore
d' ogni macchia mortal si purga e monda,
ragion non è che 'l nobil foco asconda
chiuso nel sen: né tu 'l consenti, Amore.

Ché s' altri (tua mercé) s' affina e terge,
vuoi che 'l mondo il conosca, e ch 'indi impare
quanto in virtù di duo begli occhi puoi.

E s' alcun pur il cela, insieme i tuoi
più degni fatti in cieco oblio sommerge,
e de l' alte tue glorie invido appare.

XVII

Vedrò da gli anni in mia vendetta ancora
far di queste bellezze alte rapine;
vedrò starsi negletto il bianco crine,
ch' ora l' arte e l' etate increspa e 'ndora;

e 'n su le rose, ond' ella il viso infiora,
sparger il verno poi nevi e pruine:
così 'l fasto e l' orgoglio avrà pur fine
di costei, ch' odia più chi più l' onora.

Sol rimarranno allor di sua bellezza
penitenza e dolor, mirando sparsi
suoi pregi, e farne il Tempo a sé trofei.

E forse fia ch' ov' or mi sdegna e sprezza,
poi brami accolta dentro a' versi miei
quasi in rogo Fenice rinovarsi.

XVIII

Quando avran queste luci e queste chiome
perduto l' oro e le faville ardenti,
e di tua beltà l' arme or sì pungenti
saran dal tempo rintuzzate e dome;

fresche vedrai le piaghe mie, né come
in te le fiamme, in me gli ardori spenti,
e rinovando gli amorosi accenti
rischiarerò la voce al tuo bel nome;

e quasi in specchio, che 'l difetto emende
de gli anni, ti fian mostre entro a' miei carmi
le tue bellezze in nulla parte offese.

Fia noto allor ch' a lo spuntar de l' armi
piaga non sana, e ch' esca un foco apprende
che vive quando spento è chi l' accese.

XIX

Quando vedrò nel verno il crine sparso
aver di neve e di pruine algenti,
e 'l seren de' miei dì lieti e ridenti
col fior de gli anni miei fuggito e sparso;

non sarò punto al tuo bel nome scarso
de le mie lodi e de gli usati accenti
né da gel de l' età fiano in me spenti
quegli incendi amorosi, ond' or son arso.

Anz' io, ch' or sembro augel palustre e roco,
cigno parrò lungo il tuo nobil fiume,
che già l' ore di morte abbia vicine.

E quasi fiamma, che vigore e lume
ne l' estremo riprenda anzi 'l suo fine,
risplenderà più chiaro il mio bel foco.

XX

Chi chiuder brama a' pensier vil il core
apra in voi gli occhi, e i doni in mille sparsi
uniti in voi contempli, e 'n lui crearsi
sentirà nove voglie e novo amore.

Ma se scender nel seno estremo ardore
sente da' lumi di pietà sì scarsi,
non s' arretri o difenda, ove in ritrarsi
non è salute o in far difesa onore.

Anzi, sì come già vergini sacre
nobil fiamma nutrir, tal egli sempre
esca rinovi al suo vivace foco:

ché dolcezze soffrendo amare ed acre,
e quasi Alcide ardendo a poco a poco
cangerà, fatto Dio, natura e tempre.

Torquato Tasso

 
 
 
 
 

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Un blog di: valerio.sampieri
Data di creazione: 26/04/2008
 

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